L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Un Rigoletto per Abbado?

di Giuseppe Guggino

Nel decennale della scomparsa di Claudio Abbado il Teatro Massimo di Palermo gli dedica la prima di Rigoletto con la regia di John Turturro, ripresa della produzione del 2018. Purtroppo l’omaggio non risulta all’altezza con la direzione di Daniel Oren, eccettuate le prove di rilievo di Giuliana Gianfaldoni e Amartuvshin Enkhbat.

Palermo, 20 gennaio 2024 - Nel decennale della scomparsa di Claudio Abbado è il sovrintendente Betta dal proscenio a dedicargli la prima della ripresa di Rigoletto nella produzione firmata al Massimo palermitano da John Turturro nel 2018. Non che col tempo la cifra stilistica dark dell’allestimento sembra aver guadagnato anzi, nonostante la ripresa accurata di Cecilia Lagorio, continua a sembrar poco funzionale alla drammaturgia verdiana l’ambientazione apparentemente “d’epoca” – seppur non nella Mantova tardorinascimentale – in un settecento che strizza un po’ l’occhio al Casanova di Fellini, rimanendone però assai distante, con i costumi sufficientemente accurati di Marco Piemontese e le scene basiche di Francesco Frigeri, eppure macchinose nei cambi, per sorvolare sulla sbilenca bettola oscillante del terzo atto che costringe il Duca ad uscire di scena, anziché salire al primo piano. Permane la stranezza di Gilda che si materializza fuori dal sacco nel finale, chissà per quale motivo, né il disegno luci di Alessandro Carletti, light designer in altre occasioni di grande abilità, riesce qui particolarmente indovinato.

Che anche la parte musicale non sarebbe stata memorabile lo si capisce sin dallo sfaldamento degli ottoni nel preludio, su cui nulla sembra potere la mano di Daniel Oren che, al levar del sipario, deve ricondurre alla disciplina agogica un esuberante Ivan Ayòn Rivas, forte del timbro pregevole, che però perde fin troppo di smalto con l’avanzare degli atti.

Se anche il comparto dei comprimari è alquanto deficitario, con punto di minimo nello scarsamente autorevole Monterone di Nicolò Ceriani, occorre attendere “Caro nome” per imprimere alla serata il colpo d’ala, non certo per i dimenticabili interventi del primo violino, ma per la sicura malia dei filati di Giuliana Gianfaldoni che, da lì partendo, disegna con sicurezza una Gilda fragile ed eterea, perfettamente coerente fino alla tragica conclusione.

Nei panni di Rigoletto Amartuvshin Enkhbat eccelle per intensioni interpretative in tutti i momenti solistici, nei quali esibisce anche un’ottima dizione, che però altrove diviene molto più oscura, evidenziando un rapporto con la parola verdiana non ancora pienamente ed omogeneamente compiuto, pur sempre forte di uno strumento di ragguardevoli capacità.

Complessivamente convincente è la Maddalena di Valeria Girardello, al contrario dello Sparafucile di Aleksei Kulagin, inficiato da tutti i difetti tipici delle voci slave.

Nonostante il navigato direttore israeliano abbia mostrato una minore capacità di controllo sull’indisciplinata compagine orchestrale del Massimo di Palermo e del Coro maschile – quest’ultimo caratterizzato da una miglior tenuta – fra scelte agogiche non sempre coerenti e una concertazione di fondo improntata alla massima pesantezza non attenuata dai tagli apportati qua e là, come e suo uso, non manca all’appello la ripetizione della stretta del finale secondo, triviale come di prammatica e ancor più triviale nella ripetizione. Non proprio un omaggio riuscito per una serata dedicata ad una delle bacchette più sensibili e meritorie nei riguardi della ripulitura dei testi operistici dalle cattive tradizioni.


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