Rigoletto tra gli specchi
Nel nuovo allestimento di Rigoletto andato in scena al Teatro Regio di Torino s’impone l'eccellente concertazione di Nicola Luisotti mentre la regia di Leo Muscato, pur con qualche intento non del tutto compiuto, si distingue per scorrevolezza e incisività visiva. Nella seconda compagnia di canto spiccano il Rigoletto di Devid Cecconi, lo Sparafucile di Luca Tittoto ed Emanuele Cordaro quale conte di Monterone.
Torino, 8 marzo 2025 – In questo Rigoletto, nulla è mai come appare. I volti si riflettono in specchi ingannevoli, sghembi e luridi, distorti da passioni e inganni, le figure si sdoppiano, si sfumano, si dissolvono. Il buffone indossa la maschera del mostro imposto dalla società, ma nello specchio si rifrange la sagoma di un padre straziato; il Duca si contempla nella bellezza dorata che vela il vuoto dell’anima; Gilda sogna l’amore, ma il suo riflesso è quello di una vittima predestinata. Son dunque personaggi sfuggevoli, ambigui, uni e molteplici quelli che Leo Muscato prova a catturare sulla miriade di superfici riflettenti che nel nuovo allestimento di Rigoletto, andato in scena al Teatro Regio di Torino, incapsulano lo spazio in una suggestiva dimensione onirica dove realtà e illusione si confondono in un gioco di rimandi senza fine.
L’idea di un universo liquido, fatto di riflessi e identità mutevoli, si rivela però più una soluzione scenografica vincente che una rinnovata chiave di lettura drammaturgica: i personaggi, pur immersi in questa realtà inafferrabile, non acquisiscono una nuova profondità psicologica né rivelano sfaccettature particolarmente inedite. Poco importa, sia chiaro, perché nel complesso quello che Muscato e il suo team – Federica Parolini alle scene, Silvia Aymonino ai costumi e Alessandro Verazzi alle luci – confezionano per il teatro sabaudo è comunque uno spettacolo ben pensato e ben realizzato che, pur riproponendo soluzioni ancora fresche di Sant’Ambrogio, mantiene una sua coerenza visiva e un’indubbia eleganza formale. La misura nell’uso dei tableaux vivants, la cura nell’alternanza tra registro tragico e grottesco – trattato nel testo verdiano con un approccio provocatorio e iperbolico –, l’attenzione alla recitazione e alla gestione di masse e singoli, indubbiamente agevolata dalla piattaforma girevole che assicura dinamicità alla scena, conferiscono allo spettacolo una godibilità non scontata, frutto di un mestiere solido e consapevole. Certo, là dove ci si arrischia nel riscrivere inezie che non gravano affatto sull’economia del dramma nonostante turbino il sonno dei tradizionalisti più bellicosi, una ragione, sia essa drammaturgica o meglio ancora tecnica, più convincente non guasterebbe: far crepare il conte di Monterone in scena cosicché possa tormentare Rigoletto sotto spettrale forma, ad esempio, ha senso; farlo comparire e scomparire in scena così, da una quanta laterale di proscenio, senza un autentico coup de théâtre, proprio no.
In buca, invece, i colpi di teatro si susseguono con ritmo elettrizzante perché la direzione di Nicola Luisotti, alla guida dell’Orchestra del Teatro Regio di Torino in gran spolvero, s’impone come l’elemento di maggiore attrattiva. Incredibilmente ricca sul piano cromatico, ritmico ed emotivo, la concertazione di Luisotti sa far tesoro di ogni sfumatura della partitura per esaltare la varietà e l’intensità della scrittura verdiana: non vi è mai un dettaglio strumentale sbalzato in primo piano senza una reale necessità drammatica, né un passaggio orchestrale che non trovi un suo preciso peso espressivo nella costruzione del racconto musicale.
Luisotti scolpisce il suono con rigore e passione, facendo emergere con estrema nitidezza i contrasti tra luce e ombra che attraversano la partitura: il lirismo trepidante e ingenuo di Gilda, la voluttuosa spavalderia del Duca, l’inquieta disperazione di Rigoletto. Il fraseggio è vivido e pulsante, con agogiche sempre tese alla costruzione di un dramma musicale che non concede distrazioni né cali di tensione: ogni accelerando è carico di urgenza, ogni pausa è pregna di significato, ogni crescendo sembra spingere in avanti il destino ineluttabile dei personaggi. L’orchestra si fa ora impetuosa, ora diafana, con archi vellutati che abbracciano le voci e fiati cesellati con estrema cura timbrica. Il Coro maschile del Teatro Regio di Torino, accudito dal maestro Ulisse Trabacchin, appare qui in stato di grazia: compatto, sonoro, eppure capace di flessuose smorzature, affronta il testo con una perizia tecnica e una dovizia d’accenti che «inebria, conquide, distrugge il mio core».
Soddisfacente, nel complesso, la seconda compagnia di canto. Per qualità vocali e attoriali, Devid Cecconi si dimostra un ottimo Rigoletto. La sua voce, timbrata, voluminosa e ben emessa, emerge con forza, nonostante qualche minima forzatura percepita in alcuni passaggi a favor di pubblico. L’interprete si lascia apprezzare per un fraseggio coinvolgente, che non sacrifica né l’accento né il testo, riuscendo sempre a mantenere ben definito un protagonista che appare tanto palpabile quanto credibile, sia egli impegnato in attimi di concitato furore o ripiegato su sé stesso in momenti di commovente tenerezza. Daniela Cappiello è una buonissima Gilda: al netto di qualche asprezza in acuto, piacciono molto la delicatezza del canto sfumato e la grazia nel porgere la frase musicale. Oreste Cosimo, il duca di Mantova, da prova di professionalità, pur mostrandosi abbastanza affaticato nella scena d’apertura del secondo atto. Luca Tittoto è uno Sparafucile dallo strumento sontuoso e una simile autorevolezza si riscontra anche nel Monterone Emanuele Cordaro. Un validissimo parterre di comprimari, tra cui Veta Pilipenko (Maddalena), Siphokazi Molteno (Giovanna), Janusz Nosek (Marullo), Daniel Umbelino (Borsa), Tyler Zimmerman (conte di Ceprano), Albina Tonkikh (contessa di Ceprano), Chiara Maria Fiorani (paggio) e Alessandro Agostinacchio (usciere), completa il cast.
Il tutto esaurito e i calorosissimi applausi rivolti suggellano il successo della serata.
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