L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La gloria di Alessandro Scarlatti

 di Stefano Ceccarelli

L’Opera di Roma porta in scena la serenata celebrativa La gloria di primavera di Alessandro Scarlatti. La giovane Orchestra dei Conservatori è diretta da Ignazio Maria Schifani; solisti: Jin Jiayu (Primavera), Martina Licari (Estate), Chiara Brunello (Autunno), Luca Cervoni (Inverno) e Antonino Arcilesi (Giove).

ROMA, 28 aprile 2025 – La musica di Alessandro Scarlatti è un patrimonio italiano di inestimabile valore, ma come molta tradizione musicale del XVIII sec. aspetta ancora di essere riscoperta e valorizzata appieno in sala da concerto. Nell’anniversario dei trecento anni dalla morte del compositore palermitano, il Ministero dell’Università e della Ricerca, in collaborazione con il Conservatorio a lui intitolato, fa rivivere una cantata celebrativa di Scarlatti, La gloria di primavera, scritta come omaggio per la nascita dell’arciduca Leopoldo, sfortunato figlio della coppia imperiale Carlo VI e Elisabetta Cristina di Brunswick-Wolfenbüttel, morto a pochi mesi dalla nascita – il che causò l’estinzione della linea dinastica degli Asburgo d’Austria. La gloria di primavera fu proprio eseguita nel maggio 1716, in omaggio all’infante, delfino degli Asburgo. Si tratta, dunque, di una serenata celebrativa, basata su una trama allegorica che lascia trasparire l’omaggio alla famiglia imperiale e che ambisce alla grandeur di un’opera seria.

La direzione è affidata a un esperto di Scarlatti, Ignazio Maria Schifani, il quale è anche il coordinatore dell’Orchestra dei Conservatori, un progetto di alta formazione didattica che dà la possibilità ai migliori allievi italiani di iniziare un’attività lavorativa. La performance dell’orchestra, tutto sommato buona vista la giovane età dei suoi membri (si può migliorare e limare coesione, intonazione e precisione), paradossalmente trova proprio nel direttore, Schifani, il problema centrale. La sua direzione, infatti, è troppo morbida, perde spesso di abbrivio, mordente (per esempio sfibra le ‘altalene’, così tipiche del dettato barocco); ma ha un difetto ancor più grossolano, che la rende quasi una ‘prova generale’: le lunghe pause fra i recitativi e le arie, che spezzano il ritmo musicale, e mortificano la brillantezza della partitura di Scarlatti. Questa direzione, in particolare, è un problema quantomai serio: bisogna rendersi conto che il pubblico va anche educato ad un repertorio che non conosce, affinché questo entri stabilmente nelle sale da concerto; se lo si dirige in maniera poco accorta, poco accattivante, si fa anche un danno d’immagine.

Le voci, cantanti più o meno affermati, fanno il loro lavoro al meglio delle possibilità concesse dai mezzi vocali di cui sono dotati. Jin Jiayu, che interpreta il ruolo della Primavera, la stagione vincitrice e che ha l’onore di ospitare la nascita del delfino del Sacro Romano Impero, possiede una voce minuta, ma dal timbro morbido, caldo; un buon fraseggio ed una ricerca di cromatismi e colori rendono piacevole la sua performance. Nell’aria «Già fermo sull’empia ruota» Jiayu si libra su una linea di canto sicura, aerea, con fioriture ben sgranate. In quanto a squillo, le successive «Solca il mar» e «La tempesta» risultano più centrate; ma il momento migliore è, certamente, l’aria «canta il dolce rosignuolo», dove i gorgheggi dell’interprete svolazzano su una scrittura di Scarlatti che tripudia di bellezze che imitano la natura – mortificata, ancora, da una direzione poco energica. Molto interessante Martina Licari (Estate), dotata di un timbro più brunito di Jiayu e di una vocalità più intensa, come dimostra già la sua prima aria, «Più l’Aquila non teme». Licari si distingue maggiormente nelle successive, «Torno già nel mio sen», con saldo fraseggio e voce brillante, ben legata, ma ancor di più in «Fa’, che Zefiro tra fronde», dove aggiunge sfumature interessanti in dialogo con il flauto obbligato. La stagione Autunno è interpretata da Chiara Brunello, che ha nel registro medio/basso la parte più interessante della sua vocalità, in grado di limpidi passaggi di registro, anche se non esente da qualche ‘ingolamento’. La sua prima aria, «Fuor dell’urna le bell’onde», si lascia apprezzare per la ricerca di colori, ma bisogna attendere «Come l’onda» per uno sfoggio maggiore di coloratura. L’ultima delle stagioni, Inverno, è interpretata da Luca Cervoni; la voce forse più squillante e decisa del quartetto, presenta un fraseggio di un certo gusto, ma ha problemi vistosi nella tenuta e sgranatura delle variazioni – ciò, val bene precisare, durante tutta la serata. Il fastidioso vibrato delle fioriture, infatti, è l’unico neo della sua aria di presentazione, «Col piacer già la pace riposa», che per il resto mostra l’anima da barocchista. Il discorso rimane il medesimo anche per il resto della performance – citerei solo «Su l’orme de grand’Avi», dalle sfumature interessanti. Il giudice di questa mitica contesa ‘stagionale’ è Giove, la cui parte è cantata da Antonino Arcilesi. Basso dal bel timbro, rotondo, con una salda linea vocale (ma con acuti talvolta non coperti perfettamente), ha un facile fraseggio, come si sente in «Voglio perpetua calma»; se impasta un po’ il recitativo precedente, nell’aria «So ben, che amor di gloria» qualche bella nota in legato c’è, come pure in «Dell’Alba, e dell’Aurora», dalla linea energica; però, nel recitativo finale «Scelsi sull’alte sfere» manca proprio in nobiltà di accenti, al netto, appunto, del timbro interessante e, volendo, accattivante. In conclusione, un progetto meritorio la cui realizzazione sarebbe potuta essere migliore sotto differenti punti di vista.

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