L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

All’antica, con passione

di Antonino Trotta

A Piacenza, il celebre dittico verista Cavalleria rusticana e Pagliacci torna in scena in un allestimento tradizionale firmato da Plamen Kartaloff. La concertazione di Aldo Sisillo e un cast di valore – in cui spiccano Angelo Villari ed Ernesto Petti – garantiscono una serata di indubbio successo, confermando la tenuta teatrale e musicale di due capolavori che, pur nella consueta ritualità, continuano a coinvolgere.

Piacenza, 30 marzo 2025 – Quando figurano in una stagione fanno sbuffare i palati più esigenti, ma se non compaiono se ne avverte la mancanza. Cavalleria e Pagliacci sono macchine teatrali perfette, oliate a sangue, cuore e applausi: schiette e immediate nel soggetto, ruffiane nell’impaginato musicale, le opere di Mascagni e Leoncavallo, vuoi anche per i riferimenti storici e geografici che non sono mai condizione al contorno ma cuore pulsante della storia stessa, sembrano sempre cristallizzate in una prassi esecutiva che si rinnova, seppur identicamente, ad ogni esecuzione. Qui dove si muore per amore, per gelosia o per onore, sotto il sole cocente di una Sicilia immobile o nel retro di un carrozzone itinerante che sa più di miseria che di poesia, difficilmente si scoprirà qualcosa di nuovo, eppure, ogni volta, qualcosa si riaccende. Forse è la forza di un meccanismo scenico che funziona anche solo per inerzia emotiva, o forse è quel residuo di verità umana che, tra una romanza e una coltellata, continua a vibrare sotto la patina del già visto o del già sentito. Al Teatro Municipale di Piacenza, dove l’inossidabile dittico ha appena fatto tappa inserendosi in una stagione che ha pur visto susseguirsi Mosè in Egitto di Rossini, La vestale di Spontini e il Giulio Cesare di Handel, l’accoglienza, a conferma di quanto scritto, è trionfale.

L’allestimento, nuovo e coprodotto con Modena e Rimini, firmato da Plamen Kartaloff, con costumi di Nella Emil Dimitrova-Stoyanova, scene di Giacomo Andrico e luci di Stefano Mazzanti è tradizionale, anzi tradizionalissimo. Lo è nel segno visivo e nel bel colpo d’occhio che quell’angolo di piazza assolato, puranco allestito a mo’ di presepe con quelle casette e quel chiesone in tufo vivo distribuiti ai lati della scena con una logica che sottostà più alle regole della fantasia che ai dettami della prospettiva, regala ad ogni squarcio di racconto; lo è nella gestione delle masse e degli attori, che si muovono secondo coordinate ben codificate nel protocollo classico, nella gestualità ampia e passionale richiesta ai protagonisti, negli intermezzi scenici inseriti a corredo della narrazione. Tra le due messinscene, che condividono lo stesso sfondo – un’arena comune in cui «l’individuo forte e libero non ha diritto alla vita» – Pagliacci funziona forse leggermente meglio di Cavalleria. La seconda appare un po' più impacciata, soprattutto quando l’azione coinvolge tutte le risorse sceniche: l’andirivieni con i tavolini in piazza e la processione con le due statue di Cristo e della Madonna risultano leggermente innaturali. La prima, invece, si avvantaggia dell’essere una recita nella recita per metà del tempo, con il gioco metateatrale che offre sempre più spazio di manovra, e risulta nel complesso più fluida e convincente, forte anche di quel teatralissimo epilogo che ogni volta fa correre i brividi lungo la schiena.

Ben calibrata sul piano dinamico e timbrico, la direzione di Aldo Sisillo, qui chiamato a guidare gli ottimi complessi dell’Orchestra dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini, sa sostenere con acceso mordente l’involo drammatico di entrambe le vicende, dando voce – dalla buca – al ventaglio di carnali passioni che si agitano sulla scena. Se in Cavalleria, dove il ritmo tende ad allargarsi in vaporose sospensioni, la concertazione si fa, per certi aspetti, più morbida e riflessiva, in Pagliacci la tensione si accende in passaggi di vivido istrionismo, esaltati per contrasto da episodi di più rarefatta grazia, come il duetto tra Silvio e Nedda, concertato con sensibilità. Certo, non mancano qua e là sentori di consumato manierismo, specie in quegli slanci melodici che indulgono in un pathos un po’ calligrafico; ma nel complesso, la lettura delle due partiture risulta efficace e coerente, capace di restituire con chiarezza l’arco narrativo e la tensione emotiva di entrambe le opere. Sisillo dimostra insomma di conoscere bene il linguaggio del verismo, piegandone le volute passionali e le asperità ritmiche a un disegno interpretativo solido, misurato e partecipe, in cui anche i momenti di più acceso slancio non perdono mai controllo né precisione.

Il cast è pregevole. Fa il pienone d’applausi Angelo Villari, perfettamente a proprio agio nella scrittura carnale e febbrile dei due protagonisti maschili. Il suo Canio e il suo Turiddu sono cantanti all’antica, con squillo e baldanza nella voce, con una certa ritrosia alla sfumatura, con spasimi e sospiri nell’accento, con quella vibrante esposizione emotiva che non teme il rischio dell’enfasi, ma anzi lo cavalca con impeto e generosità. La voce, ben timbrata e di solida proiezione, regge senza cedimenti la fatica di due impervi ruoli, alternando slancio e drammaticità con coerenza espressiva. Non è da meno Ernesto Petti, ottimo Alfio ed eccezionale Tonio: il prologo gli vale un irrefrenabile applauso a scena aperta. D’altro canto, lo strumento è quello che è, cioè tra i più belli in circolazione e viene sfoggiato, talvolta ostentato – perché no, quando si può? – con generosità. Il timbro è brunito, rotondo, di quelli che riempiono lo spazio senza fatica, e la proiezione naturale consente a Petti di scolpire la parola con autorità e sfumatura. Se in Cavalleria convince per la risolutezza e la pasta virile, in Pagliacci impressiona per il carisma e per l’intelligenza teatrale con cui plasma ogni inflessione del testo, trasformando il personaggio in un vero motore drammatico dell’intera vicenda. Si fa poi notare, ancora per la qualità della pasta vocale, per la pulizia nella linea, per l’eleganza nel porgere, anche l’eccellente Silvio di Hae Kang. Volitiva, dolente, Santuzza trova nel singolare mezzo di Teresa Romano un’interprete capace di dar corpo a tutte le sfumature del personaggio. Il timbro scuro e materico, dal peso specifico importante, si sposa bene con la scrittura tesa e tormentata del ruolo, mentre l’accento, sempre sorvegliato, riesce a coniugare pathos e dignità. Daniela Schillaci, Nedda, offre un ritratto ben cesellato della giovane inquieta e desiderosa di libertà. La voce, luminosa e ben emessa, si muove con agilità nella scrittura vocale di Leoncavallo, restituendo con dolcezza le sfumature liriche e con vigore i momenti di più acceso slancio drammatico. Convincono la seducente Lola di Francesca Cucuzza e il garbato Beppe di Giuseppe Infantino. Corretta la mamma Lucia di Eleonora Filipponi e ottima la prova del Coro Lirico di Modena e del Coro di Voci Bianche del Teatro Comunale di Modena, istruiti rispettivamente da Corrado Casati e Paolo Gattolin.

A fine recita il pubblico festeggia calorosamente tutti gli interpreti, con punte di entusiasmo per Petti e Villari.

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