Perle al delfinario

di José Noé Mercado


"Vivevamo, come era normale,
ignorando tutto.
Ignorare
non è la stessa cosa che non sapere,
bisogna sforzarsi di farlo".
Il racconto dell'ancella
Margaret Atwood

Poco convincente la ripresa, dopo ventun anni, dei Pêcheurs de perles all'Ópera de Bellas Artes di Città del Messico.

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  • CITTA' del MESSICO, 25 maggio 2023 - L'Ópera de Bellas Artes (OBA), nell'ambito della sua Stagione 2023, ha presentato quattro rappresentazioni di una nuova produzione di Les pêcheurs de perles (1863) di Georges Bizet (1838-1875), su libretto di Eugène Cormon (1810-1903) e Michel Carré (1821-1872). Ventuno anni dopo l'ultima rappresentazione di quest'opera all'OBA, il 25, 28 e 30 maggio e il 1° giugno, il Teatro del Palacio de Bellas Artes ha fatto da palcoscenico a questa tipica storia di triangolo amoroso e di amicizia ambientata nell'antica Ceylon (l'attuale Sri Lanka) che e quasi da sola è alla base dell'enorme prestigio lirico che Bizet si guadagnerà con la sua Carmen (1875).

    Come spesso accade, l'aspettativa di vedere un titolo attraente per alcuni suoi più celebri momenti in una nuova messa in scena (basata sulla versione Urtext della Peters Edition, rivista nel 2002 e considerata l'"originale" di Georges Bizet) non ha corrisposto alla realtà presentata. Innanzitutto perché l'allestimento aveva come centro gravitazionale una generica tribuna (a cui le luci di Rafael Mendoza hanno cercato di dare varie sfumature di blu sbiadito), dove il coro e la maggior parte dei solisti stavano staticamente (o andavano e tornavano dietro le quinte).

    La scena, che ricordava la tribuna di un parco acquatico come il vecchio delfinario Atlantis di Città del Messico, mostrava non solo una mancanza di immaginazione per fare qualcosa di drammaticamente significativo con il coro - anche se la musica suggerisce e il testo fa riferimento a danze che non avvengono mai (i passi, del resto, potrebbero essere usati in modo intercambiabile per qualsiasi spettacolo) -, ma anche un lavoro scarso e di routine con i protagonisti. Eppure la messa in scena ha avuto due co-registi: Juliana Vanscoit (responsabile anche dei costumi e della scenografia) e Fabiano Pietrosanti, oltre al credito scenico di Iván Cervantes e alle coreografie e ai movimenti di Antonio Salinas.

    Solo una crepa crescente durante la recita, che sullo sfondo rivelava la luce del ciclorama, o la separazione nel secondo atto del modulo centrale dai tre che formavano le tribune, è ciò che sembrava dare un po' di vita alla composizione scenica. Ma, come si può evincere da quanto descritto e fatta eccezione per una pietra che è anche una meteora o la luna, non era molto.

    Sul versante vocale, ciò che si è maggiormente distinto è stata la partecipazione del soprano sivigliano Leonor Bonilla nel ruolo di Leïla, grazie a un timbro molto gradevole e a notevoli capacità tecniche, nel fraseggio e nell'ornamentazione. Le sue qualità si sono percepite soprattutto nel registro medio del suo strumento, nella parte innamorata del suo personaggio, perché negli acuti, aggiunti al peso del dramma alla fine del secondo e terzo atto, la laringe si alza e restringe l'emissione, così che il suono poteva essere percepito come un po' caprino. È un peccato che nella sua aria del secondo atto "Me voilà seule dans la nuit... Comme autrefois dans le nuit sombre" l'accompagnamento del corno fosse così sporco e quindi impresentabile.

    Il tenore sonoriano Jesús León ha semplicemente svolto il suo ruolo, pur avendolo interpretato in vari teatri internazionali, e anche se è vero che i suoi interventi sono andati in crescendo. Senza particolare attrattiva nella zona degli acuti e con difficoltà nel modulare, nello smorzare o nel filare le note (alla fine della celebre aria "Je crois entendre encore" la sua voce ha avuto addirittura una mini-rottura), non è riuscito a evocare le poetiche reminiscenze della musica e dei suoi sentimenti pensando alla voce della sua amata, autentica fantasticheria che permea l'essenza dell'opera.

    Il baritono Tomás Castellanos di Guadalajara ha offerto un nobile Zurga, combattuto tra amore e amicizia. La sua voce non è molto potente o robusta, ma l'ha usata con abilità istrionica e si è fatto valere, anche se il suo fraseggio a volte sembrava un po' sillabico. Il basso-baritono di Colima Ricardo Ceballos, attualmente membro dell'Estudio de la Ópera de Bellas Artes, non ha avuto una performance fortunata. Inudibile o con volume e forza minimi, ha lasciato un vuoto non solo nel suo personaggio di Nourabad, il Gran Sacerdote di Brahma, ma anche nell'impatto drammatico dell'opera. Potrebbe essere malato?

    Il Coro del Teatro de Bellas Artes, preparato per l'occasione dal maestro Alfredo Domínguez, ha contribuito a generare un po' della ricchezza di colori e dell'esotismo con cui Bizet caratterizza questa partitura di influenza wagneriana, verdiana e meyerbeeriana, anche se in termini di volume l'ensemble è andato spesso fuori controllo e ha sovrastato i solisti e persino l'orchestra diretta dal suo leader Iván López Reynoso. Si spera che non passino altri due decenni prima che il pubblico messicano possa ritrovare Les pêcheurs de perles in cartellone. Ma naturalmente non si può mai sapere.


    Les pêcheurs de perles en el delfinario

    por José Noé Mercado

    «Vivíamos, como era normal,
    haciendo caso omiso de todo.
    Hacer caso omiso
    no es lo mismo que ignorar,
    hay que esforzarse para ello»
    El cuento de la criada
    Margaret Atwood

    La Ópera de Bellas Artes (OBA), como parte de su Temporada 2023, presentó cuatro funciones de una nueva producción de Les pêcheurs de perles (1863) del compositor francés Georges Bizet (1838-1875), título que cuenta con libreto de Eugène Cormon (1810-1903) y Michel Carré (1821-1872).

    Luego de 21 años de que esta ópera se presentara por última vez en la OBA, los pasados 25, 28 y 30 de mayo, así como el 1 de junio, el Teatro del Palacio de Bellas Artes sirvió de escenario para esta típica historia de triángulo amoroso y amistad que se desarrolla en la antigua Ceilán (actual Sri Lanka) y apuntala casi en solitario el enorme prestigio lírico que Bizet se granjearía con su Carmen (1875).

    Como suele suceder, la expectativa por presenciar un título atractivo por algunos de sus lucidores pasajes en un nuevo montaje (realizado sobre la versión Urtext de Peters Edition, revisada en 2002 y que se considera “original” de Georges Bizet) no correspondió del todo con la realidad presentada.

    En principio, porque la puesta en escena tuvo como centro gravitacional un graderío genérico (al que la iluminación de Rafael Mendoza intentó darle diversas tonalidades a su deslavado azul), donde el coro y la mayoría de solistas se plantaron estáticamente (o iban tras bambalinas y regresaban).

    El cuadro, aproximado a la tribuna de un parque acuático como el viejo delfinario Atlantis de la Ciudad de México, no solo mostró carencia de imaginación para hacer algo dramáticamente significativo con el coro, aun si la música sugiere y el texto refiere baile que nunca ocurre (los escalones, dado el caso, podrían usarse de manera intercambiable para cualquier obra), sino también escaso y rutinario trazo con los protagonistas.

    Y eso que la puesta en escena contó con dos codirectores: Juliana Vanscoit (encargada también del vestuario y la escenografía) y Fabiano Pietrosanti, además del crédito de escenotecnia de Iván Cervantes y coreografía y movimiento de Antonio Salinas.

    Sólo una grieta creciente durante la obra que al fondo dejó ver la luz del ciclorama o la separación en el segundo acto del módulo central de los tres que formaron las gradas es lo que pareció darle un poco de vida a la composición escénica. Pero, claro, por lo descrito, y salvo una piedra que luego es también un meteoro o la luna, no demasiada.

    En la parte vocal, lo que resultó más destacado fue la participación de la soprano sevillana Leonor Bonilla en el rol de Leïla, gracias a un timbre muy grato y capacidades técnicas destacadas, en fraseo y ornamentación. Sus cualidades se percibieron sobre todo en el registro central de su instrumento, en la parte enamorada de su personaje, pues en el agudo, sumado al peso del drama del final del segundo acto y del tercero, la laringe sube y estrecha la emisión, con lo que el sonido podría percibirse algo capretino. Es una lástima que en su aria del segundo acto “Me voilà seule dans la nuit… Comme autrefois dans le nuit sombre” el acompañamiento de las trompas haya sido tan sucio y, por tanto, impresentable.

    El tenor sonorense Jesús León cumplió con su personaje a secas, aun cuando lo ha interpretado en diversos teatros internacionales, y si bien es cierto que sus intervenciones fueron de menos a más. Sin particular atractivo en la zona aguda y con dificultades para flotar, apianar o filar las notas (en el final de la célebre aria “Je crois entendre encore” su voz tuvo incluso un miniquiebre), no logró convocar las reminiscencias poéticas de la música y de sus sentimientos al pensar en la voz de la amada, lo que resulta una auténtica ensoñación que permea la esencia de la obra.

    El barítono tapatío Tomás Castellanos configuró un Zurga noble, escindido entre el amor y la amistad. Su voz no es muy potente o robusta, pero la usó con capacidad histriónica y salió adelante, aun si su fraseo por ratos pareciera un tanto silábico. El bajo-barítono colimense Ricardo Ceballos, actual integrante del Estudio de la Ópera de Bellas Artes, no tuvo una actuación afortunada. Inaudible o con mínimo volumen y sin fuerza, dejó un hueco no solo en su personaje de Nourabad, el Gran Sacerdote de Brahma, sino en el impacto dramático de la obra. ¿Acaso estaría enfermo?

    El Coro del Teatro de Bellas Artes, preparado para la ocasión por el maestro Alfredo Domínguez, contribuyó a generar un poco de la riqueza de colores y el exotismo con el que Bizet caracteriza esta partitura de influencia wagneriana, verdiana y meyerbeeriana, aunque en términos de volumen el conjunto se descontroló con frecuencia y pasó por encima de los solistas e incluso de la orquesta dirigida por su titular Iván López Reynoso. Ojalá no tenga que transcurrir otro par de décadas para que el público mexicano pueda volver a pescar Les pêcheurs de perles en la cartelera. Pero es claro que nunca se sabe.