Magnifica presenza
Il Teatro del Giglio di Lucca, nel giorno del centesimo anniversario della scomparsa di Giacomo Puccini, celebra il compositore con un nuovo allestimento di Tosca
LUCCA, 29 novembre 2024 – Era il 29 novembre quando Puccini si spegneva in una clinica di Bruxelles, vicino a sé gli appunti del nuovo finale per Turandot. È di nuovo il 29 novembre, cento anni dopo, e nella città natale del compositore si inaugura la stagione lirica proprio con la sua musica: nessuna altra scelta avrebbe potuto essere più adeguata, né più giusta. Il titolo prescelto – come accadde nel cinquantenario della morte – è una Tosca e in coproduzione (di cui il Giglio è capofila) con il Goldoni di Livorno, il Verdi di Pisa, l’Alighieri di Ravenna, il Comunale di Modena e il Comunale di Ferrara: non sarà davvero originale, ma delle dodici opere pucciniane è senz’altro quella capace di mettere d’accordo le fasce più diverse del pubblico, per certi versi ancor meglio della Bohéme.
Si è fatto un gran parlare di questa Tosca, con le locandine affisse già in estate, ed effettivamente il battage unito alla particolare ricorrenza ha prodotto il risultato sperato dato che il Giglio non avrebbe potuto essere più stipato di così. In questo senso, l’idea di proiettare questa prima al cinema è stata felice perché ha consentito a un pubblico ancor più numeroso di poter assistere. Con l’occasione di questa coincidenza di calendario, davanti al teatro si è tenuta una breve cerimonia in cui si è svelata la nuova intitolazione del teatro che sulla facciata ora reca «Teatro del Giglio Giacomo Puccini», modificazione fortemente voluta dall’amministratore unico del teatro Giorgio Angelo Lazzarini.
Insomma, si è fatto un gran parlare di Puccini, peraltro con grandi tributi e incensi, ma la proclamata “Tosca del centenario” era all’altezza delle aspettative? In una parola, no. I problemi sono gli stessi riscontrati nell’Andrea Chénier pisano, anche se la situazione lucchese è comunque migliore nel suo complesso: la parte visiva è davvero splendida, in particolare le imponenti scene di Giacomo Andrico, mentre la parte musicale non è al medesimo livello.
Luca Orsini propone un’impostazione registica tradizionale, molto pulita, in cui segue fedelmente le indicazioni del libretto ma aggiunge anche qualche tocco personale di una certa eleganza; si apprezza, ad esempio, il panno gettato sul cadavere di Cavaradossi che rende più naturale – e logica – la reazione di Tosca. Quel che non convince appieno è la gestione dell’ideazione scenica: si parte da una situazione iperrealistica, con una dovizia di particolari curatissimi di zeffirelliana memoria, ma a partire dall’ingresso di Scarpia la realtà inizia gradualmente a vacillare con cancelli che salgono al soffitto e un intero corpo clericale in cui tutti indossano gli stessi paramenti e gli stessi colori, per approdare poi a un Palazzo Farnese quasi surrealista. La bellezza visiva resta intatta, complici anche i costumi di Rosanna Monti e le efficaci luci di Tiziano Panichelli, tuttavia non è chiaro dove l’impianto scenico ci voglia portare né cosa ci voglia dire: è una deformazione del tessuto della realtà per indicare l’avvicinarsi via via alla catastrofe finale? Si vuole sottolineare la degradazione morale di Scarpia? Si vuole sottintendere una sorta di realismo magico? E se sì, quand’è che siamo entrati nella tana del Bianconiglio? In teatro possiamo fare quello che vogliamo, a maggior ragione con la disponibilità di mezzi che abbiamo al giorno d’oggi, ma se un percorso non è chiaro significa che qualcosa non funziona come avrebbe dovuto.
Il giovane Henry Kennedy è una buona bacchetta, con una grande attenzione per la coesione dell’orchestra (garantita al netto di qualche incertezza come le scale di sedicesimi fra «Melas è in fuga» e «Vittoria!»), il buon equilibrio fra palco e buca, la ricerca dei colori in una partitura che assolutamente reclama questo tipo di lavoro. I metronomi, tuttavia, non sempre sono adeguati e in diversi punti si soffre di una certa lentezza, persino in passi celeberrimi come “Vissi d’arte” o “E lucevan le stelle”, abbastanza lenti da poter creare qualche difficoltà agli interpreti. La Giovanile Luigi Cherubini interpreta con evidente gusto la partitura, trovando in generale una bella compattezza e interessanti sonorità che hanno il merito di ricordare quanto quest’opera bussasse alle porte del Novecento. Ottimo il Coro Arché preparato da Marco Bargagna, capace di imporsi senza riserve nel pur limitato spazio riservatogli; risultato dello stesso segno anche per il Coro delle Voci Bianche Puccini 100 preparato da Angelica Ditaranto, assieme al Coro di Voci Bianche della Cappella di Santa Cecilia di Lucca e al Coro di Voci Bianche della Scuola di Musica “Giuseppe Bonamici” di Pisa preparati da Lorenzo Corsaro.
Per quanto concerne il cast dei solisti, la selezione poteva essere più curata. È chiaro che non si discute sulla buona volontà dei singoli interpreti, ma bisognava pensare a monte se era il caso di mandare proprio loro in scena, come nel caso della giovanissima Dalia Spinelli che semplicemente non era pronta e bisognava riflettere bene se era il caso di esporla già in un passo solistico più che scoperto. Poco incisivo Paolo Breda Bulgherini nel pur esiguo ruolo del Carceriere, mentre Eugenio Maria Degiacomi si ritaglia un buono spazio come Sciarrone. Nicolò Ceriani è così tanto sopra le righe come Sagrestano da inficiare persino la dizione: si riconosce un certo mestiere nell’interpretazione, ma un ruolo di mezzo carattere richiede molta più misura, altrimenti come in questo caso si trasforma in un personaggio macchiettistico o – peggio – comico fuori contesto.
Alfonso Zambuto è uno Spoletta oculato, che sa quando calcare la mano e quando essere più disciplinato, molto scrupoloso sulla cura della linea vocale, anche se non si può propriamente parlare di una vocalità che attira l’attenzione. Maiuscola la prova di Omar Cepparolli nei panni di Cesare Angelotti, forte di uno strumento brunito e dalla bella proiezione, unitamente a una recitazione efficace nella sua essenzialità.
Azer Zada rappresenta un curioso ossimoro: nonostante interpreti un pittore, il suo Cavaradossi ha ben pochi colori e soprattutto nelle arie. La sua è una prestazione in crescendo, dall’evidente difficoltà del primo atto (soprattutto in “Recondita armonia”), a un secondo atto più sostenuto fino al terzo in cui finalmente i risultati arrivano. Tralasciando il fatto che viene difficile accettare un Cavaradossi che di fatto entra in scena al terzo atto, Zada è senz’altro discreto ma non può essere definito più di modesto in questo ruolo; anche dalla prospettiva della prova attoriale non si possono fare grandi elogi, come sulla chimica con la protagonista che semplicemente non si concretizza mai nonostante le buone intenzioni.
Il ruolo del titolo è affidato a Clarissa Costanzo, una voce giovane che necessita del tempo per maturare. Si sente che le idee musicali ci sono e sulla scena sa ben difendersi, tuttavia la tecnica ha bisogno di consolidamento, soprattutto su due aspetti davvero importanti. Il primo è la dizione, che attualmente risulta davvero oscura, seguito da una produzione del suono artificiosa – forse con l’intento di ispessire il registro grave – che comporta la riuscita casuale dello squillo nelle puntature, difatti ci sono evidenti disomogeneità lungo la gamma. Qualche accortezza in più viene sfoderata nel “Vissi d’arte” e proprio qui si segnala la ricerca di colori specifici come quel bel filato in pianissimo sull’ultimo «perché me ne rimuneri», salvo poi rovinare tutto con una inopportuna messa di voce sul «così» in fine d’aria che ricorda come alcuni cattivissimi esempi cerchino l’applauso.
La palma va senza ombra di dubbio a Massimo Cavalletti, eccellente in tutto e per tutto come barone Scarpia. Ieratico e austero, cattura l’attenzione a ogni suo ingresso; senz’altro c’è un carisma naturale che aiuta, ma lo spessore di questa prova attoriale è altissimo e nulla è lasciato al caso: Cavalletti conferisce il giusto – anzi, l’esatto – peso a ogni frase, ogni accento, ogni parola, persino le espressioni più marginali (in questa recita pronuncia il più perentorio «apprestate per il Te Deum» che chi scrive abbia udito). A questo si sommano l’attentissima cesellatura del fraseggio, uno strumento vocale di cui il baritono ha un controllo pressoché perfetto e pure dotato non solo di un bel timbro ma anche di una evidente uniformità fra i registri, persino nelle zone di passaggio. In breve, da solo lo Scarpia di Cavalletti meritava il prezzo del biglietto.
Questo è però un “difetto”, nel senso che nella Tosca del centenario alla fin fine c’era solo un interprete di alto livello (e così alto da distanziare notevolmente tutti gli altri), mentre almeno i tutti e tre protagonisti e il podio avrebbero meritato nomi di rilievo. Il risultato complessivo è apprezzabile e se ne potrebbe anche essere contenti, ma nel momento in cui si doveva puntare sulla qualità – quella vera – alla fine si è ottenuto il solito risultato. Se il desiderio è quello di onorare un compositore, intitolazioni, targhe, statue e corone di alloro non significano nulla; se il desiderio è quello di onorare un compositore, si onori la sua musica e si avrà la certezza di aver fatto il massimo possibile.