L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Meli e il giorno da leone

di Francesco Lora

All’inaugurazione della stagione lirica del Teatro La Fenice di Venezia, l’applauso è soprattutto per il tenore Francesco Meli, all’atteso – da lui, da tutti – debutto come protagonista in Otello. Delude la Desdemona di Karah Son, eccelle lo Jago di Luca Micheletti. Virtuosistica ma frettolosa la direzione di Myung-Whun Chung. Fuorviante il nuovo allestimento firmato da Fabio Ceresa, Massimo Checchetto e Claudia Pernigotti.

VENEZIA, 1o dicembre 2024 – Da molti anni Francesco Meli aveva espresso il desiderio d’interpretare la parte eponima, leggendaria e temutissima, in Otello di Verdi; ed ecco, puntuale, lo scandalizzarsi della melomaniaca vox populi: l’aspirante alla più drammatica tra le parti tenorili verdiane è infatti un cantante con ancora in repertorio il brillante e sospiroso Nemorino dell’Elisir d’amore. Chi scrive la pensa diversamente, e ama gli artisti che ai cento giorni da pecora, ligi nel ripetere la loro normalità, antepongano il singolo giorno da leone, finendo per ribaltare le aspettative. Troppe volte abbiamo compianto il basso che ha preferito attendere il «crin bianco» prima di debuttare come Filippo II in Don Carlo, e troppe volte abbiamo biasimato il baritono che ha voluto attendere la paternità prima di calarsi nel protagonista di Rigoletto: il risultato è spesso stato quello di sforare i massimi tempi biologici, in un mestiere che implica pur sempre una prestanza atletica, indubitabile in età giovanile ma destinata a ridursi pian piano. Fa strabene, invece, chi si mette alla prova inseguendo e realizzando le giuste sfide: dodici anni fa, un tale Gregory Kunde si concesse la follia di esordire come Otello in coda a una lunga carriera fatta di Rossini, Bellini e Donizetti, dopo una malattia grave e a cinquantotto anni suonati: da allora, mezzo mondo ha avuto da lui una sbalorditiva e instancabile serie di debutti, in una collezione di parti tra le più poderose del repertorio, in modo tale che grazie alla sua disponibilità è divenuto più facile veder allestiti titoli come L’africaine e Le prophète di Meyerbeer, Samson et Dalila di Saint-Saëns o La juive di Halévy. Il debutto di Kunde avvenne inaugurando la stagione lirica del Teatro La Fenice, esattamente come è ora avvenuto a Venezia il debutto di Meli, con cinque recite – ma la prima è saltata per sciopero – dal 23 novembre al 1o dicembre. Manco a dirlo, questo nuovo e chiacchierato Otello di Meli è ottimo, punto e basta: possiede la comunicativa, immediata e fragrante, del cantante di madrelingua e con vera fonica all’italiana; reca la motivazione totale dell’artista, così da trarne una tra le prove più attente, impegnate e generose, insomma riuscite, escludendo vecchi difetti e rivelando pregi inediti: una risonanza esuberante, una tenuta saldissima, uno squillo elettrizzato; infine, questo Otello così vocalmente dotato s’impone anche come uno tra i pochi in agiata condizione di curarsi del testo teatrale: non ci sarà poi limite all’approfondimento, ma il risultato è già egregio anche in tal senso.

Uno iato si avverte piuttosto nel rapporto con i colleghi che sono stati posti intorno a Meli, non sempre assecondandolo nella particolarità dell’occasione e nell’originalità delle intenzioni. Poco adeguata a questo tenore e a questo teatro, giacché al cospetto di un pubblico degno di esigere, è infatti la generica, manierata, scolastica Desdemona di Karah Son: lo smalto abbonda ma lo stile scarseggia e la tecnica oscilla, in una parte ove la resa di pregio è più norma che eccezione. Singolare è poi l’affiancamento di un Otello dal canto così argentino con uno Jago invece nero di voce come la pece: ma quello di Luca Micheletti è anche un miracolo di dotazione naturale, di facilità emissiva, di chiarezza espositiva, di fantasia retorica, di modernità attoriale e di prestanza scenica, come del resto già si sapeva dalle rivelatorie recite dell’inverno scorso a Piacenza, Modena e Reggio; spiace solo che l’idea qui messa in campo sia quella del cattivo ghignante, alla birignaosa foggia disneyana, contro la sottile visione lasciata scritta dagli autori e quasi mai ubbidita: quella di un insospettabile personaggio con «fare distratto, nonchalant, indifferente a tutto, incredulo, frizzante dicendo il bene e il male con leggerezza, come avendo l’aria di pensare a tutt’altro di quel che dice» (Verdi), ovvero «gioviale e schietto e quasi bonario» giacché «se in lui non ci fosse un grande fascino di piacevolezza nella persona e d’apparente onestà, non potrebbe diventare nell’inganno così potente come è» (il librettista Boito). Comprimariato non sempre all’altezza dell’impegnativo caratterismo richiesto nelle parti di Cassio, Lodovico ed Emilia: la qualità, lì, si nota soprattutto quando difetti.

Sfolgorante l’orchestra e gagliardo il coro, benché la direzione di Myung-Whun Chung suoni sempre più istintivamente virtuosistica e sempre meno studiatamente espressiva, nel confronto con le letture di Otello già da lui date alla Fenice nel 2012 e nel 2019: la tempesta iniziale dà dunque impressionanti, moltiplicate vertigini, mentre ciascuna oasi lirica – in particolare il canto nel giardino, il disperato monologo del protagonista, la stessa “Canzone del salice” – tende a suonare frettolosa, incalzante ma anche tirata via. Fuorviante è infine il nuovo allestimento con regìa di Fabio Ceresa, scene di Massimo Checchetto, costumi di Claudia Pernigotti, luci di Fabio Barettin, video di Sergio Metalli e coreografie di Mattia Agatiello. L’azione è trasposta non in avanti nel tempo, come si usa fare, bensì eccentricamente all’indietro, tra i dorati mosaici bizantini di un orizzonte bidimensionale, nel quale un Otello sottratto a ogni insinuazione di blackface si muove impassibile come un nuovo imperatore Giustiniano, circondato dalla simbolica e circense danza del leone di san Marco in competizione con sinuose, sinistre dissennatrici di harrypotteriana ascendenza. Così, però, finisce cassata l’urgenza drammatica di una pecora nera arrivata con sudore al successo militare, e sospettosamente controllata dalla classe dirigente nell’attesa che un errore lo spinga alla rovina; così, però, si va ad astrarre nel simbolo e ad allontanare dal pubblico l’esplicito, concreto, immediato linguaggio teatrale di Verdi; così, però, si devia verso cianciafruscole l’attenzione, in uno spettacolo che avrebbe già la sua completa ragione d’essere nel concorso – applauditissimo – di Meli.

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