L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Ur-Tosca

di Luca Fialdini

Nella stagione 2024/2025 del Teatro alla Scala torna la Tosca realizzata da Davide Livermore per il 7 dicembre 2019 con vivo successo di pubblico

MILANO 15 marzo 2025 – Al Teatro alla Scala compie felice ritorno la Ur-Tosca che aveva inaugurato la stagione 2019/2020, nella monumentale ideazione scenica a firma di Davide Livermore. Ritorna in tutta la sua potenza anche quel cosmo teatrale ricco di cura per il particolare, con i movimenti così affascinanti della complessa macchina scenica (non cinematografica, come ripetuto da molti, ma teatralissima!) dello studio Giò Forma, i costumi di Gianluca Falaschi, le luci di Antonio Castro e i video di D-Wok.

Come anticipato, si è mantenuta l’impostazione voluta da Riccardo Chaylly – e su cui l’impianto di Livermore è modellato – con il ripristino di alcuni tagli che Puccini aveva apportato alla partitura proprio all’indomani della prima al Costanzi. Poca cosa per numero e minutaggio, dato che a conti fatti si tratta davvero di una manciata di battute, eppure basta così poco per cambiare la resa, o addirittura l’efficacia, di un momento scenico: basta qualche parola in più e il primo atto non è così fluido, qualche misura di musica ancora e la morte di Scarpia non è solo più estesa ma diviene ancor più violenta, a tratti feroce. Non ci si soffermerà oltre su questo aspetto, rimandando all’acuta analisi di Roberta Pedrotti, ma si conceda uno spunto di riflessione: forse non tutto quel che è stato cassato lo meritava. Tosca è un organismo drammaturgico che probabilmente non ha eguali all’interno del corpus pucciniano per solidità e compattezza, ne consegue che la sua realizzazione sia una faccenda delicatissima in cui – come si è visto – spostare anche un solo elemento causa un sensibile mutamento nell’assetto generale e capire se si sono indovinati tutti i posizionamenti è davvero complesso, anche ex post.

Vista le recensione cui si accennava sopra, si eviterà anche analizzare la componente visiva; è però doveroso sottolineare come questa riedizione sia stata tutt’altro che di routine o, peggio, pigra. Nella ripresa della regia, Alessandra Premoli ha fatto un ottimo lavoro nel mantenere l’esatta sospensione della realtà di Livermore, mentre i solisti si sono spesi molto sul versante recitativo: silenzi e pause sono efficacemente impiegati sul versante espressivo per una maggior libertà nella recitazione senza che questa possa prendere il sopravvento sul canto, conducendo a un risultato equilibrato e veramente intenso; a mero titolo di esempio, basti ricordare la scena finale del secondo atto da «Io tenni la promessa», in cui si parla così poco ma Salsi e Isotton non hanno mai smesso di dialogare fra sguardi e gestualità, anche minime. La sensazione avuta non è mai stata quella di una ripresa, cosa che accade in altre situazioni (Strehler et al.), ma di trovarsi di fronte a una produzione ordinaria.

Recita non immune da problemi tecnici, a partire da cose relativamente marginali come la piattaforma rotante che non è mai silenziosa quando in movimento fino a incidenti più faticosi come il blackout che ha lasciato al buio parte del palcoscenico e della buca durante il Te Deum, con Gamba soccorso da un violoncellista armato di lampadina. Al termine del primo atto, il neo sovrintendente Fortunato Ortombina ha annunciato dal palco il prolungamento di quindici minuti dell’intervallo, ritardo che alla fine causerà la fine della recita circa trenta minuti oltre il previsto.

Su Michele Gamba i giudizi sono sostanzialmente unanimi: viene fornita una lettura molto personale e con (alcuni) tempi dilatati rispetto all’uso. La storia della dilatazione dei tempi è vera, ma Gamba ha ben chiari due punti cardine cui non viene mai meno e cioè da una parte fornire il giusto supporto alla voce e dall’altra l’attenzione al rapporto fra musica e drammaturgia. Abbassare occasionalmente il metronomo di una o due tacche ha la funzione di poter esplorare a fondo l’infinita tavolozza timbrature, tanto che in alcuni passi Tosca sembra quasi di non averla mai udita così: il gesto di Gamba non ammette pedanterie ritmiche (ad esempio in quelle terzine di «Recondita armonia», a cui pochissimi direttori si sottraggono) e rivela una certa fantasia nelle percussioni che, finalmente, si affacciano con un profilo coloristicamente più netto all’interno della compagine orchestrale. L’Orchestra del Teatro alla Scala risponde bene alle “provocazioni” del direttore, sfoderando una bella compattezza di suono e allo stesso tempo senza impastare nulla; il risultato è una filigrana che consente di seguire i movimenti di ogni linea strumentale all’interno della trama della partitura. La tensione non viene mai meno perché tanto Gamba quanto l’orchestra forniscono alla scena sempre quello di cui ha bisogno, piuttosto la decisione di adottare tempi più larghi toglie al testo quella polvere da melodramma ottocentesco e ne rivela le consonanze mitteleuropee, quindi perfettamente congruenti con i prodromi di quella rivoluzione chiamata espressionismo che si sarebbe concretizzata solo qualche anno più avanti, ma nella musica si iniziavano già a intravedere più che semplici avvisaglie (del reso la Verklärte Nacht è del 1899). Strepitoso il Coro del Teatro alla Scala preparato da Alberto Malazzi, come il Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala preparato da Bruno Casoni.

Il cast dei solisti è eccellente, sia per i meriti individuali sia per la capacità di lavorare in squadra, un’ottica in cui le parti di contorno concorrono in modo fondamentale al sostegno dell’illusione generale. Molto bene Anastasia Fazio nel proporre un Pastorello di buona grazia (e soprattutto ben intonato), così come Xhieldo Hyseni fornisce un Carceriere corretto e Costantino Finucci uno Sciarrone senz’altro efficace. Li Huanhong è l’unico neo del cast, proponendo un Angelotti con un timbro senz’altro interessante e con una buona emissione che però necessita di maggior controllo e soprattutto una dizione per lo meno fantasiosa. Con un personaggio che canta così poco si poteva fare qualcosa di più.

Come sempre, l’inossidabile Carlo Bosi non manca di stupire e sembra riuscire a trovare sempre nuovi mezzi espressivi che lo rendono in grado di caratterizzare il suo Spoletta con pochissimi colpi di pennello, peraltro dotato di un suono ben proiettato, limpido e di un’articolazione del fraseggio a dir poco esemplare. Pregevole anche il Sagrestano di Marco Filippo Romano, ottimo nella dizione: rinuncia a qualsiasi tentazione macchiettistica in favore di una caratterizzazione brillante, fra arguzie e puntate di spillo al tenore (sempre apprezzabili).

Francesco Meli è davvero in serata e lo annuncia in modo inequivocabile sin dall’applaudita «Recondita armonia». Il tenore genovese maneggia il ruolo con l’eleganza che lo contraddistingue, il timbro chiaro e l’emissione ben sfogata, superbo nel legato; magari in qualche vetta del registro acuto lo strumento vocale non è così brillante, ma è pur vero che in questa lettura particolarmente intimista di Cavaradossi vincono le nuances che Meli torna a cesellare con la nota perizia. Occasionalmente fa capolino anche un certo afflato eroico, specialmente nel secondo atto, ma il ritratto profondamente umano fornito da Meli conferisce al proprio personaggio uno spessore che non può che colpire lo spettatore.

Del tutto a suo agio nei panni del villain, Luca Salsi regala un’eccellente interpretazione del barone Scarpia. Infiammato, straripante, volitivo, ma anche straordinariamente complesso, Salsi legge con grande musicalità le sfumature del testo pucciniano, rendendole con notevole precisione; esistono i momenti di gustosa deflagrazione in cui il baritono dispiega le possibilità di uno strumento vocale davvero generoso, ma soprattutto si lavora di fino su tutte quelle mezze voci ora lascive, ora sulfuree, che allargano considerevolmente il ventaglio dell’espressione. In questo modo si enfatizzano anche le idiosincrasie come le ipocrisie del personaggio, intriso di bigottismo religioso che però non lo dissuade dal tentare un primo, viscido approccio con Tosca proprio in chiesa, manovra chiunque col pugno di ferro (compresi chierici e sagrestani, a cui ringhia pure un «apprestate per il Te Deum») e di fronte al desiderio della cantante è pronto a rinnegare il suo stesso Dio. Nell’interpretazione di Salsi si avvertono tutti i contrasti chiaroscurali della figura di Scarpia, nobiltà e bassezza fino al disgusto, raccontati in una narrazione musicale di eccellente fattura.

Salsi e Meli erano già presenti nel cast del Sant’Ambrogio 2019, mentre in questa ripresa il ruolo del titolo passa di testimone da Anna Netrebko a Chiara Isotton, già Fedora nella produzione scaligera del 2022. Si nota subito una grande affinità con Floria Tosca; anzi, questa risulta fortemente interiorizzata, con il baricentro della caratterizzazione spostato dal divismo verso una gioventù vigorosa e irruente, fatta di intemperanze come di istinti, dolenti introspezioni, con forti accenti da figura assai distante dalla damsel in distress. Gelosia, malizia, sangue, sensualità si inseguono senza soluzione di continuità in un’interpretazione che pone in luce le molte spigolosità di questa particolare Tosca, caratteristica che peraltro trova corrispondenza in una vocalità dal timbro piacevolmente umbratile, aggraziato ma con delle screziature che lo rendono interessante. L’emissione ben controllata su tutta la gamma e l’evidente padronanza dello strumento è declinata intelligentemente nell’uso di fraseggio e colori, filati assai ben realizzati e un impiego a dir poco chirurgico del vibrato.

Al termine della recita, molti applausi per il trio protagonista e per il direttore Michele Gamba da parte di un pubblico visibilmente entusiasta, che ha premiato una produzione ben più che riuscita.

Link recensione:

Milano, Tosca, 07/12/2019

Roma, Verdi/Requiem, 12/07/2023

Roma, concerto Chung / Santa Cecilia, 18/01/2025

Roma, Tosca, 04/03/2025

Roma, Tosca, 16/01/2025

Lucca, Tosca, 29/11/2024

Firenze, Tosca, 26/05/2024


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