Zenit e Nadir
di Roberta Pedrotti
La prima di Pagliacci al Regio di Parma ha nell'intelligenza artistica di un fenomenale Gregory Kunde il suo punto di forza (inevitabile il bis di "Vesti la giubba"), mentre una pesante zavorra è la concertazione di Andrea Battistoni.
PARMA, 5 maggio 2023 - “Vesti la giubba” e il teatro esplode. Un'ovazione interminabile, acclamazioni, richieste di bis e lui, Gregory Kunde, che si porta le mani al viso, sorride commosso, annuisce: ancora “Vesti la giubba”, ancora delirio. Così la serata si incendia e spicca il volo almeno per qualche minuto: non con una prodezza da divo, un'esibizione di tenorismo per loggioni avidi di acuti e decibel, ma con una prova d'artista e di musicista, di quelle che entrano non solo nella pancia, ma anche nel cuore e nel cervello dalla platea su su fino al cerchio più alto della sala. Kunde aveva cominciato la recita addirittura con qualche sospetto di stanchezza, ma la cosa non preoccupava: il tenore ha compiuto sessantanove anni a fine febbraio; il personaggio pure non è un ragazzino, ma un uomo maturo, brusco e inasprito dalla vita, al quale non disdice qualche suono un po' più opaco o ruvido. Il fraseggio misurato di chi invita il pubblico con il sorriso sornione del signorile imbonitore ma s'incupisce minaccioso per la gelosia c'era tutto. Poi, man mano che Canio/Pagliaccio prende forma e si svela, anche la voce appare sempre più a fuoco e l'aria celeberrima sa davvero di scoramento, delusione, vuoto e incredulità. La rabbia repressa non trova la forza di prender forma, come persa nel vuoto di chi non ha più punti di riferimento. Sembra il professore dell'Angelo azzurro davanti allo specchio, Gregory Kunde, che replica e perfino accresce nel bis lo scavo doloroso senz'ombra di consolazione e autoassoluzione del suo monologo. Nondimeno, “No, Pagliaccio non son” e tutto il finale conferma e rinnova l'immagine di una devastazione interiore che, sì, sfocia nell'omicidio violento, ma non si fa mai brada brutalità. Facile, inevitabile dire che Kunde, per tutta la sua storia, sia un fenomeno vocale: ben più importante, però, sottolineare che artista e musicista sia.
La performance del tenore statunitense diventa il cardine e la ragion d'essere di una recita che al pubblico parmigiano sembra piacere moltissimo in tutte le sue componenti, mentre a chi scrive è parso un contorno di qualità piuttosto alterna appesantito da una concertazione e una regia non sempre all'altezza.
Nel cast, la presenza di Vladimir Stoyanov sembrerebbe giustificarsi nel richiamo a Victor Maurel, fine baritono verdiano, primo Jago, Falstaff e Simon Boccanegra (1881). Solo che un'associazione possibile sulla carta nella verità dei fatti non regge, perché Tonio (e il Prologo) necessita di una certa qual grezza energia popolana, quasi ferina, di un tipo di schiettezza che non è proprio nelle corde di Stoyanov, più avvezzo all'eloquio del grand seigneur. Forse con un direttore diverso da Battistoni avrebbe potuto meglio delineare un suo personaggio, ma in questa sede si è percepita una sostanziale estraneità di indole, mezzi, colore e financo un più accentuato sfasamento rispetto all'orchestra. Meglio il Silvio franco e irruente di Alessandro Luongo, che sa comunque cantar piano nel duetto con Nedda; meglio il virile Peppe di Matteo Mezzaro. Valeria Sepe si fa strada in crescendo: nella ballatella dispiace qualche disomogeneità che mette in evidenza un registro centro grave non sempre ben timbrato, mentre la voce salendo si rinfranca con maggior corpo e smalto e così la prova del soprano nei duetti e soprattutto nella Commedia.
Purtroppo, nessuno di loro trova un sostegno o una collaborazione nella bacchetta di Andrea Battistoni, che inizia subito con un incedere pesante come il piombo, ma privo di forza, come una massa sonora che a fatica avanza segnando gli accenti sotto i colpi della forza di gravità. Questo moto farraginoso non trova facilmente sintonia fra l'Orchestra dell'Emilia Romagna Arturo Toscanini e il palco, viceversa si percepisce una pressoché costante mancanza di dialogo, uno sfasamento lieve ma sovente percettibile. Le frasi stesse sembrano concepite non come parti di un unico discorso drammatico, ma come elementi a sé stanti, concatenati per rigore meccanico più che per consequenzialità logica, con frequenti indugi e qualche brusca accelerata che nulla pare però esprimere dei moti dell'anima. Per fortuna l'orchestra non ha cedimenti, nonostante l'uniformità di colore, e i cori di adulti (maestro Martino Faggiani) e voci bianche (maestro Massimo Fiocchi Malaspina) danno ottima prova di sé.
Quanto allo spettacolo della Fondazione Zeffirelli, è indubbio che la scena su più livelli pensata dal maestro fiorentino sia un piccolo gioiello per condensare un'atmosfera di periferia un po' da basso napoletano, un po' da fatiscente condominio a ringhiera; parimenti i costumi di Raimonda Gaetani sono un trionfo di fantasia, lustrini circensi e abiti contemporanei, minigonne, cortei nuziali sopra le righe, femminielli, meccanici, casalinghe, wedding planner, adolescenti, marinaretti, poliziotti, clown, acrobati e chi più ne ha più ne metta. Il guaio è che poi sul palco del Regio tutto questo si fa, nelle mani registiche di Stefano Trespidi, soprattutto accumulo compulsivo di varia umanità e numeri da circo (avete presente i pagliacci che sbeffeggiano Dumbo nel film Disney del '41?), un viavai continuo in cui qualcuno deve sgomitare per muoversi e si rischia di perdere anche qualche guizzo di vera recitazione che pure sarebbe presente fra tanto rassicurante e luccicante déjà vu. Presto, sotto i colpi di maglio dal podio, l'atmosfera arriva a farsi soffocante. Per fortuna c'è Kunde.
Alla fine, infatti, è festa grande, il tenore è portato in trionfo, ma gli applausi e il tripudio arrivano per tutti, con gioia e tanta generosità. Bene per chi si è divertito più di me: il brividino di pelle d'oca per il bis l'avremo avuto tutti o quasi.