Le napoleoniche selve

di Giuseppe Guggino

Norma inaugura la nuova stagione d’opera del Teatro Bellini di Catania con Irina Lungu e Carmela Remigio in avvicendamento nel ruolo eponimo. Poco persuasiva la ripresa dello spettacolo ultraventennale di Hugo de Ana. Si fa notare, invece, la bacchetta di Leonardo Sini.

Catania, 22 e 23 gennaio 2025 - Nell’anno del bicentenario del titolo d’esordio del catalogo belliniano, l’Adelson, il Teatro Bellini di Catania punta invece sulla più popolare Norma per l’inaugurazione della nuova stagione d’opera, con buone ragioni al botteghino, almeno a giudica dal successo di pubblico arriso a tutte le recite. Per l’occasione si reimporta dall’Opera di Sofia l’allestimento varato da Hugo De Ana nel 2003 al New National Theatre, allora tenuto a battesimo da Fiorenza Cedolins e Bruno Campanella e poi circuitato anche in Italia fra Ancona e Verona. L’intuizione del regista argentino è quella di servire la classicità della drammaturgia con il ricorso a tableau vivant con continui riferimenti alla cifra pittorica di Jacques-Louis David. Le druidiche selve sono abitate dall’esercito napoleonico, la luna sparisce del tutto e le truppe romane vestono le divise dell’esercito asburgico, né l’incongruo drammaturgico è compensato dal fasto delle due colonne semoventi su un fondale di bassorilievi e trabeazioni o dagli arredi in stile impero, se nella ripresa latita quel senso del mestiere di una Leda Lojodice, che avrebbe quantomeno assicurato ben altra riuscita all’epilogo, in cui Norma e Pollione finiscono trafitti da una selva di lance. Quasi completamente rifatti i costumi che mantengono una vaga parentela cromatica con gli originari ben più ricchi e, nonostante l’aggiunta di qualche non indispensabile videoproiezione a scapito di un efficiente disegno luci, lo spettacolo fatica a decollare risultando un poco stantio e privo di quegli elementi che una ventina d’anni fa lo facevano risultare nettamente più valido.

Né le mode o quantomeno gli orientamenti mutano solamente nell’ambito delle messinscene, ché anche in fatto di voci e filologia negli ultimi vent’anni le cose sono assai mutate. A partire da un maggior rispetto testuale che, anche grazie all’uso della nuova edizione critica di Roger Parker, ci evita tagli scriteriati, o che fa riguadagnare al coro “Guerra, guerra!” la preghiera conclusiva, sebbene “Casta diva” sia eseguita in fa maggiore anziché nella tonalità dell’autografo e per il finale primo si opti per la soluzione consolidata dalla tradizione che riserva meno spazio ad Adalgisa. Onore dunque alla bacchetta di Leonardo Sini che sa tendere il lungo arco narrativo, sensibile accompagnatore che con buona versatilità agogica riesce ad imporre la sua prospettiva del tutto indenne dalla facile trappola della lettura quarantottina. Peccato che a fronte di una giovane bacchetta tanto interessante le compagini residenti, peraltro in genere assai ben versate in questo repertorio, abbiano risposto con qualche sufficienza di troppo specie fra gli archi e nel coro, istruito da Luigi Petrozziello.

Quanto ai cast, entrambi con elementi di interesse, le scelte sono così disparate da apparire quasi illogiche. Ecco che nei panni di Norma sono chiamate ad alternarsi Irina Lungu e Carmela Remigio, la prima forte di un colore scuro e di una proiezione di ben maggiore incisività rispetto alla seconda, che gioca di rimessa cercando di recuperare terreno con un declamato talvolta sospinto al digrignato; sulla pertinenza stilistica viceversa il soprano russo addiviene a più di qualche compromesso nel primo atto registrando solamente nel secondo il colpo d’ala a fronte di una prova più omogenea dell’italiana in passato più volte versata – e forse più propriamente – nei panni di Adalgisa. In cui qui si ritrova la sopranile Elisa Balbo, dal timbro vetroso e dalle dinamiche tutte compresse fra il mezzoforte e il forte in alternanza con la ben più convincente Aya Wakizono che, ancorché mezzosoprano, ha un maggior controllo nel registro acuto e una pertinenza stilistica che le avrebbero fatto meritare l’inversione di compagnia. Decisamente al passato guarda il Pollione di Antonio Poli, forte di un timbro generoso ma stilisticamente appuntabile per una genericità troppo incline a vezzi anacronistici quali ad esempio l’omissione delle ultime frasi a conclusione della cabaletta di sortita. Preferibile quindi Ivan Magrì nel secondo cast che non avrà l’oro in gola, ma che quantomeno riesce a mantenere una maggiore fedeltà al dettato belliniano.

Carlo Lepore è un Oroveso talvolta tronfio, vociferante, ma che viene a capo della parte al pari di Alessio Cacciamani in seconda compagnia.

Infine un lusso è il doppio cast anche per Clotilde e Flavio, con Alessandra Della Croce e Anna Malavasi e con Marco Puggioni e Blagoj Nacoski.

Successo pieno e convinto ad entrambe le repliche, come di prammatica in terra belliniana, en attendant del titolo belliniano festivaliero di settembre che, salvo sorprese, dovrebbe essere Il pirata, con buona pace del bicentenario Adelson.

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