La scure sanguinosa
Afflitta da troppi tagli e in un non riuscito adattamento di uno spettacolo nato per una differente versione dell'opera, Lucia di Lammermoor non convince al Comunale Nouveau di Bologna nonostante le buone prove di Jessica Pratt e Iván Ayón Rivas.
BOLOGNA 20 febbraio 2025 - Un titolo infallibile con la protagonista di riferimento dei nostri giorni e un cast di tutto rispetto: una bella serata sembra garantita, ma, per quanto i cantanti non deludano, purtroppo le cose vanno diversamente. Le soddisfazioni non mancano: Jessica Pratt ha in Lucia di Lammermoor il suo rôle fétiche e non manca di riconfermarlo con una scioltezza di fraseggio, un dominio del fiato e delle dinamiche sempre ammirevoli (e chi se ne importa se non tutti i suoni sono egualmente belli!); Iván Ayón Rivas ci regala la soddisfazione dell'invettiva cantata integralmente – e bene – come Donizetti comanda, mostrando peraltro in tutta l'opera squillo eloquente, propensione al canto sfumato e un'attorialità sorprendente (pugnalatosi nel finale cade di schiena come un provetto stuntman continuando a cantare come se nulla fosse, morente, sì, e pur sempre belcantisticamente a fuoco). Di fronte a questi bei momenti, però, rode ancor più la sensazione di un'occasione sprecata per varie concause che si coagulano in una sostanziale svalutazione dell'opera e del suo linguaggio.
Non funziona, ab ovo, la coproduzione con il festival Donizetti di Bergamo [leggi la recensione] e per una ragione limpidissima: là l'allestimento con la regia di Jacopo Spirei nasceva per la versione francese e qui ora si dà quella italiana. Non si tratta di una semplice questione di traduzione, ma di due testi affatto differenti, non sovrapponibili. Di conseguenza si sarebbe dovuto ripensare radicalmente una regia che invece viene ripresa (a cura di Alessandro Pasini) in maniera piuttosto trasandata, regolando entrate e uscite di routine così da annacquare l'impianto originario senza rimodellarlo per il nuovo contesto. Ne è un esempio la figura di Alisa (Miriam Artiaco), assente nella versione francese eseguita a Bergamo e qui inserita quasi a forza come un corpo estraneo un po' sciocchino (davvero la confidente di Lucia può essere così garrula nella scena delle nozze?). Oppure il finale in cui rivediamo Enrico irrompere in scena pronto per duellare con Edgardo, ma creando ora un effetto di straniamento perché questa sfida a Bologna di fatto non esiste, dato che si è avuta la bella pensata di tagliare la scena della torre come si faceva una volta. Taglio incomprensibile e scellerato – al pari di tutti quelli che, numerosi, effettua stasera Daniel Oren – che depriva l'opera di una scena chiave sia per l'evoluzione della trama sia per il suo equilibrio musicale e per la sua poetica romantica. Quanto fosse imprescindibile il duetto fra tenore e baritono è chiaro anche se si considera come viene conservato fra i rimaneggiamenti della versione francese: il Théâtre de la Renaissance non aveva esattamente mezzi floridi e per evitare un oneroso cambio scena in più, invece di rinunciare alla scena, la si ricollocò dalla torre diroccata dei Ravenswood alla dimora degli Ashton. Non se ne poteva fare a meno, non se ne può fare a meno e tuttavia a Bologna è stata tagliata.
Parimenti è stata eliminata pure la grande aria di Raimondo “Cedi, cedi, o più sciagure”; è vero che in questo caso può essere una scelta derivata dalla struttura originaria dello spettacolo, giacché nella versione francese l'aria è cassata riducendo il padre spirituale di Lucie a comprimario (ma, sul piano drammatico, la cosa è compensata da una nuova logica: la protagonista è già promessa da tempo ad Arthur e dunque un'ulteriore persuasione ad accettare le nozze diventa superflua). Mantenere la liaison de scène della produzione bergamasca sul libretto parigino è giustificazione fragile: come per altri momenti, si sarebbe ben potuta riadattare una regia già ridotta a un rassicurante fai da te sulla scorta dell'abitudine, senza contare che con la parte così ridotta la presenza di un basso come Marko Mimica sembra un autentico spreco.
Premessa questa scarsa attenzione alla logica drammatica e al valore musicale della partitura (problema già riscontrato nell'ultima Norma bolognese), non stupisce notare come azione teatrale e lettura musicale vadano di pari passo in una generica passività. Oren accompagna con il mestiere che sappiamo, ma quasi per inerzia e ne risentono soprattutto i recitativi. Qualche bel colore orchestrale, come nella ripresa di “Verranno a te sull'aure”, non basta ad animare la concertazione, là dove altrove si nota qualche distrazione. La scelta per “Ardon gl'incensi” della glassharmonica (anzi, il moderno verrophone brevettato da Sascha Reckert e qui suonato da Philipp Marguerre) è assai virtuosa e si intona anche benissimo al gioco timbrico di Jessica Pratt, ma rende ancor più stridente l'opzione filologica rispetto a un taglio generale datato alla metà del secolo scorso, oltre che con una cadenza della pazzia (quella tradizionale attribuita a Mathilde Marchesi per l'allieva Nellie Melba) di quarant'anni posteriore alla morte di Donizetti. Sarebbe assai gradito, specie con un'interprete del valore del soprano australiano, ascoltare una cadenza alternativa che con aggiornata consapevolezza stilistica costituisca la firma dell'artista. Quando, però, si parla ancora di amputare l'opera di intere scene, ragionare di queste sfumature belcantistiche sembra, ahimé, utopia.
Certo, se Pratt e Rivas (o Mimica) mostrano una loro già definita autonomia che avrebbe potuto giovarsi degli stimoli unificatori di regia e direzione, nel caso del pur robusto Enrico di Lucas Meachem qualche rifinitura in più sarebbe stata fruttuosa e si sarebbero pure meglio valorizzati i validi Normanno di Marco Miglietta, Arturo di Vincenzo Peroni e il coro preparato da Gea Garatti Ansini.
Si registrano un paio di sonore, ma individuali, contestazioni in corso d'opera, al termine vari dissensi per Oren e pressoché unanimi per il team creativo (Pasini con lo scenografo Mauro Tinti, la costumista Agnese Rabatti e il light designer Giuseppe Iorio), ma soprattutto una freddezza diffusa rotta solo da qualche fiammata per soprano e tenore e quasi surreale per un'opera come Lucia di Lammermoor. Qualcosa decisamente non ha funzionato, ma, per favore, non ci si appigli ad accusare i jeans e il giubbotto di Edgardo o la carcassa d'automobile data alle fiamme: non guardiamo il dito del dettaglio visivo e puntiamo alla luna del concetto teatrale e musicale di uno spettacolo.
Leggi anche
Bergamo, Lucie de Lammermoor, 18/11/2023
Verona, Lucia di Lammermoor, 26/01/2020
Genova, Lucia di Lammermoor, 17/11/2024
Catania, Lucia di Lammermoor, 21/04/2024