Riduzione in scala
Esito contrastato per il penultimo tiolo del cartellone lirico pisano, fra prove eccellenti e molte perplessità
PISA 16 febbraio 2025 – La Vestale di Gaspare Spontini era forse il titolo più atteso dell’odierna stagione del Teatro Verdi di Pisa, nonché una delle due uniche eccezioni (l’altra il Turco in Italia) alla banalità di Tosche e Traviate; peraltro, oltre ad essere una coproduzione che ha già riscosso un suo successo a Jesi e Piacenza, si tratta della prima esecuzione del titolo a Pisa, quindi è fisiologico che le aspettative siano alte.
È doveroso sottolineare che si tratta a priori di un’operazione di grande valore, che non solo porta in scena un assoluto capolavoro del primo Ottocento, ma lo fa nella sua versione integrale, con il restauro della parte di Licinius ormai filologicamente consolidato. Esisteva una querelle a questo proposito di cui sentiamo di dare brevemente notizia: non è del tutto esatto parlare di differenti versioni della Vestale, ma esistono due versioni della parte di Licinius, una – originale – per taille (baritenore) e una per haute-contre, ossia la voce tenorile più acuta. A dirimere ogni possibile controversia ha provveduto l’edizione critica di Federico Agostinelli e Gabriele Gravagna realizzata in occasione dell’allestimento scaligero del 1993 con la direzione di Riccardo Muti; naturalmente anche in questa occasione si è utilizzato il medesimo testo, divenuto ormai il riferimento per le moderne esecuzioni.
Riproporre La Vestale in questo modo significa riproporre al pubblico lo spaccato di una precisa civiltà teatrale, di un modo di fare e di intendere il teatro lirico. Questo titolo nello specifico rappresenta anche un esempio abbastanza particolare per la fortissima coesione drammaturgica tutt’altro che comune in un titolo del 1807, tanto da incidere persino sulla gestione dei momenti lirici che – come sottolinea Agostinelli nelle note di sala – non sono «mai troppo estesi per non arrestare l’incedere complessivo dell’azione drammatica». Certo, Spontini è anche costretto a compiacere alcune convenzioni dell’epoca, come i ballabili e il finale lieto (quest’ultima è questione particolarmente annosa ed estesa ai primi decenni del secolo, costringendo alcuni autori, tra cui Rossini e lo stesso Spontini, a riscrivere finali tragici per concedere la conclusione lieta), ma questo non toglie nulla all’esperienza significativa della Vestale nel panorama del teatro musicale occidentale.
La componente visiva non è solidissima, non tanto per l’idea in sé quanto per la realizzazione. Gianluca Falaschi, che firma regia, scene e costumi, si concentra sull’elemento – cruciale – del fuoco di Vesta e lo tramuta nel «fuoco dell’arte, della musica, della responsabilità dell’artista verso gli autori che interpreta e verso il pubblico» (nientemeno!), una volta cambiato l’oggetto si deve cambiare anche il suo contenitore, quindi si passa dal tempio di Vesta al tempio dell’arte: il teatro. La rappresentazione dell’interno di un teatro sul palco non è un guizzo di particolare freschezza o innovazione, ma finché lo fa Robert Carsen si giunge ad altri risultati; qui si propone una struttura con sipario che racchiude quasi tutta la scena, una soluzione di strehleriana memoria ma con molta meno grazia dell’esecuzione. L’apertura del candido sipario rivela un candido emiciclo con candidi drappeggi e su questi elementi all’evenienza si videoproiettano l’interno del teatro o brevi video che ritraggono la protagonista Carmela Remigio. A parte la povertà di immaginazione per ricorrere a questo, le proiezioni da una parte sortiscono un cattivo effetto e dall’altra distraggono il pubblico in momenti in cui non deve essere distratto: se un interprete qualsiasi sta cantando l’aria, è veramente cattivo gusto sovrapporgli un video, anche se della medesima persona.
È bella la ricerca dell’essenzialità, la presentazione di una scena che anche se vuota non è mai davvero vuota, grazie anche all’apporto delle luci di Emanuele Agliati, ma ogni tanto ci si perde in delle cadute di stile che inficiano non da poco quello che è in ogni caso un buon allestimento. L’elemento che forse risulta più fastidioso perché totalmente innecessario al pubblico, alla drammaturgia, al teatro e soprattutto alla Vestale e a Spontini è l’esca Maria Callas, una delle più spudorate captatio benevolentiae mai viste. «Il parallelismo tra Giulia […] e Maria Callas è inevitabile» scrive Falaschi. Maria Callas ha impersonato in modo iconico moltissimi ruoli, da Medea a Lady Macbeth, ma non per questo viene riesumata a ogni rappresentazione e il buon senso dovrebbe essere la prima guida di un’ideazione scenica; peraltro, i riferimenti callasiani sono solo due e totalmente irrilevanti nell’economia dell’allestimento, vale a dire quel breve estratto da intervista anteposto all’ouverture e uno degli abiti di Julia. Chi scrive si sta ancora domandando quale fosse il motivo imprescindibile per mettere di mezzo la Callas in questa faccenda, se non la volontà di attirarsi le simpatie di una frazione del pubblico.
D’altro canto si rileva una buona gestione delle masse, con una certa pulizia nei movimenti e soprattutto nei momenti in cui il dramma si fa più incalzante Falaschi sa mettersi da parte per servire al meglio la scena e nelle sequenze più concitate riesce a regalare momenti di travolgente intensità. Il problema è che con ogni evidenza non riesce a sostenere questo tipo di approccio per l’intera durata della rappresentazione e, come già anticipato, avviene più di un cedimento.
La cosa che, invece, non funziona mai sono i balletti: come direbbe Muti, «l’opera è lunga», ma lo scorrere del tempo non si avverte mai se non proprio quando entrano in scena gli otto – e solo otto – ballerini. Naturalmente non si mette in discussione la perizia dei danzatori, ma i due lunghi momenti al termine del primo e del terzo atto vengono messi in scena come se esulassero dall’opera, in una scena che stavolta è davvero desolata, senza nessun apparente collegamento con il prima e il dopo (cosa che smonta senza possibilità di recupero i due epiloghi trionfali, a cui contribuisce anche il numero davvero troppo esiguo di danzatori); non aiutano le coreografie di Luca Silvestrini, piuttosto opinabili nel gesto, mescolando senza soluzione di continuità o ratio figure di danza classica, moderna e contemporanea.
Come già scritto da altri, poco entusiasmante la direzione di Alessandro Benigni che fatica persino a tenere insieme l’orchestra: sarebbe stato il caso di individuare una bacchetta all’altezza dell’operazione. Non benissimo nemmeno l’Orchestra La Corelli che, se nel corso di questo titolo-monstre dimostra un buon piglio e si mantiene sull’equilibrio di un sanguigno ma non troppo, d’altra parte a volte scivola un po’ troppo facilmente sull’intonazione (soprattutto in casa ottoni). Data la grandeur connaturata nel genoma della tragédie-lyrique, un irrobustimento dei ranghi degli archi avrebbe giovato alla causa, così come a un Coro del Teatro Municipale di Piacenza stranamente stanco, tanto da manifestare pure dei pericolosi sbandamenti ritmici.
Il problema delle dimensioni in questa produzione non è secondario e la sua natura è rivelata dalla scelta del cast. In valore assoluto nessuno dei solisti scelti è adatto al proprio ruolo per il semplice fatto che in quest’opera la musica richiede strumenti vocali importanti e dall’emissione generosa, mentre nel caso in questione sono state impiegate solo voci piccole e tendenzialmente leggere. Il casting però è stato condotto con intelligenza così che il sestetto aristotelico risulta perfettamente coeso, nessuna voce sovrasta l’altra, anche dal punto di vista timbrico l’avere delle voci tutto sommato chiare crea un bell’amalgama nelle scene d’assieme. La conseguenza di questo è però la necessità di un’orchestra e di un coro di dimensioni ridotte rispetto alle esigenze della partitura; sta di fatto che questa riduzione in scala della sonorità complessiva funziona e garantisce il buon esito musicale della rappresentazione e, di fatto, il gruppo dei solisti rappresenta l’autentico motore trainante di questa Vestale che ha tanti difetti ma non può non entusiasmare.
Centrati e dall’emissione ben sfogata Le chef des aruspices e Un consul interpretati da Massimo Pagano; Adriano Gramigni incarna un Souverain Pontife ieratico, austero, con una bella rotondità vocale, insomma in grado di catturare l’attenzione a ogni ingresso. La Grand Vestale, a un tempo solenne e ricca di fascino, vanta il timbro umbratile di Daniela Pini a cui si può chiedere solo di lasciarsi andare un po’ di più per non restare troppo ancorata con la voce alla gamma espressiva circorscritta che la mimica senz’altro richiede. Molto bene anche Joseph Dahdah nei panni di Cinna, distinguendosi per l’intonazione netta e il fraseggio scrupoloso.
La vocalità di Bruno Taddia per timbro ed estensione è molto adatta a fare le veci del taille. Lo splendido controllo delle mezze voci e l’intenso patetismo (senza lacrima) fornisce il massimo risultato nei duetti con Julia, in particolare nel secondo atto il più che sentito “Julia! Enfin je te revois!”; meno brillanti i momenti in cui il suo Licinius dovrebbe risultare eroico e baldanzoso, ma le motivazioni di questo sono già state esposte sopra. Quello che però risulta come dato incontrovertibile è che prima di essere un eccellente cantante, Taddia è un eccellente attore, cosa che lo porta a cesellare con grande raffinatezza ogni frase, a dare il peso e l’articolazione giusta a ogni singola parola: questo atteggiamento non può che essere premiato dai risultati in un titolo di grandissimo spessore drammaturgico, uno spessore a cui Taddia non manca di rendere giustizia a ogni sillaba.
Maiuscola anche la prova di Carmela Remigio nell’impervio ruolo di Julia. Il timbro caratteristico trova una giusta corrispondenza tanto con il personaggio quanto con l’impostazione scenica così sospesa dalla realtà e verrebbe da dire che per questa produzione non poteva esserci scelta migliore. Nonostante la prova sia davvero impegnativa, il carisma di Remigio non subisce mai una singola scalfittura e il soprano riesce sempre a dare il massimo fra le sfaccettature di un personaggio che ha la sua complessità, ora amante appassionata, ora ispirata e urlante come una sibilla, ma Carmela Remigio sembra trovare il proprio baricentro nella profonda umanità del personaggio (e forse trova anche un repertorio che per lei interessante da approfondire, visto il risultato).
Cala dunque il sipario su una Vestale di cui si è molto discusso e di cui a quanto pare siamo destinati a discutere ancora per un po’, fatta di bagliori e crepe, ombre e fuochi, capace di accendere gli animi, in positivo come in negativo. Fra cantanti di oggi e del passato, fantasmi veri e proiezioni, bacchette e coreografie, il ricciolente Spontini è il vero vincitore: una volta di più ha dimostrato la sua magia nello stregare il pubblico che, per parte sua, ha partecipato in folto numero alle due rappresentazioni.