L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il trionfo dell’Eupatore (mancato)

di Francesco Lora

Per commemorare Alessandro Scarlatti, il Teatro La Fenice ha scelto non Il Mitridate Eupatore, capolavoro veneziano, ma Il trionfo dell’onore, lavoro minore napoletano. Lo spettacolo è nondimeno di qualità, nella concertazione di Enrico Onofri, nella regìa di Stefano Vizioli e in una compagnia di canto ove spiccano Giulia Bolcato, Rosa Bove, Giuseppina Bridelli, Tommaso Barea e – soprattutto – Luca Cervoni.

VENEZIA, 15 marzo 2025 – Le occasioni perse ossia Gli sforzi regalati potrebbe essere il titolo delle strambe giravolte di programmazione teatrale cui si assiste qui e là, a fronte di un’altra soluzione che sembrerebbe invece più manifesta, più semplice, più idiomatica, più urgente e più fruttuosa. Un esempio è dato da quanto segue. Quest’anno si commemorano i tre secoli dalla morte di Alessandro Scarlatti, e in Italia se n’è meritoriamente ricordato per primo il Teatro La Fenice, rinnovando la sua stabile attenzione verso il repertorio sei-settecentesco. Per Venezia e per il suo teatro allora più lussuoso, quello in S. Giovanni Grisostomo, Scarlatti compose, nel carnevale del 1707, due opere di scarso successo – il linguaggio musicale partenopeo-romano aveva limitata presa in laguna – e tuttavia di evidente valore: Il trionfo della libertà, oggi non rappresentabile poiché le musiche sono in gran parte perdute, e Il Mitridate Eupatore, al contrario tramandato e degno persino delle attenzioni di Maria Callas (che avrebbe dovuto interpretarlo alla Scala di Milano nel 1953: si “ripiegò” su Medea di Cherubini) e di Joan Sutherland (che invece lo eseguì per davvero a Londra per la BBC nel 1957: ne sopravvive la registrazione). Bene: La Fenice dispone oggi anche della mitica sala in S. Giovanni Grisostomo, che altra non è se non il Teatro Malibràn, consegnato alla posterità attraverso una serie di ristrutturazioni. Il Mitridate Eupatore dov’era e com’era, quindi? Niente affatto: l’opera si darà in ottobre al Massimo di Palermo, forse stravolta da una preoccupante “drammaturgia” a quattro mani anticipata nella locandina, mentre al Malibràn, dal 7 al 15 marzo, è andato in scena, di Scarlatti, Il trionfo dell’onore, composto per Napoli, Teatro dei Fiorentini, nel 1718, e di inusuale soggetto comico. Si tratta di un lavoro istituzionalmente minore, a dispetto della pur sempre formidabile maestria del compositore, a dispetto dei musicologi che hanno voluto ravvisare in esso un capolavoro, a dispetto della sopravvalutazione fatta della commedeja pe’ mmuseca napoletana e a dispetto delle già avvenute riprese sulla scia di quella, pionieristica, diretta da Carlo Maria Giulini a Milano per la Rai nel 1950. Insomma: a Venezia s’è persa l’occasione di riappropriarsi di una meraviglia e gli sforzi di un grande teatro sono invece stati regalati a un titolo comune.

Peccato, poiché la presenza di un concertatore avveduto, vivace e rigoroso, qual è Enrico Onofri, alla testa di un’Orchestra del Teatro La Fenice a perfetto agio nei panni dello storicamente informato, avrebbe meritato la partitura-meraviglia. Peccato, poiché il regista Stefano Vizioli muove la commedia con brillantezza fumettistica – complici le scene e i costumi di Ugo Nespolo e Carlos Tieppo – ma avrebbe saputo cavare un risultato pari o superiore nello spessore della tragedia. Responsabilità di entrambi è eseguire l’opera con tagli e taglietti – arie col da capo oscenamente ridotte alla sola prima sezione, recitativi sforbiciati mandando in malora le leggi della metrica – i quali risultano tanto più assurdi per il fatto di essere pochi e dunque di non ridurre granché la lunghezza dello spettacolo. L’inutile rimpianto è sedato da una compagnia di canto ben assortita per i sette ottavi. Giulia Bolcato, con la sua maliosa levità perlacea di timbro e fraseggio, tiene curiosamente la parte maschile e mascalzona di Riccardo Albenori, mentre l’altra parte sopranile, di Doralice Rossetti, è retta con realistica spigliatezza da Francesca Lombardi Mazzulli. In maniera chiasmica, contraltili sono le corrispondenti parti di Leonora Dorini e del fratello Erminio: ottima Rosa Bove, con quella sua affettuosa rotondità di porgere, ma lontano dall’ottimo Raffaele Pe, con dizione censurabile, coloratura arruffata e la tendenza a fare, nell’autopercezione virtuosistica, il passo più lungo della gamba. Favolosa la coppia buffa giovanile: Giuseppina Bridelli, come Rosina Caruccia, è campionessa di forbitezza canora e malizia attoriale, là dove Tommaso Barea, come Rodimarte Bombarda, è un fior di baritono armato inoltre di simpatia, avvenenza e atletismo. Altrettanto favolosa la coppia buffa senile: Dave Monaco, meno che trentenne, conserva la fragranza vocale pur reinventandosi come vegliardo Flaminio Castravacca; Luca Cervoni, come Cornelia Buffacci, è infine il diamante dello spettacolo, fin da quando esce in scena, strappa l’ovazione spontanea e reagisce alla maniera dell’eccentrico personaggio, con un cenno che vale a dire “No, belli miei, non l’applauso anche oggi, mica ne ho bisogno io”: è un maestro del travestimento femminile e ridicolo, che però anche commuove nel saper far riflettere sui non meno veri amori della terza età.

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