Chung e il senso del sacro
Il secondo degli appuntamenti in cartellone all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, diretti dal maestro Myung-Whun Chung, risulta un’esperienza quasi mistica. In programma la Sinfonia n. 8 “Incompiuta” in si minore D. 759 di Franz Schubert e lo Stabat Mater di Gioachino Rossini, con solisti Chiara Isotton, Teresa Iervolino, Levy Sekgapane e Adolfo Corrado.
ROMA, 18 gennaio 2025 – Qualche volta, nella vita, si rimane autenticamente a bocca aperta durante un concerto: si ha un’esperienza mistica, si entra in vibrazione completa con l’opera che si sta ascoltando. È quello che è successo, immagino, a moltissimi in sala sabato scorso, alla fine dello Stabat Mater di Rossini, durante il «Quando corpus morietur». Ma andiamo con ordine.
L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia apre i concerti sinfonici del nuovo anno con due appuntamenti diretti da Myung-Whun Chung. Fra i massimi direttori oggi in attività, il sudcoreano ha un rapporto particolare con l’Accademia, alla testa della cui orchestra è stato per diversi anni. Il secondo di questi appuntamenti rimarrà nella memoria dei presenti soprattutto per uno Stabat indimenticabile, che è stato preceduto, però, da un’eccellente esecuzione dell’ “Incompiuta” di Schubert. A differenza del Concerto per violino di Brahms della scorsa settimana, sottotono per le scelte agogiche e stilistiche adottate dal sudcoreano, con la Sinfonia “Incompiuta” Chung mostra di quanta sensibilità è dotato. L’impianto agogico è studiatamente largo, atto a far risaltare la linea degli archi, le sortite di ottoni e legni; ciò che Chung ‘ruba’ nell’esposizione melodica e nelle frasi lo restituisce con insolito vigore ritmico nelle varie ‘strette’, nelle sezioni di passaggio, nei finali. Insomma, alla fine l’equilibrio ritorna. L’effetto finale, grazie anche al magnifico suono dell’orchestra dell’Accademia, è mirabile non solo nel godimento puramente sonoro dei passaggi, ma anche nella riflessione profonda con la quale Chung incontra il senso della sinfonia, la ‘tinta’ che Schubert ha voluto dare alla partitura. Stupendo l’attacco dell’Allegro moderato, dove Chung è sensibilissimo nel contrasto fra il tema teso, chiaroscurale, con cui si apre il movimento ed il limpido, cantabile, secondo tema. È nelle maglie di questi passaggi che Chung ‘ruba’, allarga, poi restituisce improvvisamente, calibrando volumi, compagini, colori. L’Andante con moto, ancora, regala passaggi sublimi: Chung rallenta sul tema principale, caldamente liederistico, e stringe nei passaggi dello sviluppo, aumentando volumi, contrastando, stupendo l’uditorio.
Ma la punta di diamante di questo concerto è lo Stabat Mater rossiniano; e lo è, soprattutto, per la sensibilità del suo direttore. Chung è teso a restituire il sacro che promana dalla partitura di Rossini, a torto e lungamente additata di eccessiva profanità. Il sacro di Rossini sta nella florida bellezza del suo melodiare, ciò che di meglio ha da offrire a Dio. Chung non fa che esaltare, ritmicamente, volumetricamente e timbricamente, la straordinaria partitura rossiniana. I solisti eseguono tutti, o quasi, a buon livello. Sostituto dell’atteso Demuro, Levy Sekgapane, dotato di una voce argentina ma un po’ ‘sottile’, molto vibrata, non brilla particolarmente nella sua parte, soprattutto nel «Cujus animam», dove palesa sì un buon fraseggio, ma manca incisività in più di un punto. Teresa Iervolino, specialista del repertorio rossiniano, mostra, come di consueto, un eccellente fraseggio ed un controllo vocale invidiabile; il suo timbro, caldo ma con venature acute, si presta bene alla parte, come si nota nel «Quis est homo», in duetto con il soprano, ma soprattutto nel «Fac ut portem Christi mortem», dove gioca con i registri, mantenendo eleganza e pulizia nell’emissione. Chiara Isotton, che il pubblico ceciliano ricorderà nel Requiem verdiano dell’estate del 2023 ( leggi la recensione), regala una lettura decisa del ruolo sopranile dello Stabat, vista e considerata la sua potenza vocale, che non le impedisce di riuscire, però, a sfumare quando necessario: l’«Inflammatus et accensus», infatti, inizia stentoreo, ma la Isotton sa entrare quasi in mezzavoce nella perorazione successiva («Fac me crucem custodiri»), armonizzandosi con l’atmosfera sospesa creata da Chung. Una grande varietà di accenti palesa, inoltre, nel già citato «Quis est homo», in cui le due interpreti (Isotton e Iervolino) sposano bene le loro voci. Nobiltà di emissione, pulizia, morbidezza coniugata ad un mezzo voluminoso e scuro: queste le caratteristiche del basso Adolfo Corrado, al debutto ceciliano – e che ci si augura di rivedere al più presto. Corrado scolpisce letteralmente il «Pro peccatis suae gentis», ma non è tanto il piglio dell’attacco, quanto il legato della ripresa della melodia che stupisce per intonazione, voce piena eppur leggera come piuma. Chung gestisce i solisti magnificamente tanto nello «Stabat Mater Dolorosa» incipitario (perfetto esempio di uno stile lacrimevolmente tragico, eppure stillante rada luminosità), quanto nel quartetto «Sancta Mater, istud agas», cesellato ritmicamente e nella sua fresca orchestrazione, come nei giochi cromatici di contrappunti. Eppure, il protagonista indiscusso di questo Stabat è stato il coro dell’Accademia: preciso, intonato, capace di esprimersi in esplosiva potenza, come pure di librarsi aereo in argentei filati. Il momento che non dimenticherò mai è stato, come ho già ricordato in apertura, il «Quando corpus morietur»: direttore e coro parevano quasi commossi nello spaginare, con autentico senso del sacro, l’emozione più pura dello Stabat, il terrore della morte misto alla certezza della salvezza. Le compagini corali si librano fra filati scurissimi e aperture paradisiache (le salite su «Paradisi gloria!»): il pubblico è a bocca aperta. La potente fuga finale sull’Amen risveglia, quasi, da una dimensione altra, sospesa, in cui si è stati fino ad un attimo prima. Gli applausi invadono la sala.
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