L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La ruota del destino

di Roberta Pedrotti

Con La forza del destino Riccardo Chailly sigla una delle sue migliori prime scaligere e una delle sue interpretazioni più interessanti, fra suggestioni manzoniane e leopardiane. Convincono nel complesso il cast e la regia di Leo Muscato. Sugli scudi come autentici protagonisti l'orchestra e il coro della Scala.

MILANO 7 dicembre 2024 - “Salvate Sant'Agata” invoca una voce dal loggione dopo l'inno nazionale. In assenza del Presidente della Repubblica e della Presidente del Consiglio, impegnati a Parigi, accanto alla Senatrice Segre e alle istituzioni locali hanno già preso posto nel palco reale il Presidente del Senato e il Ministro della Cultura, accolti dalla totale indifferenza della sala. Saranno ancora così indifferenti anche le autorità, o l'appello per Villa Verdi troverà prima o poi chi davvero lo ascolti e intervenga prima che sia troppo tardi? Piove su Sant'Agata, non per capriccio del fato, bensì per umanissimi interessi, disinteressi, negligenze. Piove anche su Milano, stasera, e forse sogghignerà il superstizioso (“Potrebbe andare peggio?”) fregandosi le mani con fare d'avvoltoio in attesa di un'opera fra le più complesse, problematiche ed esigenti di Verdi, aureolata dalla memoria di schiere d'interpreti mitici per ciascuna parte. Ma siamo qui, ora, a ragionare non su monumenti da idolatrare in un'arzigogolata accozzaglia di eccessi e iperboli, bensì su un'opera che è, sì, un capolavoro.

Concepita per il pubblico russo dell'epoca, è chiaro che nella Forza del destino Verdi inserisca tutti gli elementi – sostanzialmente ingredienti esasperati da grand opèra – graditi alla committenza e ne conservi gran parte anche nella revisione italiana del 1869 qui eseguita. Tuttavia, da sommo drammaturgo qual è sa metterli a frutto per fare della parabola di Leonora, Alvaro e Carlo, del loro continuo inseguirsi, sfuggirsi, scontrarsi e mascherarsi, una metafora dell'esistenza. Si è più volte, e con sensatissimi argomenti, paragonata la costellazione dei personaggi dell'opera a quella dei Promessi sposi e senz'altro il tema salvifico del conforto della fede fa il paio con la Provvidenza manzoniana, tuttavia, a dispetto dell'epilogo conciliatore del Padre Guardiano, sulla Forza del destino si stende un'ombra leopardiana (nella versione pietroburghese vieppiù nichilista): la sofferenza insita e ineluttabile nella vita cerca, sì, un interlocutore celeste che possa lenirne la pena, ma trova, in questa terra, solo la capricciosa indifferenza di una natura matrigna. Questa cupa, seducente, profonda sfumatura filosofica prende forma nella bacchetta di Riccardo Chailly, che raramente abbiamo trovato così ispirato e incisivo. La sua ritrosia verso l'abbandono melodico non depaupera la cavata verdiana, bensì la rimodella in una tensione implacabile come il dramma esige e rifratta nei vari livelli della trama sonora. Pensiamo al diverso incalzare di Don Alvaro e Don Carlo nel loro ultimo duetto, con diversi fremiti, di aggressiva e gelida provocazione o di ansiosa ricerca di una via di salvezza: “Le minacce, i fieri accenti” scorre leggermente più rapido del consueto, ma per reazione naturale all'implacato furore del contendente e non risulta mai eccessivo. I due vibrano con pari intensità e con affetto differente. E pensiamo al moto soffuso, sussurrato degli archi ad ansimare sottovoce il pensiero di “Urna fatal”. Oppure alla ballata di Pereda, in cui il falso racconto è porto in maniera intima, confidenziale, delicata, facendosi poi sfacciato solo nel finale, quando il rapporto fra il vero e il falso tocca l'akmé e sulla scena Preziosilla dà segno d'aver mangiato la foglia. Non si tratta, però, solo di singoli dettagli: quel che più conta è la continuità del discorso, il suo legame con il dramma pur in un controllo critico, come a dire che, sì, si racconta con partecipazione, ma anche si analizza e si dimostra un contenuto più profondo, scientifico e filosofico.

In questo hanno un ruolo fondamentale i complessi scaligeri, con un'orchestra in forma esaltante per compattezza e duttilità, capace di sferzare e di farsi impalpabile, scontornando interventi solistici da antologia. Il coro, poi, con la fragrante plasticità musicale della parola, merita un posto d'onore nel bilancio della serata e in ogni intervento (come nelle particine dei corifei: Silvia Mapelli, Massimiliano Difino, Mariano Sanfilippo, Guillermo Esteban Bussolini, Giuseppe Capoferri) desta ammirazione per la qualità degli artisti e il lavoro di preparazione di Alberto Malazzi.

Di pari passo con la lettura musicale dettata da Chailly, si inquadra via via il lavoro registico di Leo Muscato. Poco importa che non sia particolarmente originale: è ben fatto, coerente, ricco di dettagli studiati con cura. La metafora universale dell'esistenza si racchiude nel movimento della scena circolare, nello scorrere delle stagioni e dei secoli. Il primo atto si trova in un bosco quasi fiabesco, infantile, che via via appassisce, rinsecchisce, gela e infine, sulle ultime parole del Padre Guadiano e sulle ultime note dell'opera, promette di germogliare di nuovo. L'uso dei tableaux vivants fa temere, all'inizio, esiti stucchevoli, ma sul campo di Velletri quel disporsi di soldatini umani ci ricorda come in quest'opera tragicissima nelle relazioni, segnata da ideali distorti di orgoglio, onore, colpa, vendetta e pregiudizio, la guerra sia in realtà una specie di avventura assai meno feroce, un'occasione di rivalsa per il reietto Alvaro, per non dire un gioco al quale inneggiare allegramente come fa Preziosilla. Ma un gioco non è e il mondo in cui si svolge il quarto atto ne è devastato: il momento in cui Leonora, cantando “Pace mio dio”, raccoglie a terra i frammenti della statua della Vergine cui si era rivolta nel secondo atto è toccante. Così, si riallacciano le fila di uno spettacolo che – nelle scene di Federica Parolini, nei costumi di Silvia Aymonino, nelle luci di Alessandro Verazzi e nella coreografia di Michela Lucenti – all'inizio poteva destare qualche dubbio e che nel complesso si rivela poi onesto e intelligente.

Al netto di un certo divario nella chiarezza e nella pregnanza della parola fra i madrelingua di ceppo latino (gli italiani e Ludovic Tézier) da una parte e slavo dall'altra, la compagnia di canto nel complesso convince. Ormai Anna Netrebko è chiaro che sia in una fase della carriera in cui può permettersi di vivere di rendita, glissare sui propri limiti (peccato davvero che non abbia curato maggiormente la pronuncia o non abbia avertito come una priorità quella di domare costantemente l'intonazione) e farsi forte della presenza scenica, del carisma, di una vocalità schiettamente teatrale, ricca di armonici, propensa a filature e attacchi morbidi come quello della “Vergine degli angeli”. Tanto le basta per cantare una Leonora d'altissimo livello, che ha il suo culmine nell'intensità vibrante e ben articolata di “Pace, mio Dio”. È una bella sorpresa Brian Jagde, che come Don Alvaro sostituisce un Kaufmann ormai crepuscolare con bella vocalità schietta, squillante, rigogliosa: non si fa mai percepire in difficoltà e solo si auspicherebbe un lavoro più approfondito di accenti e colori, che risultano un po' uniformi. Ludovic Tézier, invece, è la conferma del Don Carlo di riferimento dei nostri giorni, magari meno sinistro e disturbante che in altre occasioni, ma sempre autorevolissimo per qualità vocale, gesto e parola scenica, il più completo e saldo fra gli interpreti principali.

Buffo di vaglia, più basso che baritono, Marco Filippo Romano incarna un Melitone torvo, cinico e tagliente; Alexander Vinogradov propone una bella lettura, nobile e umana, del Padre Guardiano, ma non lo aiutano a compierla al meglio la fonetica e la cavata slaveggianti. Una lezione in questo senso la dà, per l'uso della voce, dell'evoluzione del timbro e della tecnica incrollabile, Carlo Bosi nei panni di Mastro Trabuco. Molti interrogativi sorgono, invece, ascoltando la Preziosilla di Vasilisa Berzhanskaya. Fa bene, è innegabile, ma siamo sicuri che muovendosi con questa rapidità fra repertori e registri stia definendo una sua autentica personalità d'artista e non si stia mettendo a rischio come fenomeno tuttofare? Proprio perché ha un grandissimo potenziale si percepisce il pericolo che si disperda.

Ricordiamo ancora il Marchese di Calatrava di Fabrizio Beggi, la Curra di Marcela Rahal, l'Alcalde di Huanhong Li e il chirurgo di Xhieldo Hyseni, questi ultimi rispettivamente recente e attuale allievo dell'Accademia della Scala.

La serata è punteggiata da crescenti applausi a scena aperta ed è per buona parte del pubblico un pieno successo; qualcuno dissente e fin da “Me pellegrina e orfana” prende di punta Netrebko contestando poi anche Jagde e Berzhanskaya. Nel duello fra opposte fazioni in loggione gli apprezzamenti sembrano avere nettamente la meglio, ma la minoranza dei “Bu” non demorde fin quasi all'ultimo. Non ne capiamo il motivo: naturalmente, ogni artista può avere i suoi limiti e ogni tipo di vocalità e interpretazione può piacere o meno, ma fra l'entusiasmo al calor bianco e la condanna assoluta esistono infinite sfumature che pensiamo sarebbe bene recuperare senza vivere di estremi. Non ce lo insegna un po' anche la tragedia di Carlo, Leonora e Alvaro?

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