Il fuoco e la cenere
Giunge al termine il viaggio della Vestale di Spontini coprodotta fra Marche, Toscana ed Emilia Romagna. Un'iniziativa virtuosa in cui si sono apprezzati il cast riunito con intelligenza e criterio e l'equilibrio della concezione visiva, ma sono anche balzati evidenti all'attenzione i limiti della concertazione, delle maestranze e delle coreografie.
RAVENNA, 2 marzo 2025 - Si è concluso a Ravenna il lungo viaggio della Vestale di Spontini iniziato lo scorso autunno a Jesi e, fuori dalle terre natie, pressoché unico vero omaggio dei teatri italiani al compositore nel duecentocinquantesimo della nascita. In una riflessione finale, già questa è una questione non da poco: possibile che sia così trascurato uno degli autori più rappresentativi di una fase cruciale della storia dell'opera, di quella generazione che, fra Mozart e Rossini, non si può derubricare a transizione, semmai inserire in una feconda linea di continuità fra Sette e Ottocento, da tragédie lyrique a grand opéra, da classicismo a Belcanto? Una linea che, peraltro, insegna come le categorie contrapposte e gli schemi si possano (e debbano) superare in una visione dialettica più articolata.
L'iniziativa di un circuito di teatri di tradizione pone – soprattutto le Fondazioni – di fronte a un fatto: non esistono opere inaffrontabili se si hanno buone idee e si uniscono le forze; è anzi il timore reverenziale preventivo a renderle sempre più ostiche. Ciò vale anche per il pubblico: non si può vivere di soli Barbieri e Traviate, c'è una fetta non trascurabile del popolo melomane che per una Vestale si mette in viaggio, più difficilmente per un'ennesima Bohème, né bisogna pensare gli spettatori tradizionalisti e stanziali così passivi da non rispondere a proposte più originali se di qualità stimolante. E qui, però, qualche distinguo, purtroppo, va fatto, perché se è vero che per molti di noi il titolo valeva la trasferta a prescindere e che l'iniziativa è di per sé lodevolissima, la realizzazione ha rivelato un'indiscutibile disparità fra risultati, necessità e intenzioni.
Per quanto concerne il cast la scelta è senz'altro virtuosa. Niente superstar, ma artisti ben noti, ammirati, intelligenti. Artisti pronti a dedicarsi anima e corpo al progetto. Abbiamo, così, una compagnia di tutto rispetto, con Carmela Remigio protagonista affiancata da Bruno Taddia come Licinius e Joseph Dahdah quale Cinna. Inutile negare che i mezzi del soprano, di natura squisitamente lirica, non siano oggi nel massimo splendore e che lo smalto liliale del timbro possa essersi velato, ma la somma musicalità e la sensibilità teatrale rendono sempre plausibile e palpitante la sua Julia. La voce di Taddia è senz'altro particolare, difficilmente classificabile, ma proprio per questo si trova a proprio agio (ricordiamo anche l'ottimo Oreste in Iphigenie en Tauris) là dove la tragédie lyrique richiede un cantante attore di marca baritonale chiara e talvolta liminare al tenore: è il caso di Licinius, passato al registro superiore (basti pensare a Corelli), ma concepito da Spontini in una tessitura più bassa. Le traversie filologiche dell'opera fanno della parte un rebus che Taddia risolve egregiamente puntando più sul rovello interiore che sul baldanzoso eroismo. Molto bene anche il Cinna di Dahdah, tenore dal colore nobile e dal fraseggio ben definito. Si fanno apprezzare parimenti la Gran Vestale di Lucrezia Venturiello, autorevole ancorché un po' granulosa nel timbro, e il Gran Pontefice di Adriano Gramigni.
La compagnia di canto, però, non basta e qui sta il nodo principale: ci sono aspetti che non possono essere trascurati e, anzi, dovrebbero essere le basi stesse su cui costruire lo spettacolo, come il direttore e concertatore, il suo rapporto con il regista, la qualità di orchestra e coro, nonché, in questo caso, di coreografie e corpo di ballo. Altrimenti, con un'opera complessa e non di repertorio, per molti versi lontana dall'estetica consueta del melodramma romantico, il rischio concretissimo è che lo spettatore meno edotto se ne esca pensando che La vestale sia, in fondo, noiosa, pesantuccia, meritevole di tornarsene in un cassetto. Proprio il contrario di quanto, dall'altra parte, l'idea virtuosa di questa coproduzione starebbe a proclamare.
Non si tratta, si badi bene, di una questione economica: nessuno si aspetterebbe uno sfarzo e un dispiegamento di mezzi da sette dicembre scaligero, ma con spese più o meno simili davvero non era possibile trovare, fra i tanti bravi professionisti e giovani emergenti in circolazione, una bacchetta più autorevole di quella di Alessandro Benigni? L'organico schierato dall'orchestra LaCorelli fatica a reggere le imponenti esigenze della partitura e pesa l'assenza sul podio di un saldo punto di riferimento sia sul piano tecnico sia su quello interpretativo (dov'è la tensione tragica del recitativo? Dove l'ampiezza sublime del dramma classico?). Anche il coro del Municipale di Piacenza, ben altrimenti apprezzato in titoli di repertorio, qui a ranghi insufficienti si trova sovente ad arrancare nelle pagine riservategli da Spontini. Si ritorna, però, anche a monte, perché un direttore di valore artistico e salda tecnica può elevare anche complessi meno blasonati.
C'è, poi, il nodo dei ballabili, elemento fondamentale nella struttura dell'opera francese dalle origini a tutto l'Ottocento, ma nondimeno a rischio di abissale distanza rispetto alla nostra sensibilità drammaturgica. Le soluzioni possono guardare a due direzioni opposte: una è la ricostruzione magnificente del modello antico, un'altra è la sua reinvenzione, che se ben studiata si può realizzare anche in senso minimalista. Le coreografie di Luca Silvestrini hanno invece messo in implacabile evidenza la pochezza dei mezzi, lasciandoci sospesi fra il tedio e l'ilarità. Ecco allora che viene a galla il paradosso per cui allestire La Vestale (come qualsiasi altro titolo raro e impegnativo) è idea che da sola vale ogni elogio ma espone anche a una maggiore responsabilità, perché per un Rigoletto o una Tosca traballante ogni appassionato avrà a disposizione un'infinità di alternative per rifarsi, mentre in questo caso si rischia l'effetto opposto, affievolendo quella curiosità che avrebbe dovuto accendere, alimentando l'idea che l'opera funzioni solo nella mitologia della laudatio temporis actis.
D'altra parte, è proprio al mito per eccellenza della cosiddetta età dell'oro dell'opera che dichiara di rifarsi la mise en scène di Gianluca Falaschi. Questa visione scenica appare anche virtuosa nella sua essenziale eleganza che non ci fa sentire il peso di un budget contenuto e delle esigenze tecniche della coproduzione. La prevalenza di vari toni di grigio fra il bianco e il nero evoca il classicismo senza maniera, il gusto del costumista regala sempre un bel colpo d'occhio e tutto fila liscio. Tuttavia, è proprio il disegno drammaturgico a risultare un po' nebuloso: se non sentissimo qualche frase parlata della Divina diffusa prima della sinfonia e non leggessimo le note di regia, il legame fra questa produzione e la Callas si ridurrebbe ai riferimenti alla moda degli anni '50, né l'evocazione del mito della primadonna greca sembra così pregnante, significativo e necessario per la vita teatrale della Vestale. Rimane peraltro troppo in ombra proprio il nucleo programmatico del soggetto, che nella Francia rivoluzionaria e napoleonica raccoglie vigoroso il filone antimonastico illuminista che da Voltaire e Diderot (La religeuse) arriverà anche a Manzoni e alla sventurata di Monza. Oggi la monacazione forzata non è più di attualità, ma lo resta il contrasto fra passioni individuali e coercizioni sociali, altra ragione per cui La Vestale può ben essere un'opera che continui a parlare alla contemporaneità.
Uscendo dal teatro tutto sommato felici di aver visto il capolavoro di Spontini dal vivo senza affrontare viaggi internazionali, soddisfatti per un cast riunito con intelligenza e criterio e per l'equilibrio della concezione visiva, e pure non privi di perplessità e interrogativi per concertazione e maestranze claudicanti. Per i teatri di tradizione della nostra provincia la direzione è giusta e onorevole: uscire da proposte scontate, unire le forze, dare spazio a titoli meno battuti e ad artisti intelligenti. Tuttavia, per puntare alla meta bisogna anche fare attenzione nello scegliere la strada migliore, con i giusti compagni di viaggio, senza trascurare risorse fondamentali.
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