La luce che si spegne
Al Teatro Costanzi va in scena un’emozionante Lucrezia Borgia di Gaetano Donizetti. A dirigere è Roberto Abbado, esperto belcantista; la regia, che non nuoce troppo all’opera e piace per più di un quadro, è affidata a Valentina Carrasco. Lidia Fridman canta il ruolo del titolo, Enea Scala è Gennaro, Alex Esposito Alfonso d’Este, mentre Maffio Orsini è interpretato da Daniela Mack. Ottima serata per comprimari, coro ed orchestra.
ROMA, 22 febbraio 2025 – Lucrezia Borgia di Gaetano Donizetti, opera affascinante, quanto mai ispirata musicalmente, ma dalla storia filologica complessa, aveva una blasonata tradizione esecutiva al Teatro Costanzi, che si era però interrotta nel 1980 (Sutherland, Bonynge). Dopo quasi cinquant’anni, eccone riapparire sulle scene, gradita, una nuova produzione. A dirigerla è Roberto Abbado, che fa un ottimo lavoro, mercé anche dello stato di grazia dell’orchestra dell’Opera di Roma.
Abbado è un belcantista di vaglia, molto sensibile rispetto ad opere di questo repertorio, come dimostra l’intelligenza delle risposte che dà nell’intervista acclusa al libretto di sala. Si tratta di un direttore in grado di condurre ad un’agogica espressiva, che valorizza ogni sentimento della partitura, ma anche attento al volume dell’orchestra in rapporto alle voci, come pure dell’equilibrio, appunto, fra buca e palcoscenico. Gli esempi che si possono fare sono molti, ma forse uno è particolarmente indicativo: il concertato che chiude il Prologo, quando i convitati rivelano a Gennaro l’identità dell’affascinante ed ambigua donna con cui stava conversando. Si sarà notata l’abilità di Abbado di aumentare lievemente la tensione orchestrale e ritmica ad ogni intervento, mantenendo un volume contenuto, sul quale le belle voci dei comprimari si sono librate con agilità.
Il cast delle voci è notevole e regala una sicura riuscita alla serata. Lidia Fridman canta nel ruolo del titolo. Non possiede una voce propriamente belcantistica; anzi, il timbro nettamente ambrato, il vibrato deciso, ne fanno un’interprete ‘espressionista’ rispetto al prototipo di una primadonna del belcanto. La potenza vocale c’è, sicuramente, ma qua e là manca la raffinatezza di un fraseggio centrato. Certo, la sua Borgia rimane impressa per una gamma di soluzioni invidiabile, per il ragguardevole registro medio/basso, come pure per l’agilità delle variazioni – non si dimentichi, poi, una sensibile musicalità che le permette di cogliere ogni aspetto del personaggio. Il pubblico se ne rende conto fin dall’esecuzione, intensamente vissuta, della sua romanza: «Com’è bello! Quale incanto». Le sue doti migliori, però, emergono nei tre duetti che le sono affidati, in un crescendo di intensità apprezzatissimo dal pubblico. Alla dolcezza argentina degli accenti del primo duetto con Gennaro si oppongono le frasi irate, violente (specialmente nella cabaletta) di quello con Alfonso. Nel secondo duetto con il tenore è bello il contrasto fra la morbidezza, la dolcezza materna che trascolora verso il disperato dolore di una madre che assiste alla morte, per sua stessa madre, del figlio – qui la tessitura della Fridman ha toccato vette notevoli. La ciliegina sulla torta è uno straziante rondò finale, rallentato opportunamente da Abbado per consentire all’interprete di bere ogni sussulto di dolore nella contemplazione della morte di Gennaro: spedite le variazioni e le verticalizzazioni, breve il sovracuto che tradizionalmente chiude questo pezzo di bravura. La Friedman, certamente, merita gli applausi che le regala il pubblico nel finale. Smagliante Enea Scala nel ruolo di Gennaro: un mezzo vocale squillante, centrato, consente all’interprete di incarnare un personaggio fresco, dolcemente virile, capace di slanci lirici come pure di squilli poderosi. Per far ciò Scala impiega un canto altamente muscolare (se ne percepiscono distintamente le tensioni), vista e considerata l’ingrata, acuta tessitura del ruolo. Anche se, quindi, Gennaro forse non si attaglia perfettamente alle sue doti vocali naturali, il risultato è ottimo. Come non citare la morbidezza, le sfumature volumetriche e cromatiche della barcarola («Di pescatore ignobile»), che costituisce il nucleo cantabile del primo duetto con Lucrezia. La versatilità vocale di Scala, che sa essere intensamente drammatico, è dimostrata dall’esecuzione dell’arioso «Madre se ognor lontano», dove l’interprete verticalizza con pathos gli accenti di dolore, nel duetto finale con la Borgia. Rispetto alla versione ‘di battesimo’ di Lucrezia Borgia, Abbado inserisce per Gennaro non solo il già citato arioso finale, ma anche l’aria di apertura del II atto, che Donizetti compose per De Candia (1840), «Anch’io provai le tenere smanie», eseguita con abbandono lirico, calibrando legati e volumi, il che riscalda la voce a Scala per brillare, pure, nel successivo duetto con Maffio, dove, agli accenti chiaroscurali del cantabile, che attestano il gusto dell’interprete per il fraseggio, segue l’irresistibile cabaletta, un pezzo di bravura, dal sapore rossiniano, che mostra lo squillo vocale dei due interpreti. Anche per Scala la serata non può che dirsi un successo, suggellato dagli applausi del pubblico. Alex Esposito canta un Alfonso d’Este vocalmente florido, dal piglio appassionato, rivitalizzando, in chiave mefistofelica, direi, un ruolo tradizionalmente più statuario. Devo dire che, in tal senso, la regia aiuta non poco: Esposito, cantante molto teatrale, impiega tutta la sua fisicità in un momento di slancio come la cabaletta della sua aria («Qualunque sia l’evento»), dove una linea vocale uniforme, potente, agilissima, gli permette di fare quello che vuole e di strappare un sonoro applauso al pubblico. Nell’atto I Esposito si distingue per ferinità di accenti nel fraseggio, come pure per un intenso duetto con Lucrezia, che sfocia nella pura fisicità (non solo vocale): i due interpreti passano da una tossica seduzione ad accapigliarsi a terra, sfoderando le loro note migliori. Esposito, animale teatrale, si riprende poi per un ambiguo terzetto con Gennaro («Guai se ti sfugge un moto»), conquistandosi la serata ed il pubblico. Nel quartetto dei ruoli principali della Lucrezia Borgia, il Maffio Orsini di Daniela Mack è lievemente sottotono, su un piano musicale più che scenico. La sua vocalità, non particolarmente prorompente, si esprime in una linea di canto calda e vibrata, ma poco potente, come si vede già nella sua cavatina («Nella fatal di Rimini»). Il duetto con il tenore riesce in fin dei conti bene, ma il suo pezzo forte, la ballata «Il segreto per esser felici», si lascia apprezzare soprattutto per alcuni isolati slanci acuti. Ottimi, azzeccati nelle loro parti, tutti i comprimari, il che concorre alla resa della serata: Raffaele Feo (Jeppo Liverotto), Arturo Espinosa (Don Apostolo Gazella), Alessio Verna (Ascanio Petrucci), Edoardo Niave (Oloferno Vitellozzo), Rocco Cavalluzzi (Astolfo), Roberto Accurso (Gubetta) e Enrico Casari (Rustighello). Questi ultimi due, i servi di Alfonso e Lucrezia, si lasciano particolarmente apprezzare nelle scene con il coro maschile, il quale riesce assai bene nelle concitate scene in cui è impiegato, giocando con gli effetti chiaroscurali dei volumi e dei timbri maschili («Non far motto: parti, sgombra»).
La regia di Valentina Carrasco, proveniente dalle atmosfere sperimentali della Fura dels Baus, non è di quelle che rimane impressa. Il lavoro sulla storia e sui personaggi c’è, con una forte fascinazione sul personaggio di Lucrezia come icona femminista, come seduttrice talmente affascinante da sfiorare l’incesto. Tali scelte, comunque, non inficiano l’intelligibilità del libretto; eppure, le soluzioni adottate lasciano talvolta a desiderare. In particolare, sono le scene di esterno a lasciare delusi (scenografia di Carles Berga): la piazza di Ferrara del I atto, come pure il cortile esterno dell’atto II, sono risolte con un sipario luccicante, da cabaret, che consente giochi di trasparenze con il retroscena. Più interessanti le scene d’interno, quelle festive che aprono e chiudono l’opera, come pure la sala di palazzo estense a Ferrara, in cui si svolge gran parte del I atto. L’idea visiva della Carrasco è quella della maschera, onnipresente, la quale incarna l’ambiguità e l’inganno in cui si muovono tutti i personaggi della Borgia. Essa troneggia in alto nelle scene di apertura e chiusura; si trova come ‘impalata’ sul fondo della scena (I atto); viene indossata (il che è una delle trovate più interessanti) dal coro e da figuranti, sia davanti che dietro la testa, a creare personificazioni di notturni incubi bifronti, che compaiono regolarmente – gli stessi figuranti che escono, sinistramente, fuori dal letto in cui Lucrezia partorisce Gennaro all’inizio dell’opera. Un bambino, infatti, sarà presente in diverse scene a testimoniare che «la difformità morale» della protagonista viene «purificata dalla maternità» (parole del librettista Felice Romani, nell’avvertimento premesso al libretto). I colori preponderanti sono il nero e l’oro (il che non è certo originale nelle rese sceniche di quest'opera), il primo risolto usando la tipica plastica da immondizia, a ricordare quanto di marcio v’è nel mondo della Borgia. In conclusione, se la scena veneziana d’apertura si può apprezzare per l’uso del tulle rosso che sembra inghiottire l’intera sala, l’interno di palazzo d’Este per la gigantesca riproduzione del Presunto ritratto di Lucrezia Borgia di Bartolomeo Veneto, la scena più convincente è il convito a casa della Negroni, che chiude l’opera. Ariosi drappi d’oro ricoprono una tavola imbandita, fino a che non vengono rimossi, repentinamente, all’arrivo di Lucrezia, svelando il nero che caratterizza iconicamente la protagonista. Un coup de théâtre di sicuro effetto.
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