Lo strano caso di Manon Lescaut
di Stefano Ceccarelli
Alla fine, dopo attese e ennesimi annunci di scioperi, la neoproduzione romana della pucciniana Manon Lescaut calca il palcoscenico del Costanzi: è, anzi, la primadonna Anna Netrebko, al suo debutto a Roma, a vestire i panni dell’ambiguo personaggio, sotto la magistrale bacchetta del Maestro Riccardo Muti. Il titolo, dunque, in assoluto più atteso della stagione. Eppure, un autentico strano caso si è verificato: silenzi, applausi spesso di pancia e pesanti fischi di testa, oltre a intemperanze varie, hanno caratterizzato questa produzione.
ROMA 27 febbraio 2014 – Un’attesa al cardiopalma, quella per la première di Manon Lescaut all’Opera di Roma. Le principali testate minacciavano un megasciopero che avrebbe messo a rischio l’intera produzione; solo il giorno stesso, mediante comunicato sul sito web, l’Opera ha fatto sapere che tutto era revocato…almeno per la prima! I problemi economici del maggior teatro romano sembrano aumentare con esponente cubico, ogni produzione che passa. Ma Muti (ritardando insolitamente l’ingresso in sala), alla presenza del sindaco Marino e del Presidente della Repubblica, non proferisce parola: come scoglio – verrebbe da dire! −, dopo un lesto inchino, attacca con l’Inno di Mameli. Un silenzio che pesa assai più dei discorsi cui si è lasciato spesso andare: con una palpabile tensione, incomincia l’opera.
L’opera di Puccini torna a Roma dopo sette anni, in un allestimento interamente nuovo. I riflettori mediatici, ora puntati sulle non oculate spese del teatro, hanno fatto sì che sul sito dell’Opera comparisse un trafiletto in cui si dava conto di alcune cifre, e si ringraziavano diversi sponsor (primo fra tutti, l’atelier Fendi, che ha realizzato la magnifica cappa in pelliccia indossata da Manon nel II atto): il costo complessivo della produzione ammonterebbe a 280mila euro, e verrebbe in parte smaltito con la cessione dei diritti di replica a diversi teatri. Eppure ci si stupisce di una basilare quanto elementare contraddizione: com’è possibile che i biglietti di questa produzione, mercé soprattutto la presenza della operastar Netrebko, siano andati letteralmente a ruba mesi prima, lasciando moltissimi a bocca asciutta, mentre lo spettacolo risulta gravato da tanti e tali problemi economici? Dov’è la sostenibilità economica di uno spettacolo operistico? Come che sia, dopo le minacce di sciopero totale, poi mano a mano scemate parzialmente, il Teatro dell’Opera di Roma dovrebbe condurre a termine l’intera produzione.
Il Puccini di Muti non costituisce propriamente il suo cavallo di battaglia: ha diretto, infatti, finora nella sua carriera esclusivamente Tosca e proprio Manon Lescaut, nel 1998, al Teatro alla Scala di Milano. Questa produzione romana costituirebbe la sua seconda esperienza con l’insidiosissima partitura pucciniana. Taluni momenti li ha resi indimenticabili: la breve, frizzante introduzione orchestrale del I atto; quella leziosamente attufata del II, con i giochi dei legni; ma, soprattutto, quel bocciolo sinfonico, elegiacamente struggente, ch’è l’intermezzo – assurto presto a fama immortale −, dove cura la prima sezione cameristica (violoncelli), per poi espanderlo in maniera liricamente sostenuta, ma sentimentalmente sanguigna, vera, fino a far esplodere l’orchestra in maniera insolitamente furente con i timpani, evocando un’intensa passione erotica. L’orchestra, in generale, segue scrupolosamente il suo Maestro; ma appare più tesa, meno sciolta insomma, che in altre occasioni: non mancano, peraltro, alcuni mutiani moniti facciali, poco lusinghieri.
Il cast dei cantanti non è perfettamente omogeneo. Eccelle sopra tutti l’astro della produzione, la bella e talentuosa Anna Netrebko (Manon), probabilmente il soprano più corteggiato del panorama operistico odierno. Al suo debutto assoluto a Roma, fa sentire tutto il suo talento cristallino: la voce è importante, voluminosamente espansa, ricca di armonici, melliflua, omogenea nei diversi registri; anche il fraseggio è migliorato negli anni, risultando più netto. Nel suo duetto del I atto appare remissiva, angelica; e come poi esordisce frivola, capricciosa nel II; attaca con tale remissiva voluttà il mi bemolle dell’aria «In quelle trine morbide», arrivando a un corposo si 4 bemolle (tutti gli acuti sono ben centrati): alla fine dell’aria più celebre dell’opera scatta un sincero applauso del pubblico. Ancora incanta nell’arioso «L’ora, o Tirsi, è vaga e bella»; produce anche un’intensa performance nel suo duetto del II con Des Grieux («Tu, tu, amore? Tu? Sei tu»). Terribilmente commovente, la sua voce trema sulle note del duetto della prigione del III atto, assieme a Des Grieux; termina con l’atto americano, centrando un’ispirata «Sola…perduta, abbandonata» (brano, di gusto ponchielliano, che Puccini modificò sino, addirittura, al 1922).
Non lo stesso si può dire dell’azero Yusif Eyvazov (Des Grieux). Timbricamente è assai lontano dalla tradizione interpretativa del personaggio; l’emissione è eccessivamente aperta, sgolata, gli acuti appaiono a tratti sfibrati; ma probabilmente, la sua performance generale è inficiata soprattutto da una dizione e fraseggio inadeguati. Avendo in mente le gloriose interpretazioni del passato (da Pertile, giù fino a Di Stefano, Bergonzi, Pavarotti), il paragone è impietoso. Poco o nulla riesce nella deliziosa «Tra voi, belle, brune e bionde», tutta da giocarsi sul cesello del fraseggio, o in «Donna non vidi mai simile a questa!». Lo stesso nei duetti con Netrebko.
Unico punto dell’opera in cui s’alza la sua resa è l’inizio del III, in cui la sua voce naturalmente querula e il timbro brunito si confanno all’atmosfera tragicamente scura. Di livello il Lescaut di Giorgio Caoduro, ben cantato oltre che ben recitato: il suo timbro scuro, autenticamente baritonale, ben si sposa sia col «canto da conversazione» (sic Lorenzo Arruga, dal programma di sala), che con i volatili inserti ariosi di cui la sua parte è costellata; lo stesso si dica della nobile voce di Carlo Lepore (Geronte di Ravoir), che concretizza quello che Gianandrea Gavezzeni teorizzava per questo personaggio: «l’invenzione esattissima del declamato melodizzante» che invera «l’acida cattiveria e la funeraria libidine». Altalenante la qualità dei comprimari: di buon livello Alessandro Liberatore (Edmondo), Roxana Costantinescu (Un musico), Stefano Meo (L’oste), Andrea Giovannini (Il maestro di ballo) e Giorgio Trucco (Il lampionario). Il coro (Roberto Gabbiani) è di buon livello, anche se talvolta palesa qualche imprecisione: ma in una partitura come Manon Lescaut può succedere.
Il tallone d’Achille della produzione è, per buona parte, l’aspetto scenico-registico. La regia è curata da Chiara Muti: l’idea centrale è che la storia sia un flashback ingenerato dall’immaginazione dei due morenti innamorati. Il deserto, quindi, la fa da padrone: è letteralmente dovunque. L’idea astratta è seducente: la sua realizzabilità teatrale assai meno. Per questo i due primi quadri (le scene sono di Carlo Centovigna) sono molto deboli: un deserto che fa da sfondo a Amiens (con qualche palazzo che evoca Parigi in lontananza, per giunta) è visivamente dissonante – non entusiasma neanche l’osteria sulla sinistra, che sa di finto−, come un deserto che si vede oltre un’esedra di vetrate (realizzate con un materiale in plastica, riflettente e disturbante) che rende il salone e un boudoir femminile – mentre piacciono gli arredi vari, con gusto per il bozzettistico. Migliori, di misura, i due altri quadri: il desolato porto di L’Havre, vicino a un molo, con una prigione sulla sinistra. La scena della teoria con pubblico ludibrio delle condannate alla deportazione è ben pensata, con giochi di simmetrie e una buona conduzione della massa corale (che effetto l’arrivo della gigantesca prua sulla destra!). Il quadro certamente più riuscito è il deserto vero e proprio, che li inghiotte nella fuga dal penitenziario di New Orléans: ampi tendaggi avana a coprire le quinte, dune e orizzonte sconfinato, il tutto visivamente corroborato dall’imbrunire reso con il sipario di velatino nero. Qualche espediente registico, in generale, non dispiace: il gioco delle carte del I atto; la lezione di minuetto del II e l’agitazione dell’arresto; l’abbraccio di Manon e Des Grieux tra le sbarre nel III. I costumi sono classici e di pregevole fattura: in particolare quello per l’agiata Manon nel II atto, con ricchi gioielli; ma anche quello di Geronte. Alcune scelte cromatiche delle luci disturbano non poco (Vincent Longuemare): alcuni coni sparati sui personaggi e la scelta continua di tonalità smorzate, tranne rari casi in cui si valorizzano talune pennellate pastello (I e II atto).
Alla fine della recita, s’assiste però a qualche scena impietosa: applausi assai tiepidi, con la sola eccezione di Netrebko (ma si ode qualche buh pure diretto a lei… perfino per Muti, per cui il pubblico aveva espresso gradimenti nel corso dello spettacolo). Il tenore viene – e a ragione − subissato di fischi; stessa sorte tocca alla Muti, la cui regia non è evidentemente piaciuta – ma la reazione mi parve esagerata. Forse il pubblico era comprensibilmente incattivito per il caotico can can mediatico e per le minacce di sciopero fugate solo all’ultimo minuto (?).