L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L'eterno inganno della maledizione

di Alberto Ponti

L'attesa messinscena del capolavoro verdiano al Regio da parte di Leo Muscato si risolve in una visione coraggiosa e personale, nonostante incongruenze bizzarre e poco giustificate dal contesto. Ottimo il cast vocale, su cui spicca Giuliana Gianfaldoni nella parte di Gilda, accurata e autorevole la bacchetta di Nicola Luisotti

TORINO, 5 marzo 2025 - Chi di noi non ha mai pensato almeno una volta che la vita sia una ruota che gira? Altrettanto deve avere fatto Leo Muscato che, per la rappresentazione torinese di questo Rigoletto, impernia l'intero apparato registico su una grande piattaforma girevole grazie alla quale compaiono e scompaiono le ambientazioni del dramma. La situazione è da intendersi in senso letterale e non metaforico visto che qui, alla fine, la ruota non gira per nessun protagonista: il duca continuerà ad essere l'imperterrito libertino, le cui dissolutezze non saranno punite da nessun dongiovannesco commendatore, il brigante e la sua compare non andranno incontro a nessuna redenzione, mentre sul povero buffone e sua figlia, vittime predestinate fin dalla comparsa in scena, si scaglierà atroce la maledizione del conte di Monterone che doveva essere il titolo originario dell'opera. Da questo punto di vista Rigoletto si legge senz'altro come tragedia sociale dell'estrema difficoltà, quando non dell'impossibilità, di sfuggire a un destino che, tenuto conto di un certo milieu di provenienza in un determinato momento storico, appare segnato dalla nascita. Il tentativo di Rigoletto di sfuggire, sia pur con mezzi criminosi commissionando un delitto, a una condizione di subalternità in apparenza eterna invertendo per una volta i ruoli ('Quest'è un buffone, ed un potente è questo!.../Ei sta sotto i miei piedi!... È desso! Oh gioia!') si rivela così un eterno inganno, una beffa atroce e tombale. Da tale punto di vista la sua parabola può ricordare, con un paragone che non intende essere irriverente e che forse Verdi, oltre che genio musicale anche accorto proprietario terriero in quel di Sant'Agata, non avrebbe disdegnato, quel povero commerciante di bestiame abituato a trattare ronzini di infima qualità e che, l'unica volta che per errore altrui gli capitò tra le mani un cavallo di razza, non seppe riconoscerlo e lo vendette per quattro soldi dando un calcio alla propria fortuna. L'allestimento di Muscato trasporta la vicenda dall'originario XVI secolo del libretto al periodo della belle époque a cavallo tra Otto e Novecento. A una scena volutamente essenziale, resa necessaria dalla mobilità della piattaforma che abolisce quinte e fondali elaborati, si contrappone una ricostruzione minuziosa degli ambienti che, nel primo atto, più che il palazzo ducale di Mantova paiono piuttosto richiamare gli appartamenti di Napoleone III al Louvre. Una sorta di grandeur sardanapalesca si ritrova pure nel gran numero di comparse sul palcoscenico, nonchè nelle decine di candele accese ad evocare il 'tempio', luogo dell'incontro tra il duca e Gilda, trasformata per l'occasione in fanciulla ospite di un collegio religioso. Accanto a visioni stilistiche personali vi sono però aperte licenze che potrebbero ingenerare qualche confusione in chi assistesse per la prima volta all'opera, dall'uccisione di Gilda per mano non di Sparafucile ma della sorella Maddalena alla morte del conte di Monterone all'inizio del dramma. Lo spettacolo ad ogni buon conto funziona, grazie alle scene di Federica Parolini, agli affascinanti costumi di Silvia Aymonino (sempre una garanzia), alle luci curate da Alessandro Verazzi ma soprattutto per merito della musica di Giuseppe Verdi, che in sè contiene una dose tale di caratterizzazione psicologica di caratteri e azioni da rendere quasi superflluo l'apparato teatrale.

Rigoletto al Regio non poteva aver miglior servitore di Nicola Luisotti. Al direttore toscano si deve infatti un'esecuzione attenta e calibrata, rispettosa della partitura, scattante e al limite della ferocia quando il contesto lo richiede, eppure mai sopra le righe o finalizzata alla valorizzazione del dettaglio al di fuori del contesto drammatico. È un pregio non da poco, tenuto conto dell'esattezza dei mezzi impiegati dal compositore, senza la presenza di una nota di troppo e dove la minima imprecisione sarebbe impossibile da mascherare. Per non fare che un esempio tra i tanti, l'attacco della ballata del duca ('Questa o quella') richiede un'esattezza matematica nella scansione incalzante dell'accompagnamento degli archi in 6/8 per non rischiare di prendere in controtempo il cantante, senza tuttavia sacrificare la spontaneità del sentimento ben riassunto dall'indicazione 'con eleganza' apposta da Verdi. Luisotti riesce nell'intento di trarre il massimo risultato dall'orchestra del Regio, apparsa in smagliante forma, tanto nei passi in punta di piedi, con un organico assai ristretto a sostenere le voci, quanto nei momenti più enfatici, come nelle fulminanti scale cromatiche ascendenti che intervallano la maledizione di Monterone, o nel concertato finale del primo atto ('Zitti, zitti, moviamo a vendetta') in cui rifulge la perizia del coro maschile istruito da Ulisse Trabaccchin, o ancora in buona parte dell'atto secondo quando i propositi vendicativi di Rigoletto prendono forma e si ingigantiscono fino all'inferno bellicoso di terzine che sostiene la cabaletta finale. Se proprio si vuole trovare un neo nell'eccellente direzione di Luisotti, nel terzetto della notte di tempesta, tra fischi d'ottavino e squilli d'ottoni, gli strumenti tendono a prevaricare le voci, ma si tratta di un passaggio in cui anche grandissime bacchette sono state messe in passato a dura prova.

Un encomio particolare va tributato, tra i cantanti, alla Gilda di Giuliana Gianfaldoni, soprano di non particolare potenza ma dal canto duttile e sofisticato, capace di sfumature soavi e sottili nell'applauditissima 'Caro nome', dove sfodera un'ineccepibile tecnica nel rendere al meglio le impervie colorature, così come nell'estremo 'Lassù in cielo', ma anche di un involarsi corposo nelle regioni più acute di 'Tutte le feste al tempio'. Il suo personaggio si impone ad ampio spettro per agilità vocale, cura nel fraseggio e prestanza drammatica, suggellando una serata di alto livello. George Petean, da par suo, interpreta un Rigoletto in grado di appassionare ed emozionare il pubblico con una resa efficace e sanguigna del ruolo. Dapprima misurato alla comparsa in scena, al baritono romeno va ascritto un grande secondo atto, che lo vede indiscusso protagonista e motore dell'azione, delineando una figura rocciosa nella tenuta della linea di canto inframezzata da calde e vibranti aperture liriche che conferiscono credibilità all'angoscia di padre ferito nell'orgoglio. Il duca di Mantova di Piero Pretti si distingue per chiarezza di emissione e timbro cristallino, a suo agio nel dare corpo alla leggerezza di bon vivant che ne costituisce il tratto tipico, disimpegnandosi con classe e vigore nei tre celebri assoli che Verdi gli destina all'inizio di ogni atto, oltre che nell'arduo compito di conferire il giusto umore in apertura del sublime quartetto 'Bella figlia dell'amore', tra i vertici poetici dell'intera storia del melodramma e che tanto ammaliò Franz Liszt. E nel quartetto e successivo terzetto dell'ultimo atto ha il suo momento di gloria il mezzosoprano Martina Belli, autorevole Maddalena, che domina la parte con un canto appassionato e pungente, al modo del fratello Sparafucile, impersonato dal basso georgiano Goderdzi Janelidze, ben calato nell'impegno vocale ed ottimo sul piano attoriale, penalizzato solo da una pronuncia italiana non perfetta. Completano il cast e contribuiscono alla riuscita dell'opera Siphokazi Molteno (Giovanna, mezzosoprano), Emanuele Cordaro (Monterone, basso), il baritono Janusz Nosek e il tenore Daniel Umbelino (coppia di cortigiani, rispettivamente Marullo e Matteo Borsa), il basso Tyler Zimmerman e il soprano Albina Tonkikh (conte e contessa di Ceprano), e infine Chiara Maria Fiorani (paggio della duchessa, soprano) e Mattia Comandone (usciere di corte, basso).

Una platea gremita in ogni ordine di posti decreta il trionfo della recita, con lunghi applausi e ripetute chiamate per interpreti e direttore, di cui condividiamo, nel breve cambio tra secondo e terzo atto, proposti di seguito, il garbato ma deciso invito a spegnere i cellulari rivolto al ristretto manipolo di irriducibili distratti che, con la loro superficialità, in almeno due occasioni (una, imperdonabile, proprio sulla chiusa di 'Caro nome') hanno creato un forte elemento di disturbo dello spettacolo.

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