Gatti presente, assente Strehler
Daniele Gatti torna al Teatro alla Scala con l’aura del prescelto e con un titolo amato e rifinito, Falstaff, per una lettura sempre più sommessa, introversa e crepuscolare. La ripresa dell’allestimento con regìa di Giorgio Strehler, al contrario, ostenta i limiti di un’operazione ormai archeologica. Gli effetti ricadono anche sulla compagnia di canto, dove il Ford di Luca Micheletti e il Dr. Cajus di Antonino Siragusa spiccano sul protagonismo di Ambrogio Maestri, sul primato tenorile di Juan Francisco Gatell e sul quartetto femminile costituito da Rosa Feola, Rosalía Cid, Marianna Pizzolato e Martina Belli.
MILANO, 16 gennaio 2025 – Se davvero l’incarico di Riccardo Chailly è destinato a concludersi presto – un impegno ridotto al minimo, ma una qualità esecutiva formidabile e idiomatica come nessun’altra – e se davvero Daniele Gatti sarà il prossimo direttore musicale del Teatro alla Scala, l’inaugurale Forza del destino assume il valore di una prima, eloquente ricapitolazione, come spettacolo invero identitario e degno di un primo teatro del mondo, mentre il secondo titolo della nuova stagione, Falstaff, un’altra opera di Giuseppe Verdi, finisce investito di un’inattesa, spasmodica attenzione complementare: le nove recite della Forza sono terminate il 2 gennaio, dirette da Chailly, e il 16 sono iniziate le sette di Falstaff, dirette da Gatti. Nessuno più di quest’ultimo ha oggi nobili credenziali per la successione al pontificato operistico, e nessun’opera più di Falstaff può essere da lui esibita come biglietto da visita amato e rifinito. Alla Scala l’aveva già diretta nel 2015 e la sua lettura – complici il tempo che passa, rispetto allo stesso contesto, e la particolare fonica all’italiana delle maestranze scaligere, rispetto alla germanizzante esecuzione di soli due anni fa al Maggio Musicale Fiorentino – la sua lettura, si diceva, suona sempre più sommessa, introversa, crepuscolare, tutt’altro che accondiscendente a fuochi d’artificio per stupire con facilità chi è venuto con la penna in mano ad adorare servilmente il prescelto. Con un’evidenza, per chi la sa afferrare, che però stupisce: in questo Falstaff devoto al sussurro nondimeno cresce, ribolle e scalpita sottotraccia, quasi con virtuosistica antifrasi, il titanismo strumentale del Verdi post-Aida, quello cioè che può estendere il sound della Messa da Requiem ai rifacimenti di Simon Boccanegra e Don Carlos, che non si pone più il limite pratico in Otello e che in Falstaff lavora sì di miniatura, ma – ci se ne accorge di rado meglio che con Gatti – non per questo rinunciando ai pregressi conseguimenti di scrittura. Va da sé che con l’Orchestra e il Coro della Scala il risultato dell’operazione sia tale da ammutolire ogni concorrenza.
Cattiva, invece, l’idea di recuperare lo storico allestimento con regìa di Giorgio Strehler e scene costumi di Ezio Frigerio, concepito per il lontano sant’Ambrogio del 1980 e visto per l’ultima volta agli Arcimboldi nel 2004. In tale estrema occasione l’età di Strehler, morto sette anni prima, conservava ancora una propria viva linfa, anche mediante la sorvegliante garanzia qualitativa di Riccardo Muti e degli interpreti da lui scelti e formati in un preciso momento apicale della storia della Scala. Assistere oggi a una programmatica riesumazione delle regìe scaligere di Strehler – nei due anni scorsi a Milano si sono già riviste Le nozze di Figaro e Die Entführung aus dem Serail – procura invece nostalgia e tristezza rispetto a tempi nei quali il ricordo non era archeologia e il mestiere non era approssimazione. Tutti gli allestimenti menzionati sono stati infatti riproposti senza prima scuotere a una critica aria fresca le loro immagini e le loro intenzioni; li si è piuttosto stereotipati nella loro visione, nel loro messaggio, nella loro gestualità e nella loro personalizzazione, là ove un interprete non dovrebbe essere chiamato a banalmente replicare, in versione diminuita, il lavoro di chi l’ha preceduto venti o quarant’anni prima (guai, a maggiore ragione, se il confronto avvenga con sé stesso). Ancora una volta pessimo, infine, il disegno delle luci: con gli occhi si è costretti ad andare a caccia di chi sta cantando nascosto suo malgrado in coni d’ombra (e – no – questa non è, non lo era nei primi anni Duemila né potrebbe comunque essere un’eredità di Strehler). Meglio sarebbe stato riprendere uno dei più recenti Falstaff scaligeri: quello con regìa di Robert Carsen, del 2013, o quello con regìa di Damiano Michieletto, del 2017.
Il logoro Falstaff di uno Strehler che non è più Strehler – e che in ogni caso dovrebbe trovare un rinsensato nuovo modo di essere Strehler – funziona male anche addosso all’unico testimone ancora in sella dalle recite del 2004: svanita l’energia del trentaquattrenne che fu, erosa la prodiga natura da carenze tecniche, mancato il decisivo ruolo tutorale di Muti, Ambrogio Maestri è ora un protagonista affaticato e distratto, duro, fioco e scabro nell’emissione, sprovvisto del falsetto d’ordinanza, impermeabile alle sfumature che da lui, in quell’enorme personaggio, sarebbero tassativamente attese a iosa. A peggiorare la situazione, sopra di lui si erge il più dotato, umorale, energico e spigliato Ford osservato e ascoltato in teatro da molti anni: è l’altro baritono, Luca Micheletti, modello del tipo di autonomo collaboratore facente al caso della concertazione di Gatti. Segue un paradosso di casting: mentre ancora non si riesce a cavarsi dalla mente e dal cuore il Fenton di Giuseppe Filianoti – sempre quei benedetti ventun anni fa – avviene ora che la più importante parte tenorile dell’opera, munita della sua estatica romanza-sonetto, sia rilevata dal corretto ma dilavato Juan Francisco Gatell, mentre un collega assai più cospicuo nel materiale, nella tecnica e nella carriera, Antonino Siragusa, sia relegato al caratterismo del Dr. Cajus. Sua è la vocalità più squillante, mentre per gli altri, nell’ingrata acustica della Scala, occorre spesso tendere l’orecchio. Ciò vale anche per le signore: Rosa Feola come (ex-Nannetta promossa ad) Alice, Rosalía Cid come Nannetta, Marianna Pizzolato come Quickly e Martina Belli come Meg costituiscono un quartetto di pregio grazie ai meriti individuali, ma latita il vicendevole spirito di squadra nonché il caratteristico, immediato, arcinecessario distinguersi di ciascuna in quel consesso. Non più che funzionali il Pistola di Marco Spotti e il Bardolfo di Christian Collia: ma potrà sacrosantamente preoccupare che la Scala, per queste parti caratteristiche, in faccia alla propria tradizione, si regoli alla maniera di un teatro di repertorio viennese?
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