Il Ring a metà
Il nuovo Ring des Nibelungen al Teatro alla Scala, iniziato male col Rheingold, non migliora proseguendo con Die Walküre, benché la locandina ostenti i nomi lussuosi di Klaus Florian Vogt, Günther Groissböck, Michael Volle, Elza van den Heever, Camilla Nylund e Okka von der Damerau; correttezza poco vivida nella direzione di Alexander Soddy e in caduta libera la visione registica di David McVicar.
MILANO, 23 febbraio 2025 – Molto si è già detto del Rheingold di Wagner rappresentato al Teatro alla Scala nell’ottobre-novembre dell’anno scorso: non poteva essere che così, poiché l’avvio di un nuovo Ring des Nibelungen, da completarsi in un anno e mezzo, nel più facoltoso teatro italiano, con ostensione di nomi lussuosi in locandina, ciò implicava e meritava. Peccato che il molto detto sia servito soprattutto a deplorare l’inattesa pochezza del nuovo allestimento: parturient montes, nascetur ridiculus mus. Non bastava la defezione di Christian Thielemann, il quale, per sottoporsi a un intervento chirurgico accertato e necessario, ha tuttavia scelto di sacrificare proprio l’appuntamento con la Scala e ha cancellato col Rheingold, da quella via, anche i tre successivi appuntamenti per Die Walküre, Siegfried e Götterdämmerung, lasciando così il ruolo del concertatore, per sua natura monocratico, a una strana coppia di bacchette formata, con parità sessuale, disparità poetica e incerta suddivisione del lavoro, da Simone Young e Alexander Soddy. Non bastava – si diceva – poiché vi si è aggiunta la spiazzante visione teatrale di David McVicar, un tempo principe dei registi analitico-critici e oggi suddito tra quelli descrittivo-decorativi: la colossale e affilata allegoria sociale wagneriana, nel lavoro di lui, torna a essere ciò che non fu manco per l’autore, ossia una letterale e fiabesca storia di genere fantasy, un po’ come se l’Inferno di Dante fosse spacciato per un divertente racconto di orrorifici mostri e nulla di più.
Il pasticcio scaligero, in tal modo, diviene doppiamente preoccupante. In primo luogo – il caso di McVicar – per la sua cauta ristrettezza di orizzonte artistico, che sembra temere la formazione intellettuale del cittadino. In secondo luogo – il caso di Thielemann – per il suo dar campo al sospetto di una fragilità istituzionale, non congenita ma conseguita, nella quale i contratti firmati hanno valore di parole volanti; francamente troppi, e poveramente risolti, sono infatti stati, anno dopo anno e per un lustro, i forfait di artisti notevoli sotto l’appena conclusa sovrintendenza di Dominique Meyer, bravo a far quadrare i conti e a far comprare i biglietti, ma non altrettanto a dirigere il traffico dei grandi nomi (per chi non ne fosse già al corrente, ciò è esattamente ciò che gli si rimproverava alla Staatsoper di Vienna nel decennio 2010-20; e dirigere la Scala, anziché la Staatsoper, alza i doveri di qualità). Benvenuto, allora, al nuovo sovrintendente, Fortunato Ortombina, che a Venezia ha fatto della Fenice il teatro più accogliente e trasversale d’Italia – nonché il più attento agli artisti italiani – e che alla Scala può finalmente portare ciò che peggio le difetta: la genuina cordialità nel porsi all’utenza e il rimedio da una sterile esterofilia.
Il presente sfogo segue all’ultima recita tra le sei di Die Walküre, andata in scena dal 4 al 23 febbraio: un’ultima recita sprizzante tale salute da essere iniziata con un’ora secca di ritardo, per differito arrivo di un cantante a Milano, e da essere finita tra i mugugni per gli ultimi treni ormai persi (o, in alternativa, per l’ultimo atto abbandonato in itinere; non usa più vincolare l’artista al soggiorno in città o al raggiungerla con sicuro anticipo? e in quale istituzione si confiderà più, se manco la Scala tiene cover pronti in panchina?). Nel recensire questo secondo scomparto milanese del Ring, la stampa ha perlopiù concesso una fiduciosa tregua, essendo la carta della stroncatura già stata giocata sul Rheingold; nessun ripensamento artistico ha però nel frattempo corretto il tiro, autorizzando la delusione a farsi tanto più cocente, severa e annoiata. La regìa di McVicar si avvia anzi alla caduta libera, con tre aggravanti: la prima è che con Die Walküre le spassose fantasticherie iniziano a cedere ai drammi umani, rendendo più urgente che alla soddisfazione degli occhi si affianchi quella di cervelli impegnati; la seconda è che le sempre nerissime scene, di McVicar stesso con Hannah Postlethwaite, inducono biologicamente il sonno e a maggior ragione su quattro ore con meno di quattro idee (correndo lo stesso tetro rischio, Chiara Muti se l’era cavata meglio nel Guillaume Tell della primavera scorsa); la terza è che, se si sceglie la via di un letterale realismo, non si può poi imporre al pubblico di completare con la propria immaginazione ciò che il regista e i suoi collaboratori non sono in grado di realizzare fisicamente: i cavalli delle nove valchirie divengono trampoli molleggiati, tanto quanto un simbolo insensato si traduce in imbarazzo.
Tra i due direttori coinvolti, la Young è quella di più solida carriera e Soddy è quello col futuro più intrigante: correttezza poco vivida – il minutaggio è in sé ordinario ma l’ascolto scorre pesantuccio – si ritrova tuttavia nella guida musicale di quest’ultimo, a dispetto dell’importante occasione wagneriano-scaligera (non più con una sostituzione d’emergenza, ma con un’intera stagione utile di preavviso) e di sue altre letture già ammirate per rifinitezza (un Parsifal a Vienna intorno alla Pasqua dell’anno scorso, per esempio, condotto con plastica ispirazione e pur senza prove). Compagnia di canto appariscente ma, se si osserva bene, tenuta insieme più da una serie di curiosità che da una studiata omogeneità e una reale appropriatezza (pericoloso risulta allora il confronto col Teatro Comunale di Bologna, dove dall’anno scorso è stato avviato un Ring frugale nelle scritture e in forma di concerto, ma sbalorditivo sul piano della caratterizzazione attoriale). Camilla Nylund, per esempio, approccia per la seconda volta la parte di Brünnhilde, in un lodevole intento di ampliare il repertorio: la prova pecca nondimeno di timidezza e risparmio, come se Milano servisse a scaldare la voce prima di passare a più influenti scene germaniche, e insomma non si replica l’epifania di Nina Stemme alla Scala nel 2010. Elza van den Heever, d’altra parte, incarna una Sieglinde così insolitamente sicura di sé – ma anche, va detto, così fredda nell’espressione – da suggerire che una soluzione migliore sarebbe stata invertirla con l’altro soprano. Klaus Florian Vogt presta i propri evanescenti mezzi, tipici di un tenore devoto oltre misura al registro misto, alla scrittura tuttavia baritonaleggiante di Siegmund: il personaggio acquisisce così un inedito lato querulo, poco pertinente e poco invidiabile. Michael Volle non è più nel fiore degli anni e manda ormai avanti il suo (fin troppo) celebrato Wotan per forza di fibra, soprassedendo sul rovello psicologico che del resto né il podio né il regista sembrano aver messo a punto con lui. Günther Groissböck – il ritardatario dell’ultima recita – dà luogo a uno Hunding di maschia arroganza, poco interessato a proporsi quale anti-Wotan, e preoccupa per la precoce usura di smalto. Okka von der Damerau – un mezzosoprano che due anni fa si è tolto lo sfizio di cantare anche come Brünnhilde, e bene – fa infine la parte della guastafeste, poiché la sua Fricka suona facile, scaltra, padrona, matura, senza le mende che affliggono colleghi piuttosto sfocati. Come andranno le cose nel Siegfried del prossimo giugno, basato sulla medesima e già due volte scoraggiante ricetta?
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