L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Un Boccanegra da ascoltare

 di Stefano Ceccarelli

Il Teatro dell’Opera di Roma inaugura la stagione 2024/2025 con il Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi, sotto la direzione di Michele Mariotti e la grigia regia di Richard Jones. Il ruolo del protagonista è interpretato da Claudio Sgura nella presente recita per indisposizione di Luca Salsi; Amelia è Eleonora Buratto, Fiesco Michele Pertusi e, infine, Adorno Stefan Pop.

ROMA, 30 novembre 2024 – È trascorso più di un decennio da quando, nel 2012, Riccardo Muti inaugurava con Simon Boccanegra la stagione del Teatro Costanzi. Oggi, Michele Mariotti, in qualità di direttore stabile, apre la corrente stagione romana con la medesima opera. Per lui è il terzo Boccanegra, a distanza di quasi un ventennio: una frequentazione oculata, recentemente riconsiderata, un’idea dell’opera che il direttore infonde in queste recite romane. Mariotti dell’intera partitura di Boccanegra sente, con particolare sensibilità, la tinta generale, che coglie magnificamente nel suono orchestrale, come pure nelle sfumature cromatiche di cui la partitura è piena. Boccanegra ha una tavolozza che ricorda le massicce campiture bruckneriane, legate ad un’idea cromatica ben precisa, che Verdi utilizza per dipingere, come un abile pittore, tutte le scene della partitura. Mariotti è decisamente addentro, appunto, alla tinta, al colore di Boccanegra, che è fatto di una diffusa cupezza, una certa qual angoscia mitigata da alcuni momenti di puro lirismo, quelli in cui i personaggi godono sentimenti di affetto ed amore – in questo, Simon Boccanegra assomiglia ad un titolo donizettiano che, ironia della sorte, sarà anch’esso in stagione quest’anno, la Lucrezia Borgia. Il lavoro del direttore sull’orchestra del Costanzi è eccellente: il suono degli orchestrali è limpido, preciso, pulitissimo (ne sono testimonianza i delicati impasti dei legni e dei corni, che risuonano con tersa limpidezza). Ciò che rimane certamente impresso, inoltre, della direzione di Mariotti è il lavoro sulle voci: l’attenzione ad alcuni passaggi nei recitativi (in particolare di Boccanegra e Fiesco) è a dir poco memorabile, testimonianza di uno scavo psicologico che dalla partitura passa alla scena. Se si guarda all’agogica, invece, si può notare una certa rilassatezza di polso che, forse, non giova ad alcuni momenti dell’opera: se il finale III, la morte di Boccanegra, è un passaggio in cui Mariotti trova soluzioni caravaggesche, quasi inedite nello scavo del suono tradotto sulla scena, il Prologo rimane meno deciso, meno incisivo – si consideri il duetto Boccanegra/Fiesco (che mi è parso così diverso da quello, speculare, del III atto) o l’esultanza di coro ed orchestra che lo chiude, forse eccessivamente rigida nella sua scansione ritmica. Andando avanti nella lettura dell’opera, l’idea ritmica di Mariotti si uniforma, gradualmente, ad un’esecuzione più incisiva, se si vuole in linea con un Boccanegra più drammatico: si pensi alla notevole resa del finale I, la scena della maledizione di Paolo, dove il direttore gestisce alla perfezione le dinamiche, che passano, repentinamente, da momenti di intensità sonora ad altri quasi sussurrati, dall’orchestra tanto quanto dagli interpreti sul palco. In tal senso, una nota di merito va tributata anche al coro, che regala una performance di assoluto livello nel corso di tutta l’opera. Dunque, al netto dei gusti di chi scrive, la direzione di Mariotti è apprezzabile sotto molti punti di vista: soprattutto, si nota un raffinato, profondo studio della partitura.

Il cast vocale è di un certo spessore. Il dispiacere della defezione, per motivi di salute, dell’atteso Luca Salsi è sanato dalla bella interpretazione di Claudio Sgura nel ruolo del titolo. Straordinario professionista, Sgura canta un’ottima recita di Boccanegra, mostrando una linea di canto venata di echi bronzei, coniugata ad un timbro sì granuloso, ma caldamente vibrato, quand’è necessario. Del doge Simone spagina tutti i sentimenti, con nobiltà di accenti. I momenti più alti della sua performance li tocca, certamente, nel duetto con Amelia del I atto («Orfanella il tetto umile»), nello splendido finale I, dove intona un’imperiosa «Plebe! Patrizi! – Popolo» e nel duetto del III con Fiesco, «Delle faci festanti al barlume», dove Mariotti trova uno dei momenti più ispirati della sua direzione. L’Amelia di Eleonora Buratto, già applaudita nell’edizione di Muti citata in apertura, si lascia apprezzare nella limpida freschezza del suo fraseggiare, coniugata alla dolcezza del canto, come si è avuto modo di notare nell’esecuzione di uno dei gioielli più fulgidi del teatro lirico di tutti i tempi, la cavatina «Come in quest’ora bruna», accompagnata da uno screziato moto ondoso dell’orchestra, di gusto raveliano nell’evocare il sorgere della luce, increspato dalla spuma marina. Medesima limpidezza di canto la Buratto palesa nei successivi duetti con Adorno ed il padre Boccanegra. Ma la corda della sua voce è in grado anche di irrobustirsi, come nell’arioso «Nell’ora soave», quando Amelia narra del suo rapimento da parte di Lorenzino, e nel successivo finale. Buratto sa modulare i colori della sua voce, scurendoli lievemente a segnare un momento drammatico come il secondo duetto con Adorno («Parla – in tuo cor virgineo»). Una performance che, al solito, conquista l’affetto del suo pubblico. A dir poco sublime, per fraseggio e linea vocale, lo Jacopo Fiesco di Michele Pertusi. Lo si nota fin dalla sua cavatina, «Il lacerato spirito», forse il momento migliore del Prologo, giacché Mariotti riesce a rendere gli effetti chiaroscurali della partitura con notevole bravura, indugiando e, quasi, allungando lacrimevolmente le frasi dell’aria. Pertusi intona quasi soffusamente, creando un’atmosfera certamente originale nella storia interpretativa di quest’aria. Altro momento straordinario è il duetto con Boccanegra che precede il finale III (come si è detto, quello del Prologo non riesce bene come questo), dove i due cantanti (Pertusi e Sgura) fondono le loro voci con intensa drammaticità. L’Adorno di Stefan Pop è buono, ma è forse troppo attento alla pura performance vocale (acuti e squillo) più che non alla tridimensionalità del personaggio. Un esempio è nel II atto, dove il cantante inanella un’aria, un duetto ed un terzetto. Se già l’attacco di «O inferno» risulta poco incisivo, il suo timbro granuloso ed il fraseggio poco sentito non aiutano l’esecuzione di un’aria che necessita di notevole impegno nei colori (si pensi solo all’insolita inversione di tempo, che consegue uno sforzo muscolare del cantante proprio nell’attacco del pezzo); il duetto ed il terzetto scorrono bene, ma non stupiscono: proprio l’attacco del terzetto («Perdono, Amelia – Indomito») risulta astenico. Straordinario il Paolo di Gevorg Hakobyan, la cui voce stentorea, scura, unita ad un fraseggio spigliato, cupissimo, scolpisce un personaggio perfettamente riuscito: lo testimoniano la sua aria, enigmaticamente sospesa («L’atra magion vedete?»), e l’arioso, luciferino, che apre l’atto II («Me stesso ho maledetto!»). Buono il Pietro di Luciano Leoni.

L’allestimento firmato da Richard Jones è un po’ il vero tallone d’Achille di questa produzione. Se Jones aveva fatto abbastanza bene, di recente, a Roma nella Kat’a Kabanová di Leoš Janáček (leggi la recensione), questo Boccanegra risulta problematico sotto molti aspetti. Il primo è, certamente, il lavoro sui personaggi, poco studiato sia a livello prossemico che di posizione sul palco; poi, viene la gestione dei movimenti del coro, poco efficace: la scena del consiglio che chiude il I atto è un po’ una summa dei limiti registici di Jones, giacché mostra l’impaccio dei movimenti dei pochi figuranti atti a evocare la sommossa popolare, con il risultato di depotenziare tutta la scena. Il problema sta, anche, nell’idea di fondo di Jones, che palesa una certa debolezza. L’ambiguità fra elementi astratti e banalmente realistici – il contrasto, per esempio, fra anonimi costumi di ispirazione primo novecentesca e la mantella di pelle dogale, con tanto di copricapo, che indossa, nelle situazioni ufficiali, Boccanegra – disorienta lo spettatore, che non ne comprende l’intento semantico. Stesso dicasi dell’impianto scenico (Antony McDonald). Le potenzialità, per esempio, della scena prospettica, di gusto dechirichiano, che occupa Prologo ed atto III, non solo non sono sfruttate, ma essendo la piazza compressa nella parte sinistra del palco (quella destra è, inspiegabilmente, occupata del tutto dal palazzo di Fiesco) creano una distorsione visiva che infastidisce nelle scene di massa: il coro, cioè, pare schiacciato sul proscenio, con conseguente ‘effetto presepe’. Un altro elemento registico/scenico disorientante è l’uso di un fondale mobile con finestre, di discutibile fattura, che viene calato davanti al proscenio per rendere l’effetto di scene esterne: il suo abuso non fa che banalizzare molti momenti registici (sopra tutti la sommossa della scena del consiglio). Eppure, la resa del giardino del Palazzo dei Grimaldi (atto I), che viene risolta con un faro ed un’irta scogliera, ha il suo fascino, assai poco sfruttato – un esempio? L’aurora non viene evocata dall’apparato delle luci. Insomma, scene caliginose ed una grigia regia non lasciano apprezzare la complessità drammatica di un’opera che molto offre in tal senso; questo Boccanegra, dunque, rimane più da ascoltare che da guardare.

Leggi anche

Roma, Peter Grimes, 15/10/2024

Roma, Kát’a Kabanová, 21/01/2022

Parma, Simon Boccanegra, 09/10/2021

 


Vuoi sostenere L'Ape musicale?

Basta il costo di un caffé!

con un bonifico sul nostro conto

o via PayPal

 



 

 

 
 
 

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.