Come diventare un buon re
Al Teatro Nazionale va in scena Il re pastore di Wolfgang Amadeus Mozart, serenata in due atti (K 208), di cui ricorrono i duecentocinquanta anni dalla première. La direzione è affidata a Manlio Benzi, la regia è di Cecilia Ligorio. Juan Francisco Gatell canta Alessandro, Miriam Albano Aminta, Francesca Pia Vitale la ninfa Elisa, Benedetta Torre Tamiri e Krystian Adam è Agenore.
ROMA, 16 maggio 2025 – Pensata per essere una serenata celebrativa in omaggio all’arciduca Massimiliano d’Asburgo da parte del patrono del compositore, il principe-arcivescovo Colloredo, Il re pastore di Mozart ha avuto una sola precedente rappresentazione al Costanzi, nell’ottobre del 1988. Il suo ritorno, questa volta nel più piccolo Teatro Nazionale, non può che essere gradito ed aggiungere un tassello importante alla ricca offerta musicale della corrente stagione del Teatro dell’Opera di Roma. La scelta del Nazionale, peraltro, è quantomai azzeccata per un’opera certamente contenuta per quanto riguarda maestranze e complessi strumentali, ma non certo nell’architettura musicale, un fulgido esempio di testo metastasiano nell’ordinata successione di arie, recitativi, un duetto e il finale.
La direzione è affidata a Manlio Benzi, che fa un buon lavoro, soprattutto su un volume sonoro che permetta alle voci di emergere chiare e tonde; la concertazione, dunque, è onesta e ben tornita, grazie anche alle maestranze del maggior teatro capitolino. La regia, affidata a Cecilia Ligorio, permette l’intelligibilità dell’opera e si basa su un contrasto di fondo fra atmosfere arcadiche e un mondo militarizzato, ma atemporale, come afferma lei stessa, nell’intervista presente nel programma di sala, parlando a proposito dei costumi dei soldati: «s’ispirano a forme contemporanee, però non di tradizione. In tutto l’allestimento c’è essenzialità e non quotidianità». La regia si apre su un tableau vivant, che ritrae una ricerca all’uomo da parte delle forze di Alessandro Magno: il mondo di Aminta, il re pastore, è incasellato in un quadro da museo, che Alessandro e Agenore osservano. Il leitmotiv del quadro riapparirà frequentemente, sempre legato all’arcadico universo di Aminta. La Ligorio fa un buon lavoro anche sui cambi scenici, come nel finale del I atto, quando l’albero che troneggia al centro della scena, simbolo del mondo pastorale del protagonista, viene portato sul fondo, per lasciare spazio alla tenda di Alessandro, concepita con elementi neoclassici accostati ad equipaggiamenti militari contemporanei, con effetto quasi di straniamento. Se c’è un momento veramente indimenticabile è l’apparizione di Elisa, attraverso il velatino sul fondo della scena, mentre Aminta pensa intensamente a lei, angosciato per il ruolo di monarca (II atto): la ninfa appare sfocata, un ricordo lontano, e l’effetto è assicurato. Le scene, la cui fattura è complessivamente buona, sebbene si possa far meglio, soprattutto nel secondo atto, sono ad opera di Gregorio Zurla; i costumi a firma di Vera Pierantoni Giua.
Il cast vocale presenta tutti specialisti del repertorio mozartiano. Il ruolo del monarca illuminato, simbolo del potere imperiale, Alessandro re di Macedonia, è interpretato da Juan Francisco Gatell. La sua voce ha perso lo squillo di un tempo, che diversi anni fa gli spettatori romani hanno potuto saggiare in più di un’occasione, ma guadagna nel centro. Il suo è un saggio Alessandro, che fa tutto abbastanza bene in scena: l’aria «Si spande al sole in faccia», che percorre l’intera tessitura e presenta fioriture e variazioni, è un buon esempio della sua intera performance. Si nota anche un irrobustimento della voce di Gatell nel centro: per esempio alcuni passaggi nell’aria «Se vincendo vi rendo felici» lo testimoniano. Aminta è sostenuto da Miriam Albano, che affronta un ruolo originariamente scritto per un castrato, Tommaso Consoli. La parte, che verticalizza volentieri, a testimonianza della tessitura da sopranista di Consoli, è ricchissima in fatto di coloratura: la Albano, che sta evidentemente virando dalla vocalità di mezzosoprano a quella di soprano lirico di coloratura, la affronta cercando di schiarire il nucleo brunito del suo timbro. La prima aria («Intendo amico rio») risulta, in effetti, un po’ sottotono; ma già nel duetto con Elisa («Vanne a regnar, ben mio») si riprende. La sua serata, quindi, continua in crescendo, e la seconda aria («L’amerò, sarò costante») risulta, decisamente, il momento migliore. Proprio in virtù del suo percorso di evoluzione vocale, è perfettamente comprensibile che non vi sia perfetta uniformità di registro, ma la sua personalità scenica è magnetica, tanto da meritarle un sonoro applauso al termine della recita. Francesca Pia Vitale canta un’eccellente Elisa: dotata di un timbro argentino, con un nucleo assai penetrante, energicamente vibrato, la Vitale vanta un mezzo in grado di essere parecchio espressivo. Oltre all’eccellente duetto a conclusione del I atto, dove ambedue le interpreti trovano colori piacevolissimi, si ricordi l’aria in apertura del II («Barbaro! Oh dio, mi vedi»), in cui la cantante dona tutta sé stessa, con un risultato eccellente. A livello puramente estetico, la più bella voce in scena è forse quella di Benedetta Torre nel ruolo di Tamiri; un volume contenuto, un canto educatissimo, fanno sì che la sua performance sia sempre elegante, raggiungendo l’apice nell’aria del II («Se tu di me fai dono»), una vera lezione di canto. Infine, Krystian Adam può vantare una voce squillante, solida, soprattutto nei recitativi, in cui profonde tutto lo spirito del personaggio di Agenore; nella sua aria («Sol può dir come si trova»), invece, è lievemente sottotono. A fine recita, il pubblico applaude contento, avendo apprezzato una piacevole serata a teatro.
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