Il sacro e la morte

 di Stefano Ceccarelli

All’Accademia Nazionale di Santa Cecilia viene presentato un applauditissimo concerto che oscilla fra due poli tematici, il sacro e la morte. O, meglio: come il senso del sacro affronta il mistero della morte. Daniel Harding sceglie due autori, Giuseppe Verdi e Joseph Suk, e due loro opere: un’antologia dei Pezzi sacri (Stabat Mater, Laudi alla Vergine Maria e Te Deum) del primo e la Sinfonia n. 2 “Asrael” del secondo.

ROMA, 21 marzo 2025 – Molto si è detto sul Verdi agnostico, in particolare avverso all’istituzione ecclesiastica, ma non si può negare al bussetano un alto, spirituale senso del sacro. Lo dimostra l’esecuzione di un’antologia di alcuni Pezzi sacri, con cui Daniel Harding apre il programma della scorsa settimana. Se si osserva la postura generale del direttore, non si può negare che Harding non valorizzi, con il suo gesto essenziale, aulico, lo «stile spoglio, essenziale, fatto di piccole sfumature, di improvvise quanto fugaci aperture melodiche, raccolto, severo, tutto volto allo scavo interiore e alla rappresentazione di un’inquietudine che non smentisce la posizione aperta di Verdi, né di rifiuto né di adesione fideistica di fronte al trascendente» (Paolo Gallarati, dall’ottimo programma di sala, dal quale citerò estesamente). Lo Stabat Mater è il primo di questi pezzi, una sorta di Requiem in miniatura, nel senso che i colori son quelli del ‘fratello maggiore’: Harding mostra una direzione molto attenta, espressiva, l’orchestra suona stupendamente e il coro, il vero protagonista dei pezzi sacri, regala una linea di canto che si libra nelle più disparate dinamiche, dai filati (si pensi al finale), agli slanci di impressionante, statuaria, marmorea potenza – c’è solo da segnalare qualche lieve incertezza nell’attacco delle note più acute della compagine femminile. Sempre d’effetto sono le Laudi alla Vergine Maria (ovvero i versi di Dante, Paradiso, 23, 1ss): il coro femminile ricrea un volo celestiale d’ineffabile sentimento, delibando (a cappella) i versi danteschi attraverso una melodia eterea, contemplativa, riuscendo a far arrivare allo spettatore quel senso di «quiete paradisiaca» (Gallarati) cui mirava Verdi. Non solo nelle Laudi, ma anche nel Te Deum si percepisce forte l’influenza dell’austero ed evocativo stile di Palestrina (nel quale Verdi individuava, peraltro, il germe primo di una ‘scuola’ tutta italiana); Harding stacca le sezioni del pezzo con naturalezza, conferendo un senso di maestà nel passaggio dall’incipit a cappella al Sanctus, dove c’è un’esplosione di coro ed orchestra. La conduzione, poi, si assesta sul rigore di un polso fermo, ma non refrattario a far cantare le morbidezze create da Verdi. Ottima la resa del finale, giustamente celebre, dove, fra i vapori del coro, emerge l’assolo angelicato del soprano, qui interpretato da Roberta Mantegna.

Nel secondo tempo Harding sceglie di battezzare, nei cartelloni dell’Accademia, la Sinfonia n. 2 in do minore “Asrael” op. 27 di Joseph Suk. Allievo e genero del più celebre Antonín Dvořák, Suk scelse di comporre una sinfonia intitolata all’angelo della morte a sèguito di una serie di lutti che avevano funestato la sua vita, fra cui quello dell’amata Ottilia – cioè la figlia di Dvořák. Già il I movimento (Andante sostenuto) è un microcosmo di ciò che sarà la cupa sinfonia: «la scrittura sinfonica di Suk è ricca di atmosfere e di colori: va dalla cupezza alla luminescenza di strane fosforescenze a effetti schiaccianti di sapore pre-espressionista. Più che tragico, questo movimento appare catastrofico, e la violenza sembra travolgere tutto». Harding esalta proprio la scrittura caleidoscopica di Suk. Morbido nei momenti estatici, lirici; scatenato, satanico in quelli che evocano la presenza di Asrael. Un grande pregio di Harding è quello di non strappare mai, conferendo naturalezza, sfumando nei passaggi che costituiscono le giunture della sinfonia. L’orchestra, ben rodata dalla scrittura verdiana, ispessisce ancora il suono, si fa più d’effetto. Il senso chiaro dell’architettura Harding lo possiede anche nell’Andante (II), le cui pagine sono pregevoli per i misteriosi impasti dei legni o gli spettrali pizzicati degli archi, che colorano il tutto di una dimensione algida. Il movimento che più accentua i tratti di una danza satanica è il III (Vivace); Harding fa bene a calcare il senso, ancora, di diafana freddezza, che viene sospesa nell’intermezzo «luminoso, idilliaco», come pure della sfrenata tensione che si acuisce nella seconda parte del movimento. Dopo l’unica pausa della sinfonia, Harding attacca l’Adagio (IV), intimamente addolorato, una sorta di struggente ricordo di qualcosa di molto amato e, poi, perso. Ancor meglio di come aveva caratterizzato il III movimento, il direttore si muove nel IV, dosando volumi e colori, raggiungendo uno dei risultati più alti dell’intera serata. La sinfonia si chiude con un Adagio e maestoso (V) in cui, ancora, Harding dimostra polso nella gestione dei diversi passaggi rapsodici, nei cambi di ritmo e di intensità – memori di tanta scrittura caleidoscopica novecentesca. In alcuni punti, il grottesco è portato a notevoli conseguenze; il finale si apre ad effetti che sono debitori di Debussy, i quali si adagiano su una melodia pacatamente solenne degli ottoni bassi. Non si possono che usare le parole conclusive di Gallarati per descrivere questi effetti: «la svolta conclusiva [è] annunciata da un corale solenne degli ottoni dal sapore chiaramente religioso [sul quale intervengono] i legni che, oscillando sulle tracce luminescenti degli archi, danno voce alla commozione, creando una sorta di luminescenza paradisiaca. La disperazione, il dolore, le lacerazioni, lasciano spazio alla voce della speranza. Come avviene in alcune sinfonie di Mahler, il finale è catartico e conforta l’ascoltatore offrendo la possibilità di una redenzione».

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