Realtà in trasparenza
Felicissimo esito per un Giulio Cesare di Händel ben al di sopra delle aspettative
LUCCA 21 febbraio 2025 – Nelle parole del direttore artistico Cataldo Russo, che ha fortemente voluto questo titolo, «il barocco è terapeutico». Forse lo pensa anche il pubblico accorso per la prima e che domenica ha portato il Giulio Cesare händeliano vicino a registrare il tutto esaurito: non si tratta assolutamente di una rarità, ma si può ben affermare che in una situazione di provincia sia opera tutt’altro che domestica, quindi c’è davvero di che essere soddisfatti per l’afflusso di spettatori.
L’allestimento è quello, applauditissimo, del Teatro Alighieri di Ravenna in coproduzione con Piacenza, Modena, Trento e Bolzano, Reggio Emilia e – per l’appunto – Lucca, con Chiara Muti a firmare la regia. Non è mai semplice approcciare il teatro barocco, per di più nella sua esperienza britannica, ma Muti è riuscita a tracciare un’idea sia drammaturgica sia visiva molto precisa e a trasportarla efficacemente sul palcoscenico: con l’apporto fondamentale dei costumi di Tommaso Lagattolla e delle scene di Alessandro Camera (efficacemente completate dalle luci di Vincent Longuemare) si evoca quella sospensione cronologica e spaziale che è connaturata nel genoma del barocco. In questa ideazione scenica antichità e modernità si compenetrano continuamente, causando la completa perdita dell’orientamento temporale e così facendo si instaura un’evasione dal mondo reale in favore di un clima irreale, teatrale nel più puro senso del termine, intendendo cioè quella realtà in trasparenza che consente di percepire tanto l’insieme quanto le distinte stratificazioni che lo compongono (inclusa la finzione, con morti che, non appena si spengono le luci sul palco, si alzano e tornano a cantare nel coro finale).
Muti interviene con mano ferma su un libretto che, per quanto possa essere preciso sul colore drammaturgico delle scene, concede una grandissima libertà d’azione per quel che concerne i raccordi e più in generale la lettura; ad esempio, viene creata tutta una serie di momenti tra il buffo e il grottesco che alleggeriscono in modo significativo la recita, un’operazione che ricalca da vicino una delle caratteristiche dell’opera barocca, ossia la presenza di tragedia e commedia (o almeno di serio e faceto) nel medesimo titolo. Come detto, inoltre, viene anche una lettura particolare e si assesta su più livelli. Il primo di questi – per quanto scontato è importante ribadirlo – è quello del Giulio Cesare di Händel/Haym, riportato esattamente così com’è, eccettuando alcuni tagli di cui, a onor del vero, non si soffre; il secondo livello è uno sviluppo dei personaggi mai in contrasto con quel che si può evincere dal testo ma in modo specifico. Se Cornelia e Sesto devono per forza di cose restare legati all’aura del personaggio patetico, si trovano delle prime, interessanti sfumatura in Achilla, per approdare a un Cesare davvero complesso nella caratterizzazione ma soprattutto a Tolomeo, che senza dubbio ha subito l’elaborazione più importante: divenuto quasi un personaggio di mezzo carattere, è il protagonista della maggior parte dei momenti leggeri ma allo stesso tempo conserva una fondamentale crudeltà, configurando una sorta di personalità borderline. Esiste anche un terzo livello e forse è quello in cui Chiara Muti ha trovato alcune delle soluzioni più eleganti, trovando il modo di ricondurre a Shakespeare un Giulio Cesare che non condivide nulla con quello del bardo se non il titolo: le tre Parche mostrate all’alzata del sipario sono sinonimo del Destino così come lo sono le tre streghe di Macbeth (e in effetti, sia le prime sia le seconde non svolgono mai ruolo attivo, limitandosi a esporre ai mortali le loro profezie), la testa mozzata di Pompeo si trasforma presto nel teschio di Yorick creando una sovrapposizione di Sesto/Amleto, a cui compare pure l’ombra del padre, fino al richiamo alle fate di Sogno di una notte di mezza estate con tanto di testa d’asino. Questo conduce dritti al quarto ed ultimo livello, essenziale per comprendere il perché di tutta questa stratificazione; con la ricomparsa in scena di chi era stato passato a fil di spada, con un risveglio collettivo dei personaggi che sa di agnizione intesa come improvvisa consapevolezza della realtà, con il totale disvelamento della finzione e con il coro «Ritorni omai nel nostro core» eseguito come bis dopo gli applausi del pubblico si capisce che l’intera opera è un grande, appassionato canto d’amore per il teatro.
Michelangiolesco Ottavio Dantone come direttore al cembalo. Attentissimo alla fluidità del fraseggio orchestrale così come al far emergere i singoli strumenti attraverso l’impasto timbrico, Dantone forgia una lettura appassionata, con un piglio sanguigno che va ben oltre il celebre «Empio, dirò, tu sei» e fornisce alla partitura esattamente quello di cui ha bisogno quando lo richiede, peraltro con un bellissimo senso del respiro. Tutto segue la più rigorosa filologia, tutto è in stile, ma Dantone ci ricorda quanto possa essere viscerale un’esecuzione storicamente informata. L’Accademia Bizantina risponde a questa direzione in modo superbo, anzi, si divertono pure! Ecco che gli archi assumono un profilo affilato, nervoso, e due numeri dopo si uniformano in una trama sonora dalla disarmante morbidezza, con i fiati sempre ben udibili a fornire via via un apporto coloristico capace di caratterizzare molti numeri musicali. Un plauso speciale lo merita senz’altro quell’adorabile bisticcio tra Raffaele Pe, la spalla e il flautino (al secolo Alessandro Tampieri e Gregorio Carraro) nell’arcadico «Se in fiorito ameno prato».
Eccellente a partire dai bravi Clemente Antonio Daliotti (Curio), curato nella recitazione quanto chiaro nell’articolazione della linea vocale, e Andrea Gavagnin (Nireno), davvero bene in parte. Notevole la prova di Davide Giangregorio che presta ad Achilla la sua voce di basso brunita e dalla generosa emissione, a cui si unisce una recitazione misurata ed efficace.
La Cornelia di Delphine Galou si segnala per lo spessore morale e l’intensità raggiunta con apparente semplicità di mezzi: lo strumento in sé non sarà eccezionale, ma Galou possiede una capacità interpretativa di rara raffinatezza che la porta a firmare uno dei momenti più memorabili della serata, il duetto con Sesto alla fine del primo atto.
Filippo Mineccia raggiunge il suo miglior risultato tratteggiando un Tolomeo che amiamo odiare: istrionico, malvagio, forse persino sadico, eppure allo stesso tempo riesce a essere divertente in quegli spazi in cui è necessario che lo sia.
Maiuscolo il Sesto di Federico Fiorio, dotato di un timbro chiaro e di un’ottima proiezione, nonché di una bella uniformità su tutta la gamma. Tanto nelle arie e nel duetto quanto nei recitativi, Fiorio riesce a equilibrare la componente vocale e attoriale; nella sua interpretazione il fraseggio nitido si accompagna a un gesto scenico spesso marcato, l’intensità cede il passo alle molte fragilità ritratte con così grande perizia, tanto da raggiungere esiti sommi nei momenti più patetici e meditativi.
Raffaele Pe è più che a suo agio nel ruolo del titolo con un’intenzione e una disposizione d’animo che spostano il baricentro di Cesare da mitico condottiero a figura più complessa. Le colorature potrebbero essere più precise ma, pur valutando il cambio di rotta, soprattutto nel primo atto un Giulio Cesare più eroico avrebbe acquisito un peso maggiore; privilegiando in particolare gli aspetti introspettivi si ottengono sviluppi interessanti nel secondo atto (come già accennato), ma soprattutto nel terzo con una «Aure deh per pietà» finemente cesellata.
Sugli scudi Marie Lys che qui interpreta una Cleopatra in stato di grazia, dimostrando tutta la sua spiccata intelligenza musicale: il pregevolissimo strumento vocale, adamantino nel colore, brilla nelle ripide colorature che non solo Lys doma con la massima naturalezza, ma rende con molto gusto. Il successo non è mai dell’aria ma dell’intero ruolo, tuttavia è innegabile che – per l’altissimo livello dimostrato – in questo caso meritino un’attenzione speciale le due grandi arie del terzo atto, «Piangerò la sorte mia», in cui il soprano ha avuto la possibilità di effettuare una generosa escursione in una tinta maggiormente introspettiva spezzata da quel tempestoso inciso, e nel pirotecnico «Da tempeste il legno infranto».
I lunghi applausi del pubblico più che entusiasta concludono degnamente una serata che può ben definirsi memorabile. Nel piccolo, è senz’ombra di dubbio la cosa migliore che chi scrive abbia mai visto al Teatro del Giglio.
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