La musica quale lingua dell’anima
di Andrea R. G. Pedrotti
Dopo L'elisir d'amore del 2010, Rolando Villazòn torna alla Scala per un recital solistico con un accompagnatore pianistico d'eccezione come Daniel Barenboim. La passione e la comunicativa del tenore franco messicano, la cui generosità è pari solo al profondo rispetto per la musica, il pubblico e il teatro, filtrate da un'intelligente musicalità e da una cultura non comune, scatenano un successo travolgente ed emozionante.
MILANO, 25 maggio 2014 - A quattro anni dal debutto scaligero Rolando Villazòn torna a calcare il palcoscenico del Piermarini, con un recital di canto che certamente resterà a lungo impresso nella mente di chi abbia avuto la fortuna di assistervi. Visibilmente emozionato e animato da profondo rispetto per la sala che ha ospitato, innalzato o precipitato tanti artisti, decide di proporre un programma intelligente e niente affatto scontato, dando ulteriore prova della sua cifra artistica.
La prima parte del concerto è interamente dedicata all’esecuzione della Dichterliebe di Robert Schumann, connubio di poesia e musica esemplare del romanticismo tedesco la cui composizione risale proprio al 1840, ai mesi precedenti alla lieta unione fra Schumann e l’amata Clara. Il travaglio precedente alle nozze, incerte fino all'ultimo, si riflette nel breve racconto d’una storia d’amore, struggente e dal finale tragico, che si sviluppa nella raccolta liederistica. I testi, tratti dal Buch der Lieder di Heinrich Heine, delineano percorso completo nei sentimenti, denso di struggimento, sogno e melanconica allegria, nella nostalgica consapevolezza che il passato sia l’unico tempo immutabile della propria esistenza.
Il filo conduttore del mesto sentimento amoroso è seguito dal tenore messicano con impressionante intensità di fraseggio, variazioni di colore. Pare veramente cantar l’anima con l’anima, entrando in sintonia con le corde più intime del pubblico, fino a renderlo pienamente partecipe del senso più profondo dalla scrittura musicale. Ogni sfumatura è resa con piena consapevolezza tecnica: la voce pare scomparire in un flebile filo nelle mezzevoci, mentre si libera appieno in bello squillo quando parole e musica lo richiedano. Tutti i registri sono finemente messi a fuoco, con esecuzione di passaggi sopra e sotto il rigo di egual efficacia; gli armonici sono coinvolgenti e penetranti, propri di un artista capace di rendere il meglio di sé in esecuzioni teatrali. Non importa avere o meno padronanza della lingua tedesca per comprendere quale sia il contenuto dei bei versi di Heine; Villazòn, con espressione che raramente ci è capitato di udire, rende ogni singola parola nel suo più intimo significato linguistico, tanto da essere interrotto dal pubblico in più di un’occasione con sinceri e meritati applausi.
La seconda parte del concerto trasferisce le emozioni dal ragionato e vibrante mondo teutonico a un’atmosfera tipicamente latina, dalla Spagna all’Italia, sino a tornare in Iberia, principiando dalle Siete Canciones populares españolas di Manuel de Falla. Parimenti alla prima parte del concerto, anche questa seconda racconta il percorso spirituale di un uomo attorno al centro focale della figura femminile e del dramma dell’abbandono. Rolando Villazòn sceglie questi brani senza lasciar spazio all'ipotesi di una predilezione semplicemente legata ai suoi natali; sarebbe stato semplice, forse scontato inserire brani più noti o di puro effetto, ma proprio l’effetto e la passione giungono ugualmente, grazie al suo canto, passando dalla tristezza dell’Asturiana, al vero senso dell’abbandono della Jota, sino a giungere alla beve e sentita Nana, e alla Canciòn, vero collante e elemento di transizione alla conclusiva danza Andalusa (Polo), resa celebre Bizet in Carmen. Quest’ultima è eseguita con trascinante partecipazione dal tenore franco-messicano, sino a chiudere la prestazione con un evocativo “ay” e un breve, ma efficace, passo di danza, un deciso e colpo di tacco, capace di far esplodere i presenti in un fragoroso apprezzamento.
Tuttavia in Italia e alla Scala di Milano non poteva mancare uno degli autori forse più amati da Rolando Villazòn: Giuseppe Verdi, di cui ascoltiamo quattro romanze da camera. La prima è In solitaria stanza, nella quale vengono ancora alla luce i pregiati cambi di colore di Villazòn, la facilità di emissione, la perizia tecnica, sempre a favore di un’espressione bella, cristallina, mai eccessiva e estremamente raffinata. Deh’, pietoso, oh Addolorata (come la precedente, del 1838) è romanza splendida, traduzione della preghiera di Margherita nel Faust, a opera di Luigi Balestra (amico e concittadino di Verdi), anticipa il Verdi operistico già più volte affrontato da Villazòn, che ne offre una lettura memorabile densa di angoscia e struggimento. Degna di nota l’interpretazione di Il poveretto (1847), afflitto non da un abbandono amoroso, ma dall'essere, soldato in congedo, solo e dimenticato fin dalla Patria e dai propri affetti. Sul palco pareva non fosse più il tenore messicano, era sparito il cantante, si è avuta l’impressione di aver innanzi a sé il vero poveretto, il suo pudore, la sua dignità e i suoi tormenti interiori, magistralmente resi dalla scrittura verdiana. Da ultima viene proposta una romanza su versi di Felice Romani, Il mistero (1845, ancora espressione di intimi contrasti e turbamenti, oltre che dell’amore verso la donna, sapiente sintesi di quanto ascoltato in precedenza.
Per chiudere il programma Villazòn torna in Spagna e nel XX secolo con quattro Canciones clásicas españolas di Fernando Obradors, tutte dedicate all’amore, ma decisamente più ammiccati e maliziose, dando modo al tenore messicano di mettere a nudo tutta una gamma di sentimenti umani, dalla tragedia alla commedia, e restituirli, da vero artista, nella loro purezza.
Copiosi applausi chiudono la serata, che non poteva aver miglior epilogo, se non che nell’esecuzione di tre bis originali e d’effetto, come La chanson de l’ádieu di Tosti, passando per Ouvre tes yeux bleus di Jules Massenet, sino a tornare in Italia, con L’alba separa dalla luce l’ombra, sempre di Tosti, che ha consentito a Villazòn di guadagnare un lungo e fragoroso applauso, prima ancora che il canto giungesse al termine.
Una delle immagini più belle della serata è stata proprio vedere un divo internazionale emozionato, ammirato e alla fine commosso, al punto tale da voltarsi verso il pianoforte con gli occhi lucidi e inumiditi da una stilla di flebile pianto. Nessuno meglio di Daniel Barenboim poteva accompagnare un concerto di tale qualità: assoluto padrone e dominatore della tastiera, accarezza i tasti con maestria senza pari, donando all’esecuzione musicale uguale pathos a quello che Villazòn ha saputo donare col suo canto mirabile. L’incontro di due nusicisti di tale levatura rende a pieno titolo la sala del Piermarini degna del titolo di teatro più importante al mondo. Rolando Villazòn e Daniel Barenboim portano a compimento la vera missione dell’artista: trasmettere un piacere puro, sentito e mai corrotto.
foto Brescia Armisano