L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Non la solita Bohème

di Luca Fialdini

La stagione lirica 2023 del Teatro del Giglio di Lucca si apre nel segno del centenario pucciniano con un’applaudita regia della Bohème di Cristina Mazzavillani Muti.

LUCCA 20 ottobre 2023 – Il cartellone lirico 2023/2024 del Teatro del Giglio comprende una significativa presenza pucciniana, in linea con l’imminente centenario della morte del compositore, e propone un’apertura di stagione di livello con una Bohème firmata da Cristina Mazzavillani Muti, quella del Ravenna Festival del 2015 ma riallestita dal Teatro Alighieri nel 2023 in coproduzione con il Giglio di Lucca, il Galli di Rimini, il Comunale di Ferrara e il Verdi di Pisa.

L’allestimento di per sé è il primo elemento d’interesse che, oltre alla consueta eleganza dei lavori della signora Muti (e qualche tratto che può riecheggiare l’Otello del 2019), porta con sé diverse riflessioni tutt’altro che scontate. Il ricorso insistente al nero e al buio sin dalla prima alzata di sipario chiarisce che l’intenzione è quella di non offrire la solita Bohéme; non si parli però di provocazione perché è evidente quale sia lo scopo della regista: allontanarsi dall’usato per focalizzare l’attenzione su aspetti specifici dell’opera. L’ideazione scenica di Cristina Muti – che si avvale del light design di Vincent Longuemare, del visual design di David Loom e del video programmer Davide Broccoli – astrae l’azione dal mondo reale e la immerge in una sospensione più da realismo magico che onirica, visione che in effetti si lega bene alla natura stessa di un titolo fortemente antiverista. In questo senso acquistano un particolare valore gli effetti visivi e le proiezioni, così come i supporti mobili sui cui vengono effettuate le stesse proiezioni che vengono spostati anche a vista, il cui uso discreto e disinvolto ricorda per certi versi il teatro delle marionette. Oltre a questo viene proposta una drammaturgia visiva che segue di pari passo l’avvitarsi della vicenda attorno alla sua fatale conclusione: si sfrutta la struttura della drammaturgia (quattro quadri non consequenziali, con parziale eccezione dei primi due, tenuti insieme solo dalla cornice e dagli sforzi di Illica per garantire coerenza al tutto) per apportare continui mutamenti alla scena che ribadiscono ogni momento l’ineluttabile cammino verso la tragedia, come l’infinito nero del terzo quadro interrotto solo dal puntinismo dei fiocchi di neve (due modi diversi e sovrapponibili di evocare la morte), il braciere della soffitta che nel quarto quadro si tramuta in un altare/letto di morte per Mimì, i costumi di Manuela Monti che da dettagliatissima riproposizione del medio Ottocento divengono via via sempre più moderni ed essenziali e nell’ultimo quadro prefigurano la suggestione di una veglia funebre. Anche il ballo dei quattro bohémien assume un significato molto diverso, perdendo la sua cameratesca frivolezza in favore di quella che potrebbe essere quasi definita una Totentanz, dato che preparano la scena per l’epilogo della sartina con tanto di spargimento di fiori

Questi elementi vengono presentati in modo molto equilibrato e come risultato finale non portano ad alterare l’opera nel suo messaggio o a privarla dei suoi tratti caratteristici, piuttosto a evidenziare con efficace semplicità le sue linee di forza, i meccanismi che la animano: se l’obiettivo era quello di spogliarla di tutto quello che non è necessario per far emergere la drammaturgia di Puccini, allora il risultato è raggiunto.

Come di consueto, l’orchestra è la Giovanile Luigi Cherubini diretta da Nicola Paszkowski e l’esecuzione è come da aspettative. Certo, occasionalmente ci sono qualche “oscillazione” e qualche scollamento, ma si ammirano il bel lavoro sui colori e sulle timbrature, la generosità della sezione degli ottoni, l’efficacia del comparto percussioni nei non troppo ampi spazi che la partitura riserva loro; l’unico neo che si può evidenziare è il fatto che episodicamente si sia suonato un po’ troppo forte in uno spazio come il Giglio che restituisce molto di quel che avviene in buca, arrivando ad appannare un po’ le voci. Paszkowski sceglie tempi giusti tanto per la scena quanto per il canto, con una particolare attenzione all’elastico pucciniano, così che l’interpretazione (vocale e non) risulta molto naturale. Molto bene il Coro del Teatro Municipale di Piacenza preparato da Corrado Casati e il Coro di Voci Bianche del Teatro del Giglio e della Cappella Santa Cecilia di Lucca ben preparato dal giovane Lorenzo Corsaro. Non ultima, buona la Filarmonica Giacomo Puccini di Nozzano diretta da Nicola D’Arrigo intervenuta durante la Ritirata del secondo atto.

Il cast si presenta abbastanza ben amalgamato e funzionale, ma con alcune differenze qualitative importanti. Una menzione a parte la merita Parpignol, eccezionalmente reso personaggio muto e si avvale della maschera di Ivan Merlo, capace di imprimere al personaggio una inusuale memorabilità. Ben centrati i comprimari Graziano Dallavalle (Alcindoro, Sergente dei doganieri) e Fabio Baruzzi (Benoît), divertenti ma non macchiettistici. Luca Dall’Amico è un valido Colline, capace di coniugare i tratti ironicamente ampollosi del personaggio con le sottili venature patetiche, elementi che si intrecciano in un’apprezzata “Vecchia zimarra”; convincente lo Schaunard di Clemente Antonio Daliotti che si fa notare per la recitazione pulita e vivace, alla quale abbina un canto intelligente, molto attento alla chiarezza della dizione.

Alessandro Scotto di Luzio si dimostra piuttosto freddo nel corso dell’opera e l’unico momento in cui si abbandona finalmente a un po’ di emozione sono gli ultimi quattro versi affidati al suo Rodolfo. Lo strumento vocale non si presenta con un timbro tra i più interessanti e ci sono alcune fragilità che si vorrebbe non fossero così evidenti, come una certa difficoltà nel registro acuto, ma ancora non ci si lamenterebbe troppo se per lo meno la recitazione non fosse così sterile; il personaggio risulta così poco interessante e (difficile crederlo) per lo più bidimensionale.

Meglio la Mimì di Vittoria Magnarello, dotata di un timbro molto particolare, dal colore chiaro e omogeneo, piuttosto morbido lungo tutta l’estensione. Il risultato finale si apprezza, in particolare la resa nel terzo e quarto quadro, mentre in quelli iniziali sono emerse alcune acerbità relative alla caratterizzazione del personaggio che possono essere sintetizzate così: l’unico problema di questa Mimì è che non attira l’attenzione. È tutto molto corretto – dalla dizione, al canto, alla recitazione – ma non si sente il fuoco, il che è un peccato perché la base è buona e alla fine la performance è comunque positiva, ma si avverte la mancanza di personalità.

Alessio Arduini, che qui veste i panni di Marcello, si segnala per un’ottima interpretazione in cui il cantante e l’attore si equivalgono senza se e senza ma. La notevole pulizia vocale è contrappuntata da una recitazione in cui anche un solo sguardo riesce a fare la differenza; dotato di un timbro rotondo e dal colore piuttosto bello, Arduini dopo il bel risultato incassato con Schaunard alla Scala dimostra di avere la stoffa di un Marcello di rilievo, a lui va senza dubbio la palma da condividere con l’altrettanto riuscita Musetta di Alessia Pintossi. Da parte sua il soprano dispone di uno strumento importante e ha dimostrato un controllo impeccabile, garantendo una perfetta tenuta dell’emissione e dell’intonazione e proponendo un fraseggio molto accurato; è stato fatto anche uno scavo importante nella caratterizzazione del personaggio, ben definita e non eccessiva, abbastanza riuscita da catturare l’attenzione del pubblico ad ogni ingresso.

Il sipario si chiude tra molti applausi al termine di una riuscitissima apertura di stagione, con la speranza che il resto del cartellone riproponga la medesima qualità.


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