Estasi e tormenti
Bel successo, a Jesi, per il concerto della Filarmonica marchigiana con Alexander Lonquich direttore e solista in un programma che affiancava Schumann a versioni meno frequentate di celebri pagine di Mendelssohn.
JESI, 18 gennaio 2025 - Ecco che, con Alexander Lonquich, Schumann e Mendelssohn, la stagione della Form comincia per davvero. In primo luogo per il programma, interessante e impegnativo per gli esecutori come per il pubblico. Per noi, s'intende, è un grato impegno, ché non si tratta tanto di fatica quanto di attenzione sempre sollecitata dalla scelta di eseguire in edizione critica le seconde versioni delle Ebridi e della Sinfonia Italiana, quest'ultima particolarmente rara e in prima esecuzione marchigiana. Ne emerge un Mendelssohn molto meno olimpico di quanto la tradizione non abbia contribuito a cristallizzare, un Mendelssohn la cui affinità al Romanticismo non si limita alla fascinazione per le atmosfere nordiche, la poesia ossianica, la couleur locale e la féerie. Le suo continuo rifinire e rielaborare, sperimentando anche soluzioni audaci, lo rende, per certi versi, vicino al quasi coetaneo Schumann e gettano una diversa luce sulle parole di quest'ultimo, che lo definì proprio un “Mozart del diciannovesimo secolo” che “guarda chiaramente attraverso le contraddizioni del presente e per primo le concilia”. Più che un compimento, però, la conciliazione sembra soprattutto un anelito: alle Ebridi così come abitualmente le conosciamo, nella versione a stampa del 1834/35, si arriva dopo una serie di interventi dai primi abbozzi romani, alla versione per il debutto londinese e a quella per la successiva pubblicazione del 1832 (qui eseguita), nella continua ricerca di una più efficace e libera evocazione naturalistica. L'Italiana segue un percorso inverso, giacché la versione presentata per prima al pubblico e subito coronata dal successo resterà in repertorio, nonostante Mendelssohn, perennemente insoddisfatto, abbia cercato per anni, e contro il parere della sorella Fanny, di giungere a una stesura che ritenesse degna di pubblicazione. Le ombre di Mozart e di Beethoven (specie della Quinta, Sesta e Nona sinfonia) pesano e la Zauberflöte viene citata nel terzo movimento (che da Andante con moto diventa Adagio con moto, in ossequio al tempo della scena degli Armigeri), mentre si ampliano le proporzioni del quarto in una stesura affascinante, problematica, che aiuta a comprendere la personalità dell'autore senza soppiantare la felicità dell'ispirazione originaria. Peraltro, questo lavorìo si colloca in un contesto la cui prospettiva non può essere ignorata, tale pare alle nostre sensibilità lo iato fra la tensione ideale e assoluta di un “Mozart romantico” e prime esecuzioni inquadrate in programmi fiume fra arie belcantiste interpretate da divi come Donzelli, Rubini e Cinti-Damoreau, grandi pagine del classicismo viennese, pezzi ora caduti nell'oblio. Un'idea di concerto, detta anche "accademia", completamente diversa da quella attuale e che riflette una concezione della musica da cui non possiamo prescindere guardando alle opere e agli autori del tempo.
Le grotte scozzesi e le danze italiane, come fonte di ispirazione esterne si accompagnano oggi benissimo all'intimo richiamo all'amore per Clara che, invece, anima la scrittura del Concerto in la minore per pianoforte e orchestra schumanniano, incastonato fra le partiture di Mendelssohn. È qui, peraltro, seduto al suo strumento, che Lonquich più che mai sale in cattedra, con nobilissima intelligenza di fraseggio e chiaroscuri. È subito chiaro come una lettura profonda del testo porti a dipanare con nonchalance i passi metricamente più articolati, così come un'indipendenza delle linee che trova la mano sinistra deuteragonista pronta e presente. Il dialogo interno alla scrittura solistica è a tutti gli effetti dialogo d'assieme, forse la virtù maggiore di Lonquich, la cui musicalità sembra respirare di una vocazione eminentemente cameristica, intesa come gusto, equilibrio, piacere del reciproco ascolto. La chiarezza di visione è un tutt'uno con il perfetto impasto di colori che realizza nel rapporto con l'orchestra. Se l'appuntamento solistico con il bis (una Novelletta di Schumann) ne ribadisce la classe poetica individuale, le pagine di Mendelssohn che lo vedono solo in veste di direttore ricordano come sia inutile ricercare in lui la virtù, anche tecnica, del concertatore purosangue. È un grande musicista, che si esprime anche uscendo dall'alveo del suo strumento d'elezione, anche ampliando i confini consueti del trio o del quartetto. Quindi, l'altro grande motivo d'interesse di questo concerto, che, entrando nello spirito degli autori e delle "accademie" del loro tempo, non delude.
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