L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Alla cantata non manca la diva!

 di Stefano Ceccarelli

Il Teatro dell’Opera di Roma riporta in scena la Tosca di Giacomo Puccini, nell’ormai consueto allestimento con le scene originali di Adolf Hohenstein e la regia di Alessandro Talevi, sotto la bacchetta di un ispirato Daniel Oren. Protagonista indiscussa, nel ruolo del titolo, è Anna Netrebko, che manda in visibilio il pubblico romano; al suo fianco, Yusif Eyvazov come Cavaradossi e Amartuvshin Enkbath come Scarpia.

ROMA, 4 marzo 2025 – Nell’anno pucciniano, il Teatro dell’Opera di Roma propone al pubblico tre cicli della medesima produzione di Tosca, con direttori ed interpreti sempre differenti. Il primo ha già aperto l’anno solare (leggi la recensione) e si è ora giunti al secondo, che vanta la presenza di quella che può essere considerata la vera diva dell’opera mondiale di oggi: la celebre Anna Netrebko, la quale ritorna trionfalmente al Costanzi dopo il suo battesimo, un decennio fa, nella Manon Lescaut diretta da Riccardo Muti (leggi la recensione). Il pubblico romano la attendeva, comprensibilmente, da molto e le ha tributato tutti gli onori del caso: ci si augura che dopo il suo trionfo, anche in questa produzione di Tosca, torni con più regolarità all’Opera di Roma.

È Daniel Oren a sedere sul podio di questa ennesima ripresa della Tosca di Alessandro Talevi, che si avvale delle scene ricostruite, per opera di Carlo Savi, dai bozzetti originali, firmati a suo tempo da Adolf Hohenstein (per un giudizio su regia, scene e costumi rimando alla recensione del marzo 2015). Oren si lascia particolarmente apprezzare, anche in virtù dello stato di grazia di cui gode recentemente l’orchestra del Costanzi. Il suono dalla buca è netto, terso, potente: il direttore spagina tutta la raffinata partitura con grande attenzione. Si pensi, solo per fare un esempio, al mirabile accompagnamento del duetto dell’atto III: Oren ne coglie i tanti particolari, le delicate soluzioni armoniche, le sfumature più intime dei vari passaggi, gli impasti brillanti degli strumenti che accompagnano le voci. Sempre a mo’ di esempio si prenda, pure, il Te Deum, l’unica scena davvero corale dell’opera (dove si nota la qualità delle maestranze), che ci fa notare la chiave di volta dell’interpretazione del direttore: questi non mira a riempire il teatro di suono, travolgendo il pubblico, ma sfrutta uno studiato rubato agogico, unito al colore che naturalmente si genera nelle differenze fra i volumi sonori, per regalare un Te Deum meno ‘spinto’ del solito, ma ugualmente dirompente.

Il cast vocale trova nella sua punta di diamante, Anna Netrebko, il motivo di vero interesse di questa produzione; proprio per questo, vorrei concludere la recensione elogiandone la performance. Si inizi, quindi, in maniera inconsueta, parlando dei comprimari, alcuni dei quali sono gli stessi della produzione di due mesi fa. Gabriele Sagona canta un buon Angelotti; Saverio Fiore mi è parso più efficace nel ruolo di Spoletta rispetto alla scorsa volta, come pure Irene Codau in quello, retroscenico, del pastorello. Convince, ancora, Domenico Colaianni nei panni di un Sagrestano non eccessivo, naturale, fresco, privo delle superfetazioni teatrali cui la parte si accompagna. Venendo ai protagonisti, il Cavaradossi di Yusif Eyvazov non può dirsi certo riuscito, pur ricevendo calorosi applausi alla fine dell’opera. Questo si può, forse, spiegare con un III atto migliore rispetto agli altri due: l’esecuzione dell’aria «E lucevan le stelle» presenta qualche merito per alcune soluzioni interessanti in filato, un buon controllo del fiato, una certa qual musicalità. Il problema di Eyvazov, però, è un po’ più strutturale: un’intonazione a tratti periclitante, un’emissione decisamente aperta e una tenuta di volume altalenante complicano una performance che non brilla nemmeno per particolari doti attoriali. Lo si intuisce sùbito, in apertura, con «Recondita armonia», che appare sottotono, non particolarmente centrata, né brillante – al netto, forse, di un’interpretazione volutamente intimistica. Il successivo duetto con Tosca («Non la sospiri la nostra casetta») non cambia molto la situazione, con l’ovvio fatto che la statuaria vocalità della Netrebko non giova ad Eyvazov (la distanza fra i due, però, si accorcia nel duetto del III, «O dolci mani»). Il II atto presenta, essenzialmente, una sola, vera difficoltà per Cavaradossi: gli acuti al grido di «Vittoria!», estremo gesto di protesta contro lo strapotere opprimente di Scarpia – e non si può certo dire che Eyvazov abbia convinto nella loro esecuzione. La parte di Scarpia è sostenuta da Amartuvshin Enkbath, noto per la sua voce possente, un mezzo centrato ed efficace. In effetti, il baritono possiede tutte le note del barone, ma forse gli manca un po’ di carattere, uno lavoro di scavo psicologico nel personaggio. Lo si è notato non tanto nel I atto, dov’è abbastanza convincente, soprattutto nella scena corale del Te Deum (grazie anche alla magistrale direzione di Oren). È nel II che Enkbath diventa uno Scarpia più ordinario: in «Ha più forte sapore la conquista violenta», certamente ben presente e centrata su un piano meramente vocale, non incarna appieno le sfumature luciferine del personaggio. Nelle scene successive, il fascino impressionante che promana dalla diva catalizza, inevitabilmente, le attenzioni del pubblico.

Sì, perché il maggior motivo di trionfo per la serata è stata la splendida performance di Anna Netrebko. Dotata di florida vocalità, irrobustita, nei decenni, da ruoli sempre più drammatici, che le hanno scolpito un registro grave di notevole caratura, Netrebko vanta ora un’estensione impressionante, in cui la tessitura alta si esprime non solo in potenti acuti, ma anche (e questa forse è la sua miglior qualità) in un controllo superbo dei fiati, che le consentono di prolungare filati perlacei, di aprire e chiudere il volume con una naturalezza sublime. Nel I atto mostra tutta la sua musicalità e la facilità del fraseggio già nel duetto con Cavaradossi, ma un assaggio della sua tempra lo si ha nella scena che precede il Te Deum («Ed io veniva a lui»), dove la voce si irrobustisce a liberare tutta la frustrazione amorosa di Floria. Il suo II atto è difficilmente descrivibile a parole. Qualcuno si potrebbe fermare alla perfezione dell’esecuzione della celebre «Vissi d’arte». Netrebko deliba tutto il dolore del personaggio, rilassando la melodia con l’uso sapiente di sfumate mezzevoci, allungando delicatamente le frasi (complice anche un’attenta direzione di Oren, sensibilissima) e inanellando cristallini filati. Il pubblico è in visibilio e le tributa un calorosissimo applauso. Ma non si tratta solo della bravura vocale, Netrebko è anche una straordinaria attrice. La morte di Scarpia diventa l’occasione per rompere gli schemi e proporre un personalissimo approccio al personaggio: bevuto avidamente un sorso di vino, Tosca si fa coraggio e, dopo un’esitazione più prolungata del solito ad afferrare il fatale coltello della cena di Scarpia, lo trafigge con odio quasi ferino. Poi, Netrebko immagina una Floria in preda ai rimorsi, che vomita per la tensione e si ricompone a fatica, non dimenticandosi di una spartana sepoltura (i due candelabri) per l’odiato tiranno. Netrebko si congeda dal pubblico con un magnifico duetto nel III atto, dove le frasi si librano eteree, sognanti, in una fantasia di libertà ed amore che mai troverà realizzazione. Infine, dopo l’esecuzione dell’amato Mario, su uno splendido si bemolle, pieno e disperato, si getta da Castel Sant’Angelo. Sono perlopiù per lei i fragorosi applausi che concludono questa produzione di Tosca, ennesima testimonianza del talento di questa fantastica artista. Il pubblico romano non può che sperare in un suo futuro, glorioso ritorno.

Leggi anche:

Roma, Manon Lescaut, 27/02/2014

Roma, Tosca, 08/03/2015

Roma, Tosca, 09/12/2021

Roma, Tosca, 04/11/2022

Roma, Tosca/Turandot, 24-25/07/2024

Roma, Tosca, 16/01/2025

Milano, Tosca, 07/12/2019


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