Il terzo dittico del Trittico

di Stefano Ceccarelli

Il Teatro dell’Opera di Roma termina il “Trittico ricomposto” con il terzo, ed ultimo, dittico: Suor Angelica di Giacomo Puccini e Il prigioniero di Luigi Dallapiccola, un “confronto sicuramente ardito”, come l’ha definito il direttore, Michele Mariotti, che regala una straordinaria performance. Certamente interessante, sebbene non del tutto riuscita, la regia di Calixto Bieito. Nel cast vocale si distinguono, nei rispettivi ruoli protagonistici, Corinne Winters (Suor Angelica) e, soprattutto, Mattia Olivieri (Il prigioniero).

ROMA, 29 aprile 2025 – Arriva a conclusione, dopo tre anni, il progetto “Trittico ricomposto”, che ha avuto origine, in collaborazione con il Festival Puccini di Torre del Lago, per celebrare il centenario dalla morte del compositore: il Trittico di Puccini è stato trasformato, nel corso di tre stagioni del Costanzi, in tre dittici (per i primi due: Il tabarro / Il castello del principe Barbablù 2023 e Gianni Schicchi / L'heure espagnole 2024); vale a dire che ogni opera del Trittico è stata accoppiata con un’altra che condividesse con quella un tema in comune. Dopo Il tabarro (accoppiato con Il castello del principe Barbablù di Bartók) e Gianni Schicchi (con L’heure espagnole di Ravel), tocca a Suor Angelica il compito di terminare l’impresa, rappresentata per l’occasione assieme a Il prigioniero di Luigi Dallapiccola, con il quale condivide l’asfissiante claustrofobia dei destini ‘incrociati’ di Angelica e dell’innominato prigioniero. Mariotti, cui si deve la direzione artistica del progetto, ha individuato il denominatore comune nella «prigionia morale, condizione tanto più dolorosa in quanto acuita, qui, da una speranza di libertà, crudelmente infranta» (dall’intervista a Valanzuolo).

Il fatto che queste tre produzioni, anche spalmate nell’arco di un triennio, abbiano avuto sempre il medesimo direttore d’orchestra, Michele Mariotti, ha loro donato, effettivamente, una certa unità di intenti estetici. La mano di Mariotti, anzi, è forse l’aspetto più interessante di quest’ultima produzione. Grazie ad un’orchestra che, val bene ripeterlo, è in ottimo stato oramai da anni, Mariotti riesce a scavare profondamente nelle due partiture, restituendo appieno le loro atmosfere, le tinte caratteristiche dei due differenti lavori. In Suor Angelica fa un lavoro mirabile fra i canti ieratici, tranquilli, che sembrano adornare di placida pace la vita del monastero, ma che si rivelano litanie ripetute, quasi ossessivamente, a ricordare a chi ascolta che non c’è reale via di fuga, ma solo apparente, solo nell’immobile stasi della preghiera. La drammatica bellezza di Suor Angelica è nell’equilibrio fra le latenti, vibranti venature angosciose dei desideri repressi delle suore (Angelica über alles) e l’apparente idillio monastico, l’astrazione metafisica dal mondo: Mariotti sa dipingere questa ‘scenografia musicale’ con gusto e competenza, schiarendo e alleggerendo dove necessario (tutta la parte iniziale) e calibrando una climax inesorabile che porta al suicidio di Angelica, redenta in punto di morte dall’apparizione della Vergine. Il prigioniero, invece, ha una tempra molto più intensa per tutto il corso della partitura, quasi schiarendosi nel finale. Ancora, Mariotti sa cogliere questa tinta scura, ma non disperata, che pare lasciare sempre un segno di speranza, poi disatteso. Le voci sono ben concertate, il tutto si regge ottimamente. Insomma, Mariotti conclude come meglio non si potrebbe questo “Trittico scomposto”.

Il cast vocale di Suor Angelica ha in Corinne Winters, nel ruolo del titolo, la voce di punta. Premesso che la Winters ha fatto sostanzialmente tutto bene, nel senso che ha dato una sua interpretazione del ruolo anche complessivamente convincente, personalmente trovo la sua vocalità, il timbro, il fraseggio etc., poco adatti ad un ruolo come quello di Angelica, che necessita di un candore vocale di cui la Winters è naturalmente sprovvista. Ciononostante, siamo davanti ad una grande professionista, ad una cantante intelligente, che gioca con i colori, affronta il duetto con la Zia Principessa variando in intensità, abbandonandosi al dolore quasi con pudore; la sublime aria «Senza mamma», fra i pezzi più strazianti mai composti da Puccini, la vede oltremodo impegnarsi in filati, mezze voci, frasi dolcemente legate, ma il suo timbro metallico, strettamente vibrato, stride lievemente con l’ethos del pezzo. La scena del suicidio finale è il momento più alto della performance della Winters: la voce si libra, potente, in acuti duri ma intensi, nell’angoscia della morte, sciolta solo dal perdono mariano. Anne-Nicole Lemieux propone una Zia Principessa meno in linea con la tradizione del personaggio: non un canto inflessibile, inesorabile, freddo, ma una ricerca di una linea ambiguamente melliflua, sì ingannatrice, ma contrita, bigotta, con esiti interessanti, seppur mai plateali. Le varie suore fanno tutte più o meno bene il loro compito, conferendo varietà e carattere: Annunziata Vestri (la Badessa), Irene Savignano (La suora zelatrice), Carlotta Vichi (La maestra delle novizie), Laura Cherici (Suor Genovieffa), Jessica Ricci (Suor Osmina), Ilaria Sicignano (Suor Dolcina).

Ne Il prigioniero di Dallapiccola spicca quello che non si fa torto a definire il miglior interprete della serata: Mattia Olivieri, che debutta al Costanzi con un successo personale meritatissimo. Olivieri, dotato di una voce elegantissima, che sa esprimersi in un nobile legato, come pure nella vasta gamma cromatica impiegata nei fraseggi, coniuga la scura intensità della corda baritonale (mitigata da un ibrido chiarore) ad un’agilità, una morbidezza dei passaggi di registro, che stupiscono l’ascoltatore; quando necessario, è capace di uno squillo educato, che attesta un interprete di gusto. La parte del prigioniero è impervia dall’inizio alla fine, costringendo il cantante a repentine escursioni sul pentagramma, a squilli, mezze voci, tutto calibrato per armonizzarsi ad un’orchestrazione screziata, variopinta, a tratti allucinata, nella quale si annidano tenui dissonanze, verticalizzazioni improvvise. Olivieri non fa mai un passo falso, recitando il tutto con maestria, interpretando un personaggio non facile, muovendosi qua e là nel palco, con un timing sempre centrato. A tutto si aggiunga una naturale bellezza, che rende la sua presenza scenica magnetica. Il ruolo della Madre è interpretato da Ángeles Blancas, soprano versato nel repertorio del XX secolo, che vanta una notevole potenza vocale, coniugata ad uno squillo voluminoso; tutte doti che le sono molto utili nella grande scena del prologo dell’opera, dove Blancas sfoggia un canto nettamente stentoreo, alternato a momenti nei quali lavora maggiormente sul fraseggio, il che contribuisce ad acuire gli effetti allucinati della partitura di Dallapiccola. Meno convincente l’interpretazione di John Daszak nei due ruoli del Carceriere e del Grande Inquisitore: tenore anch’esso versato nel repertorio contemporaneo, Daszak ha un’emissione poco centrata, che manca di intensità e sfugge, in più di una frase, dai binari dell’intonazione. Buoni Nicola Straniero e Arturo Espinosa nei ruoli dei due sacerdoti.

L’ultimo aspetto che manca da trattare è quello della regia, affidata a Calixto Bieito. Oggi più blasonato che criticato, Bieito è stato un regista di rottura, un gusto che porta, almeno in parte, anche in questo dittico. Registicamente parlando, mi sembra che ambedue le opere abbiano idee e momenti interessanti alternati ad altri meno convincenti: Bieito ha comunque voluto trovare nelle due opere un fil rouge affermando che «sono legate nell’idea di annientamento delle persone da parte dei regimi autocratici» (come si legge nell’intervista a Moppi, nel programma di sala). Anna Kirsch, per la scena di Suor Angelica, realizzaun imponente chiostro di spesse sbarre che perimetrano la scena; al centro, un lussureggiante giardino. L’idea della prigionia è centrale, sovrapposta all’immagine del manicomio: tutte le suore appaiono come malate che interagiscono fra di loro in una sorta di isteria collettiva. Bieito ha il merito di aver caratterizzato ognuna con grande precisione, creando una sorta di scenografia umana che sopperisce alla spoglia semplicità delle sole sbarre; qui il regista si può sbizzarrire con fugaci scene di colore più spinto (gravidanze isteriche, perdite di sangue etc.). L’illusione creata da Bieito non lascia pensare che, nel suo mondo, abiti qualcuno che non sia folle, in un’allegoria della vita umana che molto ha di vero; non solo la Badessa, ma persino la Zia Principessa appare visibilmente folle. Si può discutere se tale immaginario sia adatto, o meno, al libretto di Suor Angelica: rimane l’effetto sinceramente interessante che alcune idee di Bieito lasciano nello spettatore. Si sarebbe certamente potuto osare di più nel finale; far apparire, in qualche modo, la Madonna (il gioco di luci non è di grande effetto), far morire diversamente Angelica, magari nel bel mezzo del giardino. Il legame fra Suor Angelica e Il prigioniero è evidente fin dalla processione in cui le folli suore portano il feretro, appunto, del Prigioniero. La scena della seconda opera è la medesima, naturalmente: dal chiostro ora si passa alla cella. Le luci si fanno più acide: hanno un’estetica techno che si riverbera anche nei costumi (Ingo Krügler). Nel Prigioniero molta parte della regia si concentra sulla cura dei movimenti del protagonista (Olivieri), sugli effetti di luci e su qualche oggetto di scena – un monitor, a sottolineare quanto vana sia la speranza del protagonista, fomentata dal crudele Inquisitore/Carceriere, che utilizza il controllo psicologico per fiaccare la mente dell’oppositore politico. L’esile trama di Dallapiccola, già a suo tempo chiaramente allegorica, si astrae, sempre di più, in un’oppressione senza tempo (nel senso che è la medesima, mutatis mutandis, nel corso della storia). Una delle poche scene d’impatto dell’intera regia di Bieito è il finale del Prigioniero, in cui il giardino (quello di Suor Angelica) si solleva e una luce dalla scena invade la sala: il rogo. Gli applausi attestano il gradimento del pubblico.

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