Le grand final
Omer Meir Wellber conclude il suo mandato come direttore musicale al Teatro Massimo di Palermo con una vorticosa lettura dell’unica opera di Ligeti, Le grand macabre, al cui pieno successo concorre un cast omogeneamente ben versato nel teatro musicale contemporaneo e l’efficace regia di Barbora Horáková.
Palermo, 24 novembre 2024 - Il percorso di Omer Meil Wellber come direttore musicale al Teatro Massimo di Palermo, sin dal suo avvio con un Parsifal memorabile (anche per la regia di Graham Vick) condotto fra alti e bassi, ma sempre all’insegna di un’inquietudine artistica di forte autenticità, non poteva non concludersi con un titolo più indiavolato ed eccentrico che è Le Grand Macabre di György Ligeti. Nella città immaginaria mutuata dal compositore ungherese da una ballata del letterato belga Michel de Ghelderode il direttore israeliano si immerge introducendo l’opera con una breve prolusione immediatamente sommersa da sonore contestazioni, culminate nel più retrivo e becero “viva Verdi”: ma non è che il primo di una lunga serie di scherzi drammaturgici, testuali e musicali riservati dai successivi ottanta minuti che scorrono bellamente, senza soluzione di continuità, fino all’ambigua forse salvifica conclusione. Anche grazie ad una parte visiva ben congegnata da Barbora Horáková e alla bravura del suo scenografo Thilo Ullrich, che identifica l’immaginaria città di Breughelland con le attrazioni di uno squallido lunapark itinerante, a partire dall’iniziale facciata di una horror house, che si scompone col susseguirsi delle scene, lasciando alla vista un ottovolante, una ruota panoramica e una gabbia sferica wireframe, stilizzato osservatorio dell’astrologo Astradamors, sottomesso dalla moglie Mescalina. Al lunapark cadente fanno da contraltare le luci di Machel Bauer e i tanto colorati quanto ironici costumi di Eva-Maria Van Hacker.
Ecco che il malefico Nekrotzar, impersonato da uno strepitoso Zachary Altman, irrompe nella città profetizzando l’apocalisse finale ad una sequela di personaggi monodimensionali, stereotipati e irredimibili, a partire dall’ubriacone Piet (il tenore Dan Karlström) e dalla coppia Amando e Amanda che in questo spettacolo divengono due siliconate bambole incestuosamente gemelle, ben tratteggiate da Maya Gour e Magdaléna Hebousse.
Nonostante le sottomissioni da parte della mistress Mescalina sul marito Astradamors – entrambi impegnati a far sprofondare negli abissi del pentagramma rispettivamente i bravi Helena Rasker e Karl Huml – quest’ultimo avvista l’asteroide che distruggerà la terra, mentre la moglie, nell’atto di darsi al malefico Nekrotzar ne rimane annientata. Nell’intervenire contro l’apocalisse il controtenore Karl Laquit che dà voce al Principe Go-Go rasenta l’immobilismo, dilaniato dal dualismo dei sui due ministri (i plausibili Daniel Jenz e Michal Marhold), brillantemente ritratti dallo spettacolo in un duello elettorale che strizza satiricamente l’occhio alle recentissime elezioni statunitensi. Se tutti riescono a gestire la difficile scrittura intervallare ligetiana a Holly Flack, nella duplice parte di Venere e del Capo della Gepopo, parodia della Gestapo, compete con piena pertinenza anche il canto di coloratura.
Non minori sono le difficoltà di scrittura che supera a pieni voti il Coro del Massimo, istruito da Salvatore Punturo, nonostante la complicazione d’essere dislocato a fondo della platea in un coinvolgente momento di teatro totale. Ma non impari è anche la curiosa compagine orchestrale costituita da tre violini, un meno sparuto drappello di archi gravi, un dispiegamento quasi wagneriano di legni e ottoni e percussioni delle più disparate, dai clacson et similia. A tenere le fila di una scrittura quanto mai ritmicamente folle è un infaticabile Wellber, visibilmente soddisfatto del risultato finale agli applausi alla ribalta. Con buona pace dei soloni cascati alla burla delle contestazioni iniziali, lo spettacolo registra solamente consensi, sebbene non del tutto convinti. Tutto nel mondo è burla, in fondo, al Teatro Massimo più che mai. La burla di questi anni, forse, è non aver offerto un Falstaff a Wellber, che lo avrebbe letto in maniera non meno indiavolata di questo grand final.
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