L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Dalla Senna all’Ungheria

di Luca Fialdini

Un folto pubblico ha accolto nella cavea del Teatro Puccini l’insolito dittico Tabarro-Castello di Barbablù, coproduzione con il Teatro dell’Opera di Roma

TORRE DEL LAGO (LU) – “Trittico ricomposto” è il progetto che unisce gli sforzi del Teatro dell’Opera di Roma e del Festival Puccini di Torre del Lago nel segno dell’imminente centenario della morte del compositore lucchese. L’idea è semplicissima: scomporre le tre opere del trittico pucciniano (Tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi) per associarle individualmente ad altrettanti titoli del Novecento, confezionando quindi tre dittici. Il primo risultato di questo progetto è l’inedito abbinamento fra Il tabarro in e il Castello di Barbablù di Béla Bartók, già andato in scena nel mese di aprile al Teatro Costanzi di Roma e finalmente arrivato anche a Torre del Lago.

La regia firmata da Johannes Erath propone il medesimo allestimento per entrambi i titoli – seppure con significative variazioni sulla disposizione degli elementi e sull’uso delle proiezioni – quasi a voler creare delle linee di forza tra due atti unici così distanti tra loro. È pacifico sostenere che esistano delle analogie fra l’opera di Puccini e quella di Bartók, ma si tratta di riscontri piuttosto banali e che creano dei legami a livello segnatamente superficiale: la violenza di genere, la storia di due coppie sposate, il tema dell’incomunicabilità. Collegamenti spiccioli buoni per le conferenze stampa ma che sul palco (almeno in operazioni composite partendo da opere già scritte) aggiungono poco o nula alla drammaturgia. Più interessante e dritto al nocciolo della questione il commento di Erath sui connotati simbolici dell’opera di Giacomo Puccini, tratto che si fonde perfettamente con il Barbablù di Bartók, che è prettamente simbolico, e instaurare un dialogo tra i due mondi.

Insistere sull’aspetto simbolico (e simbolista) è senz’altro più semplice con Bartók ma meno immediato con Puccini, tuttavia Erath asciuga efficacemente il comparto visivo – che non infrequentemente con il compositore lucchese tende a scivolare nell’oleografia o, in questo caso, in «un aspro e delicato sapore di acquaforte» – per porre davanti allo spettatore in tutta la sua intensità lo scenario simbolista su cui si contorce la vicenda. In questo modo emerge anche una doppia natura del Tabarro, perché se da un lato è un tardivo omaggio al realismo (per non dire al verismo tout court), dall’altro Francesco Fontanelli sottolinea come «non è irrilevante notare come l’interpretazione in chiave realista possa convivere e si compenetri con una lettura di segno decadente/simbolista».

Niente barcone, niente riferimenti precisi, solo un generico dietro le quinte con tanto di riflettori e impalcatura (quest’ultima un autentico non-luogo in grado di assumere più valenze). Da notare l’assoluta mancanza di un “interprete” per il ruolo del titolo, ossia il tabarro, tuttavia la sua presenza è evocata e suggerita per tutta la durata della recita da un lungo telo che appare quasi come un ingrandimento del tabarro stesso; se in un primo momento si limita a coprire l’impalcatura centrale e a ingolfare gli scaricatori, alla fine diventa l’effettivo involucro con cui Michele avvolge il corpo di Luigi.

Quello che Erath propone è un Tabarro molto diverso dal solito, con un approccio registico che tende a discostarsi dalle indicazioni nette del libretto ma sempre in linea con lo spirito della partitura. Le scene di Katrin Connan sono sì essenziali ma molto eleganti, adeguati e funzionali di costumi di Noëlle Blancpain mentre le luci di Alessandro Carletti sono una nota di pregio; molto ben realizzate le proiezioni di Bibi Abel, di ottima qualità e con alcuni guizzi particolarmente centrati (due su tutti l’ambivalenza latente di eros e thanatos dei panneggi leggeri e l’apparizione di una Senna lugubre e desolata), meno appropriati e assai poco in linea con il contesto alcuni eccessi come le esplosioni di colori, il volto di Luigi ripreso mentre annega – cosa che in scena nemmeno accade – e l’Isola dei morti di Böcklin, che pur appartenendo alla corrente simbolista visivamente non si amalgama con l’essenzialità che pervade l’intero allestimento.

In generale l’ideazione scenica di Erath ha delle ottime idee ma nella realizzazione ci sono elementi che ne compromettono l’efficacia, una sorta di horror vacui che porta il regista a inserire movimenti scenici inutili, nel senso che la scena con la loro presenza o meno rimane la stessa. Così l’eleganza, chiaramente percepibile, risulta offuscata e il messaggio diventa meno chiaro.

Notevole la proposta registica di Barbablù (che curiosamente viene chiamato «principe», quando «herceg» letteralmente significa «duca»), dove la ricercata semplicità di mezzi si fonde con la figura scarna che emerge dalla partitura di Bartók: due soli cantanti, un bardo che recita fuori scena il prologo e le tre mogli di Barbablù come personaggi muti, il tutto ambientato nel medesimo luogo, una sala con sette porte chiuse, senza consentirci di vedere altro.

Erath ripropone quanto già visto nella prima ora, quindi quasi le medesime proiezioni e la grande gabbia/impalcatura, questa volta collocate in uno spazio completamente vuoto se si eccettua un tavolino con due sedie e tanto basta per evocare l’unica opera di Bartók in tutta la sua potenza, con le sue inquietudini che non lasciano indifferenti e le sue ambiguità. Molto apprezzabile da parte del regista proprio il rispetto di queste ambiguità che schiudono le porte a tutta una serie di analisi di carattere psicoanalitico, con forse la singola eccezione di Judith che in questo caso viene connotata con tratti violenti. In effetti la voce femminile del Barbablù è così equivoco che sin dalle prime interpretazioni ci si è interrogati su quale sia la sua valenza, se positiva o negativa, senza mai giungere a una risposta veramente convincente che non sia quella di considerare entrambi i parametri in egual misura, vedendola come l’azione anche violenta che consente di giungere alla consapevolezza (e questo apre le porte a possibili interpretazioni come le tre istanze intrapsichiche di Io, Super-Io ed Es, ricordando che significativamente Bartók segnala il castello stesso come terzo protagonista).

Gli eccessi del Tabarro vengono eliminati e finalmente si può apprezzare la compiuta ideazione scenica senza elementi superflui, se non per una scelta che appare per lo meno opinabilissima: quando anche l’ultima barriera di Barbablù viene infranta e – gesto chiarissimo e visivamente meraviglioso – crolla un’intera parete del fondale, appare una ballerina frivola e saltellante. Un risultato involontariamente comico e insoddisfacente, la proverbiale montagna che partorisce un topolino, quando sarebbe bastato mostrare da subito le tre mogli chiuse oltre la settima porta. Less is more.

L’esecuzione da parte dell’orchestra e il cast del Tabarro lasciavano abbastanza a desiderare. La prima poco accurata, peraltro con sfasamenti e cali di intonazione un po’ troppo evidenti nella prima parte, il secondo molto freddo nell’insieme. Puliti gli interventi del coro che però non colpiscono in modo particolare. Funzionale tutto il sottobosco dei personaggi di contorno, da Masami Tsukamoto (voce di sopranino) alla Midinette (Monica Arcangeli, Nicoletta Celati, Francesca Scarfi, Taisiia Gureva, Sara Guidi, Federica Nardi), passando per i due amanti (Francesca Mannino e Marco Montagna) fino a Gianmarco Latini Masini (Venditore di canzonette). Si fa apprezzare la prova di Loriana Castellano, una Frugola che punta molto sui tratti brillanti del personaggio, e sono senz’altro convincenti anche quelle di Francesco Auriemma (Il Talpa) e di Enrico Casari (Il Tinca); individualmente ognuno ha fatto bene la propria parte ma quel che manca è la coesione, l’amalgama.

Il Luigi di Azer Zada può contare su un buon timbro, bene appoggiati i centri, più incerta la zona acuta, ma quando si dovrebbe scaldare e dare fondo alle possibilità estreme della voce in corrispondenza del duetto con Giorgetta («Folle di gelosia» che reca l’indicazione «con grande intensità») non riesce a sostenere il peso della scena. Se si unisce questo a una recitazione tutt’altro che accalorata, il risultato complessivo non è buonissimo.

Meglio la Giorgetta di Monica Zanettin che riesce a mostrare qualche sfaccettatura, come l’atteggiamento frivolo che viene spento dalla freddezza indirizzata verso Michele e le (finte) remore verso Luigi, con cui si vorrebbe però un minimo di pathos se non di vera passione. Bene l’esecuzione, al netto di qualche trascurabile imprecisione, curato il fraseggio e intelligente l’utilizzo dei colori, abbastanza da far pensare che forse il ruolo le è poco adatto e si vorrebbe ascoltarla in altre vesti.

Questo è stato il problema principale con il cast: il tutto si è presentato slegato, con poco affiatamento anche dove è necessario averne (ad esempio le coppie, clandestine o meno) e le pur buone interpretazioni sono risultate inevitabilmente sottotono. Questo vale per la generalità dei solisti. E poi c’è lui, Lucio Gallo. Lui e il suo Michele si distanziano nettamente da tutti gli altri e finalmente si ha un’interpretazione sentita, sanguigna, dove la prestazione vocale equivale a quella attoriale con delle vette ragguardevoli, una su tutte l’acme del grande duetto con Giorgetta da «Perché chiudi il tuo cuore?» a «La notte è bella!». Lucio Gallo ha dimostrato di essere di un’altra, solidissima categoria.

Superiore la resa del Castello di Barbablù dove l’intero titolo gravava sulle sole spalle Johannes Martin Kränzle e Szilvia Vörös, due interpreti di altissima levatura che hanno saputo in prima istanza proporre al pubblico una partitura così impegnativa con la massima naturalezza. Entrambi hanno mostrato i medesimi punti di forza, ricorrendo a una recitazione misurata ma che mai difettasse di qualcosa, anzi, l’aver saputo mettere in scena un legame evidente tra i loro personaggi ricorrendo solo ai tratti essenziali costituisce una pregevolezza. Volendo cercare per forza l’imperfezione, Kränzle possiede un timbro leggermente più chiaro di quello che si vorrebbe per il Duca Barbablù, ma la scrupolosità del fraseggio, la solidità dell’intonazione e l’eccellente recitazione non possono che far abbandonare all’istante qualsiasi – inappropriato, in questo caso – snobismo, soprattutto se si tiene conto che il baritono affronta il ruolo a 61 anni e senza mostrare la minima fatica per l’intera durata di un’opera tutt’altro che leggera.

Del medesimo lignaggio Szilvia Vörös che regala a sua volta una preformance eccellente. Dotata di uno strumento vocale generoso che mantiene rotondità anche nel registro acuto (un esempio per tutti, l’apertura della quinta porta), Vörös si segnala per il bellissimo controllo nel piano, a cui Bartók fa pure ampio ricorso in relazione al ruolo di Judith. Molto interessante la metamorfosi che il soprano fa compiere al proprio personaggio nel corso dei sessanta minuti del Castello di Barbablù, da figura caratterialmente smunta a personalità dominante che prende sempre più il sopravvento su Barbablù stesso, fino all’enigmatico finale. La sua Judith brilla per lo spessore psicologico che le viene infuso così come per l’esecuzione musicale di altissimo livello.

Bartók compie un’autentica trasfigurazione dell’Orchestra del Festival Puccini, che in questo caso si tramuta in uno strumento affilato e di elevata precisione, magnifica nei grandi pieni orchestrali (il corale degli ottoni è godibile sotto tanti punti di vista) ed entusiasmante nelle sottigliezze come l’apparizione del lago delle lacrime o il sensuale solo di corno della quarta porta, il giardino segreto.

Su entrambi i titoli si apprezza il bel lavoro del direttore Michele Gamba, che nel caso del Tabarro investe molto sulle preziosità timbriche e coloristiche della partitura (ben sottolineati i profumi dell’impressionismo francese che ogni tanto si levano dall’orchestra), ma in generale sembra un po’ soffrire della situazione en plain air e probabilmente avrebbe avuto una resa migliore al chiuso. Superlativa la lettura del Castello di Barbablù, dove si è constatata anche una migliore comunicazione tra podio e buca, dove si sono preservati i tratti aguzzi della scrittura di Bartók ma senza trasformarli in caricatura, conferendo il giusto peso a ogni motivo, ogni gesto, ogni nota, senza risparmiare sui colori e soprattutto sempre in sintonia con quella che è la drammaturgia.

In conclusione, nonostante le perplessità sul Tabarro, si può parlare di una buona serata e il primo pannello del «trittico ricomposto» risulta valido ma il risultato migliore è stato l’ottima affluenza di pubblico, tutt’altro che scontata se si considera che per una sera sul lago di Massaciuccoli non è andato in scena il Puccini popolare, per di più affiancato da un titolo che esula abbastanza (purtroppo) dalle programmazioni consuete. L’aver registrato così tante presenze in una circostanza simile è senza alcun dubbio un indicatore positivo di cui si può essere contenti.


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