L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Auguri Tosca!

 di Stefano Ceccarelli

Il Teatro dell’Opera di Roma, in occasione dei centoventicinque anni dalla première della Tosca, ripropone il capolavoro di Giacomo Puccini nell’ormai classico allestimento con le scene originali di Adolf Hohenstein e la regia di Alessandro Talevi. Sul podio v’è un ispirato Michele Mariotti; nel cast brilla Saoia Hernández nel ruolo del titolo; Cavaradossi è Gregory Kunde e Gevorg Hakobyan Scarpia.

ROMA, 16 gennaio 2025 – Per i centoventicinque anni dalla première, Tosca ritorna, in un certo senso, a casa, visto che proprio al Costanzi è stata tenuta a battesimo il 14 gennaio del 1900. L’anno pucciniano si colora di un ulteriore ricorrenza, dunque, tutta romana. Quest’anno l’Opera di Roma presenterà il titolo, per questo motivo, in ben tre cicli di riprese, con direttori ed interpreti diversi e mantenendo sempre la rodata, classica, ottima regia di Alessandro Talevi – le scene sono ricostruite, per opera di Carlo Savi, dai bozzetti originali, firmati a suo tempo da Adolf Hohenstein. Per quanto riguarda regia e scene rimando a quanto già da me scritto in occasione del battesimo di questa Tosca (leggi la recensione).

Michele Mariotti regala al pubblico romano una direzione a dir poco ottima. Sensibilità drammatica, tensione, accompagnamento delle voci, cura dei passaggi, persino i più minuti, screziati, donano alla sua lettura della Tosca una raffinatezza che non si perde nel puro edonismo sonoro, ma mira alla ricerca dell’effetto teatrale, al servizio del melodramma. L’orchestra, come oramai da un po’ di tempo, è in ottima forma e concretizza l’idea sonora di Mariotti; si prenda ad esempio la tenuta degli ottoni, dei fiati, come pure l’omogeneità della compagine degli archi: sono tutte prove che il direttore ha sotto di sé maestranze nel pieno della loro forma. Non c’è momento della partitura che la bacchetta di Mariotti tralasci: dalle brevi battute che aprono i singoli atti e che mirano ad acclimatare lo spettatore nel colore precipuo di ogni scena, ai momenti di maggiore potenza. Si potrebbe parlare a lunga del Te Deum, della tortura di Cavaradossi o dell’uccisione di Scarpia, ma vorrei citare un momento su tutti, l’esecuzione di Cavaradossi, dove l’abilità di Mariotti guida l’orchestra in una lenta, inesorabile climax ascendente, in cui la tensione ritmica è coniugata a soluzioni timbriche che evocano un riso sardonico. Il coro, pure, è in ottima forma: la scena del Te Deum è sempre una delizia per le orecchie, come pure per gli occhi.

Saoia Hernández è una Tosca di tutto rispetto, una Floria che vuole far sentire la sua voce, letteralmente, ma che è anche in grado di sfumature, sensibilità, senso vero del teatro. La sua recitazione non è mai eccessiva, anzi punta ad una certa spontanea naturalezza: in tal senso, il duetto del I atto con Cavaradossi ne è la più limpida testimonianza. La Hernández tira fuori la sua voce, certamente notevole per emissione e potenza, aprendo il suono e vibrandolo con generosità, ma ciò non le impedisce, quando necessario, di giocare di precisione, di fioretto, sillabando in mezzavoce – come nell’attacco «Non la sospiri la nostra casetta». Splendido il dolore che esprime, poco dopo, davanti al manipolatorio Scarpia, cantando «Dio mi perdona… / Egli vede ch’io piango!». Sulla sensibilità dell’interprete, peraltro, testimonia anche una resa intimistica dell’aria «Vissi d’arte», dove non raramente le cantanti si lasciano prendere la mano, per impressionare il pubblico. La Hernández si concentra sui puri colori, fraseggiando con un legato pacato, atto a far risaltare l’impasto orchestrale ed i sentimenti del personaggio (all’aria segue l’applauso di rito). Travolgente il duetto del III atto con Cavaradossi, fra i momenti più belli della serata per intensità interpretativa coniugata ad una direzione ispirata. Insomma, la Hernández merita tutti gli applausi che le tributano. Il Cavaradossi di Gregory Kunde è una sicurezza e ritorna al Costanzi, in questo ruolo, dopo esservi già apparso in una ripresa della Tosca di Talevi nel 2022 (leggi la recensione). Se, complessivamente, non si possono che fare i complimenti all’inossidabile tempra dello statunitense, visto e considerato che ha superato i settant’anni, si comincia a constatare un irrigidimento in alcuni momenti dell’emissione, come pure nei passaggi di registro – peraltro, fenomeni del tutto fisiologici, vista e considerata la grande esperienza. Il suo Cavaradossi, dunque, si lascia in ogni caso apprezzare per la bellezza di alcune note (si pensi agli acuti del II atto), per il fraseggio elegante e per la personalità interpretativa – forse gli è riuscita meglio l’aria del III, «E lucevan le stelle», rispetto alla cavatina del I –, ma si nota una certa macchinosità (se non, in taluni casi, staticità) nella recitazione. Insomma, il pubblico ha applaudito e gradito una performance che, tutto sommato, non può che dirsi buona, ma certo è forse venuto il momento per Kunde, magari, di evolvere il repertorio verso ruoli meno ‘fisici’. Gevorg Hakobyan interpreta un buon Scarpia. La voce dell’armeno, potente, uniforme, scura, risulta timbricamente adatta a incarnare uno Scarpia profondamente cupo, a tratti quasi statico. Hakobyan sceglie di leggere il satanico governatore di Roma in maniera meno dinamica rispetto al Paolo che ha lasciato tutti a bocca aperta nel recente Boccanegra (leggi la recensione); la sua emissione, se mi si passa la metafora, è più orizzontale che verticale: neanche nel Te Deum si ha un’azione di ‘forza’ vocale, che pure sarebbe concessa alla fine della climax. Da questa lettura imperiosa ma posata l’armeno non si muove neanche nel ‘suo’ atto, il II. Nell’aria «Ha più forte sapore» ci sono tutte le note, tuttavia manca un certo qual colore, che si palesa un po’ più netto in tutta la scena con Tosca, la tentata seduzione, il ricatto e la morte (mercé anche l’eccellente direzione di Mariotti). I personaggi comprimari fanno tutti abbastanza bene: centrato l’Angelotti di Luciano Leoni, di meno lo Spoletta di Saverio Fiore – vorrei ricordare anche Irene Codau nel ruolo del pastorello. Merita i complimenti Domenico Colaianni nei panni di un Sagrestano non eccessivo, naturale, fresco, privo delle superfetazioni teatrali cui il famoso ruolo si accompagna. Le prime recite di Tosca, quindi, possono dirsi riuscite.

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