L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L'orrore e la speranza

 di Roberta Pedrotti

 

Non poteva darsi titolo migliore di Attila per l'abbraccio del Teatro alla Scala a Sergio Mattarella, che unisce idealmente il messaggio etico e politico verdiano all'attualità. Sulla scena, trionfano Ildar Abdrazakov, Saioa Hernàndez e George Petean, che con Fabio Sartori, Francesco Pittari e Gianluca Buratto compongono un cast ai massimi livelli internazionali.

MILANO, 7 dicembre 2018 - "Il forte si mesce col vinto nemico, | Col novo signore rimane l’antico; | L’un popolo e l’altro sul collo vi sta. | Dividono i servi, dividon gli armenti; | Si posano insieme sui campi cruenti | D’un volgo disperso che nome non ha." Suonano così affini allo spirito di Attila, e insieme a esso così amaramente attuali, i versi dell'Adelchi, che raccontano la storia come una catena di sopraffazioni e di divisioni, di inganni e di abusi. E nemmeno la divina Provvidenza in cui confida Manzoni può considerarsi risolutiva, basti pensare a quanto calamitosa sia stata la definizione di "uomo della Provvidenza" nella nostra storia nazionale e di come Attila stesso, nell'opera verdiana, in un certo senso lo sia, se ascoltiamo papa Leone ricordargli "Di flagellar l'incarco contro i mortali hai solo". Come un diluvo universale, come una piaga biblica, la ferocia degli unni sembra dunque ineluttabile necessità storica e cesura fondamentale fra decadenza e rinascita. Nel quadro fosco si ricorda il passato di una patria "già madre e reina di possenti, magnanimi figli" e di "immortali culmini", si getta uno sguardo di speranza verso una rinascita "qual risorta fenice novella", uno slancio all'azione per non vedere "l'amata terra svenir lenta e farsi a brano". Il mondo fosco dell'Attila e dell'Adelchi, il mondo che cerca una speranza in un meccanismo crudele che non sembra concederne, è anche il mondo di oggi, e proprio in questa prima scaligera lo viviamo nella nostra pelle con la presenza del Capo di Stato Sergio Mattarella, ben più, stasera, di un semplice rappresentante istituzionale. O meglio, un vero, profondo rappresentante dell'istituzione chiamato ora, come Leone e la sua schiera di innocenti disarmati, a fronteggiare i flagelli della violenza, dell'ignoranza e della disumanità. Getta così anche un ponte ideale con il messaggio verdiano, sempre vivo e sempre vero, già prima che il sipario si alzi, quando tutta la Scala resta in piedi, fissando il palco reale, e applaude vigorosamente il Presidente per cinque minuti buoni. Minuti intensissimi, commuoventi, prima d'intonare a una voce, e senza retorica, ma con quel misto di dolore e speranza, di sdegno e orgoglio di cui Verdi è alfiere, l'inno di Mameli.

Si leva il sipario e tutta l'opera vive in quel momento, per quel pubblico, con il rappresentante della Repubblica e garante della Costituzione quando risuonano i versi più politici, in senso stretto o in senso lato, quando i profughi sbarcano esausti sulle isole della laguna e vengono accolti fraternamente, soprattutto quando Ezio sembra rivolgere la sua cabaletta "È segnata la mia sorte" proprio al palco presidenziale. George Petean canta benissimo, è un baritono di gran classe e fa piacere che la Scala l'abbia scritturato per la sua serata più importante: l'eleganza, la nobiltà, l'ispirazione con cui intona "Dagli immortali culmini" rappresentano una delle perle della serata, ma è proprio la cabaletta che arriva perfino a turbare, complice la bacchetta di Riccardo Chailly che non imprime alcuna baldanza trionfale, ponendo l'accento sull'idea della morte dell'"ultimo romano", più che sulla risoluzione all'azione. Una vena cupa, sconfitta sembra convertirsi in un'accorata perorazione e perfino l'ardimento della puntatura al Si bemolle, che in Cappuccilli aveva tutt'altro spavaldo sapore, suona con un accento disperato che lascia attoniti e fa pensare.

Fa pensare anche l'Attila di Ildar Abdrazakov. Impossibile dimenticare la vittoria in diretta televisiva da Parma, al concorso Maria Callas nel 2000, di un bel giovanotto russo che cantava "Mentre gonfiarsi l'anima" con voce splendida e uno sguardo che bucava lo schermo. Oggi al carisma e al talento vocale si unisce la maturità dell'interprete, che si fa strada con intelligenza scena per scena. Il grande condottiero non ha bisogno di gonfiare le gote con atteggiamenti protervi e tribunizi, è freddo, circospetto, quasi discreto al suo ingresso in perlustrazione sul campo di battaglia, mormora fra sé e si sdegna senza perder la calma nel confronto con Ezio. Dimostra un invidiabile autocontrollo, evidente quando lo vediamo solo confrontarsi con i suoi fantasmi interiori, con incubi, visioni, presagi. La sua grande aria e tutto il finale del primo atto sono dei capolavori di fraseggio in cui emerge l'inquietudine profonda dell'incubo cui si reagisce e che tuttavia ritorna rinnovata e spinge a una nuova riflessione a una nuova evoluzione psicologica. Allora, nel secondo atto, appare più fiero e spavaldo, perfino quando annuncia a Odabella "tu doman salutata verrai | dalle genti qual sposa del re" rivela una ferocia repressa e profonda finora celata, quasi inimmaginabile, in contrasto sconcertante con l'invito subito seguente a "gioia e canti" e connesso piuttosto al ritorno proclamato del "vindice flagel" (e vindice, si sa, nel vocabolario dantesco ricorrente nel libretto, è termine strettamente legato alla giustizia divina). In quell'istante Abdrazakov, solo con il colore della voce e con l'inflessione della parola, fa di Attila un infernale strumento divino, ma anche un parente stretto del Mahomet del Siège de Corinthe rossiniano, che con tono simile minaccia "Que le soleil, témoin de ma victoire, demain cherche Corinthe et ne la trouve pas". Mahomet ama e sta per sposare una donna nemica, una donna che per volere del padre deve odiarlo ed è armata di pugnale, una donna che per salvare il suo promesso sposo lo fa passare per suo fratello (e "fratello" è l'appellativo che Odabella rivolge qui a Foresto), l'atto si chiude fra minacce e proclami patriottici: difficile pensare che Verdi non l'avesse presente. Abdrazakov, che è cantante verdiano di prim'ordine ma vanta anche una variegata militanza rossiniana, lo dimostra e aggiunge un ulteriore, seppur sotterraneo, tassello alla celebrazione del centocinquantesimo dalla morte del Pesarese con l'inserimento delle battute composte "sans permission" per introdurre un'esecuzione in concerto del terzetto "Te sol quest'anima" (quasi la versione tragica del terzetto finale del Barbiere, con gli amanti a tubare e il baritono a spronare all'azione) e debitamente orchestrate per l'occasione.

Se l'Attila di Abdrazakov arriva alla Scala dopo un lungo cammino già consacrato, l'attesa per Saioa Hernandez era fibrillante, come la speranza di veder confermate le belle premesse delle sue prove nel repertorio del tardo Ottocento e della Giovane Scuola italiana. L'importanza dello strumento non era, dunque una sorpresa, anche se la conferma al Piermarini è delle più felici, ma la corroborano i nervi saldi, la musicalità solidissima sia nel canto di sbalzo e nelle variazioni della sortita sia nell'accidentata delicatezza della romanza, la forza dell'interprete. Nel momento fatidico in cui finalmente Odabella compie la sua vendetta e, evocata "l'ombra gigante" del padre, trafigge Attila (momento ambiguo d'esultanza e liberazione in cui echeggiano le ultime parole di Cesare a Bruto, da Dante indicato come pari di Giuda), il timbro si incupisce: la voce non suona mai falsa, artificiosa, ma l'artista inventa un colore, un accento per concretizzare l'istante in cui la donna guerriera rinnova finalmente "di Giuditta l'istoria" e si fa vendetta, anche di divina giustiziera. Questo 7 dicembre consacra un'artista di grande spessore votata a un repertorio che ne ha disperato bisogno.

Veterano nei panni di Foresto, già vestiti anche alla Scala, Fabio Sartori può apparire il meno interessante della compagnia, ma si disimpegna con onore e, soprattutto, offre il suo momento migliore proprio nella pagina più attesa, l'aria alternativa "Oh dolore" scritta per la prima milanese di Attila (nello stesso 1846 del debutto assoluto veneziano) con Napoleone Moriani, un bel pezzo in cui evidentemente trovava ottimo gioco lo charme donizettiano del "tenore della bella morte". Nondimeno, risultano efficaci, al livello che in queste occasioni ci si aspetta anche per le parti cosiddette minori, l'Uldino incisivo di Francesco Pittari e il timbrato Leone di Gianluca Buratto, che la regia di Davide Livermore immagina come incarnazione del pontefice nell'affresco di Raffaello in Vaticano. Oltre che un indubbio banco di prova (e, considerato il suo ben noto talento, facilmente anche una grande occasione di divertimento nell'alternanza con un'ambientazione genericamente collocata fra le due guerre mondiali) per il costumista Gianluca Falaschi, l'idea di collocare l'incubo di Attila fra le rovine nelle sale della Signatura (scene apocalittiche in stile Germania, anno zero, di Giò Forma), rifacendosi proprio all'esplicito riferimento iconografico invocato da Verdi, è forse l'intuizione più felice di questo spettacolo. Il dipinto prende vita, ma sempre in una dimensione onirica decisamente azzeccata secondo le indicazioni dell'autore, e segna un po' la cifra dell'intero spettacolo, che utilizza spesso movimenti coreografati delle comparse, immagini che si materializzano nei video di D-wok sul fondo, dettagli che oscillano fra surreale e iperrealismo. Non sempre convince (proprio la continua alternanza fra tableau vivant e moto ritmato delle comparse può finire per stuccare, così come lo scoppiettìo dei colpi sparati a salve) o illumina con soluzioni indimenticabili: insomma, non spicca il volo, questo spettacolo, che tuttavia funziona con una sua precisa identità. Indubbiamente l'immagine novecentesca di un popolo occupante, di un esercito che gli si oppone e di una forza popolare che insorge per la libertà è sempre coerente con il testo e monito prezioso per i contemporanei. Una parte del ponte che lega Mattarella, e la senatrice Liliana Segre in un palco poco distante, alla forza del messaggio verdiano. Certo, in una ricerca iconografica così puntigliosa da Raffaello allo steampunk, spiace un po' che - presumibilmente per esigenze di ripresa televisiva - alla prima risultassero un po' sacrificate le luci, a firma di Antonio Castro, così fondamentali nel disegno del compositore.

L'orchestra e il coro (preparato da Bruno Casoni) si presentano in forma smagliante, precisi, incisivi, limpidi e vigorosi. Riccardo Chailly è come sempre concertatore di grande finezza, cesellatore del dettaglio, devoto con cura particolare alla ripulitura di questo repertorio da eccessivi turgori quarantotteschi o abusi stilistici. Tuttavia non rinnova il miracolo di Giovanna d'Arco del 2015 [leggi la recensione]: il lavoro di sala con gli interpreti è palpabilmente minuzioso, soluzioni come quella della cabaletta di Ezio meritano un plauso, ma proprio per questo si sente la mancanza di un pizzico di libertà in più, del gusto di lasciar cantare in senso, si perdoni il bisticcio, belcantistico, non arbitrario, insomma, di "rubar con garbo e a tempo" e lasciarsi anche un pochino andare alla melodia. Con un cast di questo livello, con una tale chiarezza musicale, sarebbe piaciuto vedere rigore e fantasia andare a braccetto con più entusiasmo reciproco. Ad ogni modo, son considerazioni che nascono comunque in un livello d'eccellenza, proprio perché ci troviamo ad ascoltare uno dei migliori Attila possibili oggi.

Infatti, se si eccettua qualche contrasto all'uscita di Livermore e dei suoi collaboratori, il successo è completo, vivo e vibrante. Quindici minuti di applausi, con il Presidente in piedi a esprimere con tutto il pubblico il suo apprezzamento, per poi raccogliere, a sua volta, ancora il calore della folla dentro e fuori il teatro alla sua uscita. Ed è bello ricordarci ogni tanto che il teatro è parte fondamentale, anzi, come nella polis greca, cuore autentico, della società civile: speriamo che sia anche d'auspicio e stimolo per un avvenir migliore.

foto Brescia Amisano

foto Brescia Amisano


 

 

 
 
 

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