Antiverismo pucciniano

di Luca Fialdini

Nel centenario della nascita di Franco Zeffirelli il Teatro alla Scala ripropone lo storico allestimento della Bohème del 1963

leggi anche Milano, La bohème, 11/03/2023

MILANO 26 marzo 2023 – Replicando quanto avvenuto in occasione del centenario di Giorgio Strehler, a cento anni dalla nascita di Franco Zeffirelli il Teatro alla Scala omaggia il regista fiorentino con una mostra e la riproposizione di uno dei suoi allestimenti più emblematici, quello della Bohème del 1963. Niente rughe, niente polvere: è sorprendente come il fascino si sia conservato in sostanza inalterato. La considerazione non è oziosa, perché la messa in scena di grandi allestimenti del nostro passato recente ci ha mostrato che le produzioni rimaste impresse nel nostro immaginario non sono immuni ai segni del tempo (per restare su Strehler, Le nozze di Figaro andate in scena nel 2021 e presenti anche nel cartellone odierno leggi la recensione). La regia, pazientemente ricostruita da Marco Gandini, e i costumi di Pietro Tosi ripresi da Anna Biagiotti sanno evocare ancora una volta quella magia che il grande pubblico conosce bene – impreziositi dal bel disegno luci di Marco Filibeck – e riportano il focus su almeno due aspetti d’interesse. Il primo, più tecnico e qui evidente nel Quadro secondo, è la perizia tutta zeffirelliana nella gestione delle masse; l’altro è l’eterno attrito tra i sostenitori degli allestimenti moderni e di quelli tradizionali, qualsiasi cosa questo voglia dire. Di solito si insiste su argomenti come l’aderenza al libretto o l’assunto piuttosto arbitrario dell’equazione se è in costume allora rispetta per forza l’idea dell’autore: platea e loggione non hanno la minima idea di che cosa significhi “essere fedeli al libretto”, ciò che amano di Zeffirelli è la sua offerta di immersività molto accessibile, forte di una narrazione lineare e di un sostrato di dettagli visivi che rendono l’illusione più concreta e credibile (nonostante qualche eccesso oleografico).

Un inventare il vero che si sposa molto bene con un titolo che non ha nulla del verismo in cui spesso Puccini viene ficcato senza tanti complimenti, un incasellamento quasi per nulla attinente a chi ha iniziato la propria vita teatrale con l’Aida da spettatore e poi da compositore con quella storia di magia e fantasmi che è Le Villi. I quattro quadri della Bohème si inscrivono nel solco del verosimile, molto lontano quindi da una accurata riproduzione del vero: la miseria della soffitta è più folkloristica che reale e le piccole forzature del Caffè Momus sono difficili da giustificare se non in nome di una squisita teatralità. Mentre nella Bohème di Leoncavallo esiste una precisa prospettiva che abbraccia anche il verismo, in Puccini si assiste a scene di vita coerenti ma solo giustapposte le une con le altre e dominate da un generale senso di nostalgia; quella che il compositore lucchese dà all’orchestra è una partitura sulla giovinezza – Rodolfo e Marcello, riferendosi alle rispettive compagne, parlano esplicitamente di «gioventù» - piena di ricordi, dall’inevitabile periodo di ristrettezze di chi ha deciso di mettersi “in proprio” a pagine tolte da altri lavori: l’Allegro vivace dal Capriccio sinfonico, il pezzo per il diploma al Conservatorio che diventa il tema d’apertura dell’opera, il Piccolo valzer in mi maggiore per pianoforte tramutato nel Valzer di Musetta (da cui la richiesta del «coccoricò, coccoricò bistecca») e la melodia di «Nei cieli bigi guardo fumar dai mille comignoli Parigi» che secondo alcuni deriverebbe dagli appunti per La lupa. Anche in questo esiste una corrispondenza tra l’opera e l’operazione nostalgia del riportare in scena questo allestimento.

Dall’ascolto alla generale del 2 marzo, la direzione di Eun Sun Kim è senz’altro migliorata ma è ancora lontana dall’essere centrata. Intendiamoci, nulla di tragico ma neanche nulla di particolarmente buono. La direzione di Kim si presenta molto alleggerita rispetto al primo ascolto, sebbene ogni tanto la presenza dell’orchestra sia ancora troppo massiccia; più di questo si riscontrano tre aspetti su cui c’è ampio margine di miglioramento: il colore è un po’ piatto, nella gestione del fraseggio viene spesso a mancare il caratteristico elastico pucciniano in favore di una direzione più quadrata che però rischia di irrigidire l’arco musicale e la semplice dizione del testo visto che in Puccini questi due elementi sono indissolubilmente fusi assieme. Oltre a questo c’è anche una scelta abbastanza curiosa dei tempi, a volte lentissimi mentre in altri casi si esegue la stessa cosa a due tempi diversi; «Vecchia zimarra» racchiude entrambi gli esempi dato che la parte cantata da Colline è molto lenta mentre la coda affidata all’orchestra è assai più veloce di tutto il resto, nonostante Puccini indichi un normale “a tempo”. Ad ogni modo il miglioramento rispetto alla generale è evidente ed è di per sé un dato incoraggiante. L’Orchestra del Teatro alla Scala segue le indicazioni di Kim, pertanto porta a casa un risultato non straordinario ma comunque dignitoso. Meglio il Coro del Teatro alla Scala e il Coro di voci bianche dell’Accademia del Teatro alla Scala preparati rispettivamente da Alberto Malazzi e Bruno Casoni.

Considerando anche la variazione minima tra primo e secondo cast, il gruppo dei solisti si presenta nel suo complesso ottimo e molto affiatato, cominciando dai comprimari Andrea Semeraro (Venditore ambulante), Guillermo Esteban Bussolini (Doganiere), Hyun-Seo Davide Park (Parpignol) e Giuseppe De Luca (Sergente dei doganieri), questi ultimi due provenienti dall’Accademia del Teatro alla Scala. Da segnalare soprattutto per la buona resa scenica Andrea Concetti nel doppio ruolo di Benoît e Alcindoro.

Efficace e con uno strumento importante il Colline di Jongmin Park, molto applaudito al termine della Zimarra; Alessio Arduini tratteggia con maestria un accattivante Schaunard, davvero pregevole negli assiemi. Dotata di un timbro morbido e aggraziato, il soprano Mariam Battistelli debutta al Piermarini come una Musetta di grande fascino, pulita nel fraseggio e mai eccessiva nelle messe di voce e soprattutto mai caricaturale. Ad maiora!

Freddie De Tommaso è un ottimo Rodolfo, ben centrato, dove la componente vocale e quella attoriale si equivalgono. Potrebbe esserci uno scavo ulteriore nel personaggio, ma già quanto mostrato in questa produzione rappresenta più di una solida base. Il canto morbido e ben controllato è una nota di pregio, unito a una presenza vocale solida guidata da una buona musicalità.

Luca Micheletti si dimostra all’altezza delle pur elevate aspettative, confermandosi uno dei migliori interpreti del momento. Il colore brunito, l’elegante controllo dello strumento vocale e la recitazione raffinata lo rendono un Marcello virtualmente perfetto, maiuscolo nelle scene nella soffitta, di vibrante umanità nel terzo quadro e alla fine del quarto.

Irina Lungu, dopo aver regalato al pubblico un’intensa Musetta, appare questa volta nei panni di Mimì e si dimostra un degno contraltare a Marina Rebeka. Appassionata, malinconica, sensuale ma mai macchiettistica, la sartina di Lungu è connotata da una linea vocale omogenea, dal timbro raffinato e dalla presenza scenica che richiama l’attenzione del pubblico sin dal primo ingresso in scena. Molto apprezzata nel primo e nel terzo quadro, Irina Lungu tocca l’apice in un finale dal grande coinvolgimento emotivo: in una parola, memorabile.