L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Qual occhio al mondo può star di paro

di Roberta Pedrotti

Il trionfo annunciato è un trionfo autentico e meritato per una Tosca grandiosa come si conviene a una prima scaligera, ma anche intelligente, moderna, libera dai cliché, grazie a un lavoro di squadra straordinario fra un cast stellare, la bacchetta ispiratissima di Chailly e un Davide Livermore al suo meglio.

Milano 7 dicembre 2019 - Sia caso o fortuna, non era mai stata scelta, Tosca, per l'onore di una prima scaligera. Era arrivata prestissimo al Piermarini, nel marzo del 1900 e con Toscanini sul podio, ma la serata inaugurale ancora mancava. Riccardo Chailly, nel suo percorso dedicato all'opera italiana fra Otto e Novecento, compie finalmente il passo tanto atteso e, possiamo ben dire, che non abbiamo aspettato invano e che la lunga latitanza è stata ampiamente ripagata.

Sarebbe facile render semplicemente conto del trionfo, autentico, e della pioggia, autentica e interminabile, di petali di rose sul proscenio nel quarto d'ora abbondante di ovazioni finali - seguite da un'ultima acclamazione per il Presidente Mattarella a luci ormai accese. Sarebbe facile e veritiero, per un successo che poteva ben dirsi annunciato: la Scala in gran spolvero sfodera il meglio di sé nella sua grande soirée, Chailly ha in Puccini un suo amato terreno d'elezione ed è ormai assodata la sintonia con il regista Davide Livermore, nel cast sfila l'Olimpo lirico internazionale. Ci si potrebbe beare della cronaca fra osanna e incensi senza sbagliare, ma non si renderebbe giustizia a questa Tosca fermandoci alla superficie, ai brividi, alle lacrime, al battimani, alle esultanze.

Passioni politiche, mistiche, erotiche; sangue, sesso, violenza. Tosca è la summa per eccellenza del melodrammatico, e se il melodrammatico rischia di diventare cliché, proprio in una Prima della Scala si può cogliere l'occasione, sotto gli occchi avidi del mondo operistico, per scandagliare vie diverse, pur sempre nella cifra sfavillante dell'evento. Per Chailly la chiave è costituita dalla ripresa di una manciata di battute che Puccini già intorno al debutto assoluto tagliò o cambiò. Un'operazione, dunque, che si presta a mille dibattti filologici: è legittimo tornare sui passi dello stesso autore? L'indubbio interesse scientifico del processo creativo pucciniano come si sposa con la contingenza teatrale? Tutta materia interessantissima per esegesi e convegni, ma resta il fatto che siamo costretti a tendere un po' più l'orecchio rispetto alle altre mille Tosche della nostra vita, constatando magari che il Sor Giacomo ha fatto un gran bene a liberarsi di quelle paroline in più sull'arte di farsi amare nel primo atto, o nel far soffermare, recitando l'estratto dal Dies irae, Spoletta sulle parole ben più incisive "Nil inultum remanebit" ("Nulla resterà impunito", mentre in questa prima stesura cantilena i participi futuri meno pregnanti del Quid sum miser), o ancora nel render meno enfatico il "Mario mio... finire così". Invece, se l'urgenza del dramma che già faceva mal sopportare l'idea di una preghiera per il soprano ha imposto di cassare la chiusa di "Vissi d'arte" con un piccolo scambio di battute fra Floria e il suo aguzzino, riascoltare ci rende un senso di completezza, evita ogni tentazione di chiusa a effetto e completa l'espressione del dolore in un istante di sospensione. La morte stessa di Scarpia è agitata, ed estesa, da qualche battuta in più o differente, ma soprattutto i finali del Te Deum e del volo di Tosca, sensibilmente dilatato, suggeriscono una prospettiva mutata, se sente ancora l'eco del tardo romanticismo di marca wagneriana, un uso meno disinvolto dei temi conduttori, un'elasticità del tempo - che poi in Tosca diverrà quantomai teso e realistico - che sublima l'estremo sacrificio invece di renderlo fulmineo e spiazzante. Qui s'inserisce, allora, anche la sensibilità di Davide Livermore, regista ma anche cantante e musicista a sua volta, che coglie questi aspetti d'alterità e ne fa marca distintiva dello spettacolo. Cambiano le didascalie del finale secondo, la distribuzione dei gesti, e allora ecco una Floria impietrita che rivede se stessa nell'atto di pugnalare il tiranno: un'immagine quasi neoclassica, quasi un dipinto di David, ma anche l'incubo inesorabile di una donna buona, semplice, timorata che si trova le mani sporche di sangue, un incubo che si ripete nella smorfia contratta alla fucilazione di Mario, come se già sapesse che le pallottole erano vere. E quando si getta da Castel Sant'Angelo, quella sua stessa anima che le era apparsa assassina e vendicatrice ora si rivede flutturare nel vuoto, l'istante sospeso della fine, della liberazione; se sia precipizio o ascensione non è dato saperlo, forse entrambi, come sembra suggerire il bel costume pensato da Gianluca Falaschi, rosso di sangue e passione, celeste di purezza e tensione ideale. Rosso, celeste: quando Tosca lo mostra per la prima volta, entrando nello studio di Scarpia, indossa anche lunghi guanti di raso bianco, e sembra un tricolore francese, giacobino, volterrian (chissà se il cinefilo Livermore con il suo costumista avrà pensato al bracciale di zaffiri diamanti e rubini rimproverato da Scarpia-Gasmann a Tosca-Vitti nel film di Luigi Magni?).

I costumi, è vero, parlano in questo spettacolo, parlano i soprabiti sporchi di sangue degli sbirri, parla il rosso passione e dolore (in toni diversi) che tocca sempre gli abiti di Floria, nel primo atto con una mantellina di velo sulle spalle della donna devota ma ardente che in chiesa va con gonna nera e camicia castigatissima, ancorché non esente da trasparenze. Parla la rilettura delle fogge napoleoniche, con quella punta di astrazione che sfuma e apre la collocazione cronologica: siamo sicuramente nel 1800, ma siamo anche in ogni tempo e quando il bramoso Scarpia si sfila la giacca da camera per avventarsi sulla preda resta in un nero che pare già orbace. 

Illuminate in maniera superba da Antonio Castro (cosa sono quei giochi di luce nelle tende, le aperture di porte e finestre, la penombra raccolta intorno alla primadonna per "Vissi d'arte"), le scene di Giò Forma sono una meraviglia. C'è chi ha abusato del termine "cinematografico": in realtà sono teatralissime, un'esaltazione dell'idea di macchina scenica, della mutazione a vista e dunque anche di barocco, dello stesso barocco romano che è l'habitat naturale imprescindibile di Tosca. Anche l'uso delle proiezioni (di D-Wok) è parco e perciò segnante, elemento moderno della meraviglia antica del teatro. E in questa meraviglia tutti recitano in maniera eccellente, con una chiarezza e una naturalezza che mostrano, oltre alle virtù di tutti gli interpreti, la mano più felice del miglior Livermore.

Recita anche l'orchestra, che si fa di seta, avvolgente e insidiosa come una ragnatela, quando Scarpia avvicina Tosca con l'acqua benedetta. Ispirato forse proprio dalla versione scelta e leggermente dilatata, Chailly trasforma il suo lavoro di cesello sonoro in autentico teatro, come quando giostra ad arte la tensione sadica con alleggerimenti ad arte nella descrizione della tortura, tanto trucida nel testo da non necessitare di sottolineature, anzi, tanto più implacabile nella nonchalace con cui Luca Salsi e l'orchestra soppesano l'immagine del cercho uncinato che sprizza sangue senza mercé. O, ancora, non si può non citare il canto strumentale fuso a quello, sfumatissimo, di Francesco Meli in "E lucevan le stelle", con quel sorgere tuttavia implacabile di richiami funebri negli ottoni. Non c'è istante che non venga coccolato dalla bacchetta, che non venga reso vibrante, teatrale, che nons i permei di sincera adesione e suggestione, di autentica compenetrazione intellettuale, con una sensibilità anche al canto che oggi Chailly esprime forse come non mai. Anzi, perfino l'errore diventa occasione di teatro, di verità, quando la coesione artistica e la qualità degli interpreti è di questo livello: dopo l'ordine dato a Spoletta Anna Netrebko-Tosca ha un piccolo lapsus e invece di "Voglio avvertirlo io stessa" ripete "Chi m'assicura?", ma l'imprevisto è subito risolto e sembra divenir quasi naturale, con Chailly che sospende il discorso, Salsi che pronto le ribatte fra i denti "L'ordin che gli darò...". Tutto si rimette immediatamente, perfettamente in carreggiata, e non abbiamo assistito a un inciampo, ma all'umana variabilità che è propria di ogni recita teatrale, che la rende viva e che qui perfino si risolve in maniera significativa: sembra sottolineare l'ansia di Tosca, il suo presagio, mentre Scarpia spazientito la zittisce. 

Anna Netrebko, dunque. La diva per eccellenza. Tosca non può essere che lei, grande in tutto, bellissima, sempre sicura, sempre padrona della scena. Canta con quella nauralezza disarmante - e pertanto soggiogante - che non si può non riconoscerle, come se nulla le costasse fatica, sempre timbrata in tutta la tessitura, con quel registro grave potente e sensuale, quell'acuto sempre pronto, quella capacità di porgere con semplicità toccante. La sua Floria, infatti, appare nel primo atto come una donna semplice, felice, innamorata, gelosa, sì, ma chiusa in un mondo tutto sommato sereno, che ignora quell'abnorme fardello di tragedia vera che di lì a poco le sarà scaraventato addosso. "Ed io veniva a lui tutta dogliosa" è dolcissimo, dolente, è la massima sofferenza che lei in quel momento può patire, ma non è nulla rispetto a quel che avverrà dopo l'arresto di Mario, e Anna Netrebko - con Chailly e Livermore - lo sa bene. Con la voce ampia di oggi rivive l'interprete di parti più soavi di qualche anno fa, perché questo è Tosca, all'inizio: una cantante, una giovane donna di successo che ama ed è amata. Allora, anche nello studio di Scarpia nel secondo atto, lei entra sicura della sua scenica scienza, l'espressione è più solenne, autoritaria, coturnata e non per nulla il barone l'apostrofa "Mai Tosca alla scena più tragica fu": anche al colmo - così crede - della disperazione agisce come un'eroina sul palco, minaccia "piuttosto giù m'avvento", pensa di risolvere la questione come nelle pièce à sauvetage di moda fra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo, come in quelle opere semiserie che avrà cantato tante volte. Anche là c'era sempre un magistrato, un notabile, un piccolo tiranno che insidia la primadonna, ma l'intervento di un deus ex machina, regnante magnanimo e illuminato, garantisce il lieto fine. Qui, però, "è fallace speranza: la Regina farebbe grazia ad un cadavere!". Le parole di Scarpia riportano alla realtà, questa è la realtà, e Tosca capisce che la vita non è il suo mondo d'artista, qui comincia il suo vero dramma e lo sentiamo nel colore della voce di Anna Netrebko, in quella pasta che prima era scura e omogenea nella posa neoclassica, ora s'increspa nel dolore umano fra suoni atri, abbandoni, un "Vissi d'arte" sussurrato con profondissima semplicità, un terzo atto da manuale.

Il momento della "fallace speranza", peraltro, è colto perfettamente da Livermore nel suo accuratissimo lavoro attoriale (si pensi alla cantoria, dove ogni elemento è ben caratterizzato) ed è qui che, per la prima volta, Scarpia e Tosca si toccano, che quella tensione suggerita fin dal primo incontro sfocia nello scontro fisico, nel tentato stupro (pochi istanti dopo aver rassicurato "violenza non ti farò"). Anche nello Scarpia di Luca Salsi si nota, peraltro, la ricerca profonda al di là del cliché che sfocia in una lettura d'estrema naturalezza. Questo barone non assomiglia a nessun altro, ma, forte e sicuro di sé, persegue i suoi scopi con imperturbabile calma, conscio che, nella sua posizione di potere, la foga, la brama ferina, perfino il gioco sadico portato all'estremo è superfluo. La religione bigotta e di facciata è il suo scudo, la sbirraglia insanguinata il braccio che gli assicura l'ordine mantenendo le mani pulite: abile propaganda, violenza strumentale. Non occorre altro a un personaggio modernissimo e, pertanto, terrificante, che Salsi, forte di un canto sempre bene a fuoco, rende con implacabile e sottile sicumera. Quell'evidenza sconcertante e quotidiana del male che vede se stesso come logico e naturale ha come perfetto contraltare il Cavaradossi di Francesco Meli, anche lui in gran forma e capace, con la virile e fresca luce del suo timbro, di dar vita a un giovane artista imbevuto di ideali, un uomo consapevole, intelligente, pronto e ardimentoso, fiero e innamorato, deciso nelle perorazioni politiche quanto capace di intimo e sfumato raccoglimento nell'addio alla vita. Anche qui, il cliché si spazza via in favore di una visione ben ponderata, che guarda al personaggio plasmato sulla scena nella musica e non alla spacconeria tenorile e al sentimentalismo ben piazzato. Come per il "Vissi d'arte" di Anna Netrebko e per il "Te Deum" di Luca Salsi con il coro scaligero, anche "E lucevan le stelle" scatena, giustamente, l'entusiasmo del pubblico.

Se si cala il tris d'assi per i tre protagonisti, il cosiddetto comprimario non è da meno, a partire dal Sagrestano superlativo di Alfonso Antoniozzi, come sempre un prodigio d'intelligenza nel gesto e nel canto sulla parola. Nondimeno superbo, come sempre, lo Spoletta di Carlo Bosi, cui il passare del tempo conferisce nuovi strumenti per definire uno sbirraccio duro e inacidito, un veterano del manganello che sembra non temere nemmeno Scarpia, ma perseguire la sua malsana idea di ordine come un manzoniano "vecchio malvissuto". Carlo Cigni è un accorato Angelotti e Giulio Mastrototaro un tagliente Sciarrone, tuttavia è Ernesto Panariello, veterano fra i veterani del glorioso comprimariato scaligero, a suscitare un pizzico di commozione con il suo perfetto Carceriere, proprio dopo aver ascoltato il più piccolo della compagnia, il Pastorello di Gianluigi Sartori, che una volta tanto ci fa sentire un bel timbro di ragazzino.

Nel lodare l'eccellenza (autentica, fuori di formula usurata) del Coro - adulti e voci bianche - preparato da Bruno Casoni, non possiamo non associare tutti i comparti tecnici della Scala, tutti coloro che hanno contribuito a fare di questa Prima, debutto di Tosca in apertura di stagione, non un successo annunciato, ma il successo vero e sentito che l'opera si merita, portando a riflettere sul capolavoro che troppo spesso si dà per scontato, il trionfo del teatro in tutte le sue dimensioni, comprese - perché no? - quella mondana, quella sociale, quella politica, con il confortante abbraccio collettivo al Presidente Mattarella e alla Senatrice Liliana Segre. 

foto Brescia Amisano


 

 

 
 
 

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