Fumo negli occhi
Giulio Cesare di Händel fa tappa anche al Teatro Municipale di Piacenza: convince la concertazione di Ottavio Dantone, meno lo spettacolo di Chiara Muti, più coreografico che drammatico. Nel cast spiccano la Cleopatra di Marie Lys e il Sesto di Federico Fiorio e l’Achilla di Davide Giangregorio.
Piacenza, 2 febbraio 2025 – Serse, Tamerlano, Farnace, Aci Galatea e Polifemo, negli ultimi anni la provincia italiana s’è fatta, sovente, encomiabile palcoscenico per quel repertorio pre-classico che invece latita sulle tavole delle più blasonate fondazioni liriche. Operazione non di poco conto, a ben vedere, soprattutto in virtù del dato demografico che ne caratterizza talvolta il pubblico, abitato da passionari autentici che nell’inneggiare all’eroe di quelle terre potrebbero svenire al sol sentire nominare Michieletto. È, in fondo, il bello di queste piazze, dove l’opera si vive ancora con una frenesia viscerale tanto intensa da rendere certe fortezze inespugnabili, ma non tale da precludere aperture verso il mondo, vastissimo, che le circonda. Solo così, d’altro canto, il “povero-Verdi” di oggi potrà trasformarsi nel “povero-Händel” di domani che, a proposito, fa ritorno tra i velluti del virtuoso Municipale con il celebre Giulio Cesare, opus maximum del Sassone per dimensioni, raffinatezza e richieste virtuosistiche imposte agli interpreti.
A tener le redini del discorso musicale e della sua affidabile Accademia Bizantina è chiamato il rassicurante Ottavio Dantone che, al di là di qualche bella sforbiciata atta a favor di messinscena e vocalisti, qualche riduzione e/o riorganizzazione in organico strumentale, legge l’incantevole partitura con mordente e buona teatralità. Non sarà una concertazione filologicamente irreprensibile, né di assoluto riferimento, ma la dovizia di colori con cui pennella le cangianti atmosfere, oltre ad essere funzionali allo scopo, valorizzano il testo tagliuzzato e l’azione.
Quest’ultima, poi, abbonda sul palcoscenico come non mai: Chiara Muti, traslando il lavoro di Händel in una dimensione metafisica che tutto permette e tutto legittima, arricchisce la rosa di protagonisti con mimi-attori che, nel dar forma allo spettacolo, ne circoscrivono e definiscono l’essenza. Immersi nella densa coltre di fumo artificiale evocata a più riprese dalla scenografia fissa di Alessandro Camera, avvolti dai bei costumi di Tommaso Lagattolla e illuminati con mestiere da Vincent Longuemare, questi figuranti danno vita, aria dopo aria, a coreografiche controscene. Tuttavia, con il loro fare rapsodico e talvolta stralunato, esse sembrano attingere più alla fantasia della regista che a una reale esigenza drammaturgica. E non potrebbe essere diversamente, del resto, dato che, in questo allestimento, un’idea cardine non c’è. Siamo però d’accordo con la collega Irina Sorokina, che ha già riferito delle recite modenesi: ciò che si vede, nel complesso, ha un gradevolissimo colpo d’occhio. Non è abbastanza, ma è già qualcosa.
Nel parterre vocale si impongono, in particolare, la Cleopatra di Marie Lys e il Sesto di Federico Fiorio. Marie Lys, nel dare vita alla sovrana d’Egitto, gioca con intelligenza tutte le sue carte: voce sopranile aggraziata e ben emessa, musicalità raffinata e sensibile, tecnica solida e sicura. Con misura e saggezza governa l’arte seduttiva, costruendo un personaggio sfaccettato, capace di chiudersi in attimi di intensa introspezione – «Piangerò la sorte mia» – o di librarsi in slanci di appassionata esuberanza amorosa, come dimostra la brillante esecuzione di «Da tempeste il legno infranto» nel terzo atto. Nei panni dell’erede di Pompeo, Federico Fiorio sfoggia una voce dal timbro squisitamente androgino, sicura in acuto e ben disciplinata. Sa imporsi nella scrittura di furore – «L'angue offeso mai non posa» – ma trova la sua più alta vocazione nel canto elegiaco e patetico. Eccolo dunque rapire completamente l’attenzione del pubblico nel finale del primo atto, dopo la delicatissima «Cara speme, questo core» – tagliata –, suggellando uno dei momenti più emozionanti della serata insieme a Cornelia. Quest’ultima è Delphine Galou, vocalista mai eccelsa ma interprete di estrema finezza, capace di scolpire un’eroina sofferta e affascinante attraverso il solo gioco di fraseggio ed espressione. Non convince Raffaele Pe nel mitico ruolo del titolo: al di là della coloratura perfettibile e dell’organizzazione vocale disomogenea, a mancare nel tratteggio del leggendario condottiero è l’accento eroico, lo slancio, il nerbo. Certo, momenti come «Aure deh per pietà» possono rivelarsi incantevoli per l’elegante intarsio dinamico che impreziosisce l’aria, ma nel complesso la prova appare troppo monocorde a fronte dell’articolata varietà prevista per l’eroe creato da Senesino. Del Tolomeo di Filippo Mineccia, invece, si ricorda più la zampata carismatica dell’attore che quella del contraltista. La magnetica caratterizzazione scenica, di fatti, non va di pari passo con quella vocale, si riscontrano più di una durezza. Davide Giangregorio, Achilla, canta con voce bella, piena, rotonda e un fare da istrione che, francamente, ammalia: sublime, per carica attoriale, la resa del recitativo in cui il generale dell’esercito di Tolomeo si lascia alle spalle questo mondo. Bravi, infine, Andrea Gavagnin (Nireno) e Clemente Antonio Daliotti (Curio).
Ottima risposta del pubblico che, dopo una partenza in salita, festeggia tutti gli artisti con festoso calore.
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