Gioconda può attendere
Non convince, nonostante il successo di pubblico, il ritorno dell'opera di Ponchielli a Cagliari dopo sessantanove anni: luci e ombre nel cast devono scontrarsi con una concertazione greve e incline a tagli scriteriati, oltre che con un allestimento scenico poco interessante.
CAGLIARI, 16 febbraio 2025 - Centoventicinque anni dalla nascita di Kurt Weill. Oppure, tre secoli dalla morte di Alessandro Scarlatti. Per una Fondazione lirica, le occasioni, i pretesti per inserire in stagione qualcosa che esca fuori dal battuto sentiero del 'solito' repertorio non mancano. Cagliari sceglie La Gioconda di Ponchielli, perché sono sessantanove anni che non la si esegue nel capoluogo cagliaritano. L'ultima volta fu, infatti, per due recite nell'agosto del 1956; il Lirico (come costruzione) era molto al di là da venire, ancora si eseguivano opere all'aperto all'Anfiteatro romano. A scorrere i nomi del cast (ad esclusione di Aldo Protti e Miriam Pirazzini) sorge spontanea una domanda; chi si ricorda ancora di Carmen Lucchetti (Gioconda), Antonio Galliè (Enzo), Fabio Giongo (Alvise)? E chi, tra altri sessantanove anni, ricorderà il cast di 'questa' Gioconda, per molti versi già dimenticabile da subito?
Cominciamo dalla direzione, a dir poco raffazzonata, di Fabio Mastrangelo. Al suo debutto nell'opera di Ponchielli, effettua tagli scriteriati, come quello nel duetto fra la protagonista e Laura, oppure la scandalosa sparizione delle voci bianche dei mozzi, ad apertura del secondo atto. La sua è una direzione avara di sottigliezze, ricca di volume. Tanto. Troppo. Financo prepotente nell'eccesso (si pensi alla chiusa, bandistica e tronfia, della Danza delle ore). Nei pezzi d'assieme (si veda il grandioso concertato del terzo atto), le voci dei solisti devono attraversare un compiaciuto muro di suono che non rispetta i bisogni e le esigenze del palcoscenico, con ottoni spinti al fracasso, quasi non bastassero già le indicazioni in partitura di Ponchielli.
Per carità, mi si potrà obiettare con il solito”il pubblico ha sempre ragione”. Perché il pubblico ha riempito con partecipazione le otto recite (questa recensione si riferisce all'ultima), ha accolto festosamente la messa in scena, i cantanti, la direzione: ma questo a Cagliari a me pare oramai cosa nota e scontata. Occorre ricominciare a comprendere che con le sole note non si fa teatro: è stato uno spettacolo frustrante per lo spettatore avvertito.
Metti la protagonista (Veronika Dzhioeva): bordate di suono, acuti corposi, qualche grave scolorito. È l'interpretazione a essere generica, priva di qualsivoglia screziatura drammatica. Non basta non cantar male, se non si ha alcuna caratura d'interprete, in un'opera, peraltro, in cui la protagonista è quasi sempre presente. Gioconda possiede la gelosia, l'amore filiale, l'altalenare emotivo tra i suoi contrastanti sentimenti. Non c'è tenerezza nella frase “Costei della mia infanzia bionda l'angelo fu”, non c'è rassegnata accettazione nel “Cor, dono funesto”. “Enzo, come t'amo!” ha un si bemolle che avrebbe richiesto una ben più eterea filatura. Occorre dare un senso ad ogni sillaba, nella Gioconda; e forse un buon coach di italiano l'avrebbe aiutata.
Metti Enzo (Marco Berti): sottigliezze, queste sconosciute. Assicurata, invece,(nella monotonia del canto che conosce poche digressioni tra il mezzoforte e l'acuto muscolare, l'incertezza dell'intonazione. A tal punto da temere che prima o poi, per alcune voci, anche per nelle Fondazioni liriche, si renda obbligatorio - come a Sanremo, in scena negli stessi giorni della Gioconda – l'uso dell'autotune. Chissà, se esiste un aldilà, cosa ne avrà pensato il leggendario Juliàn Gayarre, il primo Enzo della storia.
Metti Barnaba: estrema routine (corretta, ma sempre routine è) nel disegnare un personaggio truce (lo è), un villain puro. Di gran mestiere “O monumento”, dove Alberto Gazale riesce ad evitare ogni truculenza.
Elogi incondizionati alla Cieca rodata di Agostina Smimmero, curata nell'accento, nel fraseggio, dotata di un timbro ambrato e ombroso assieme, ben esibito in “Voce di donna o d'angelo”
Bell'Alvise, quello di Abramo Rosalen. “Ombre di mia prosapia” è lezione di canto, morbido, legato: peccato tuttavia che il regista trasformi il personaggio in un servo di scena. Nel suo appartamento, un ritratto di Doge giace obliquamente a terra presso la quinta destra; viene d'un tratto preso dallo stesso, e portato fuori, per poi rientrare. Senza senso e senza valore drammatico.
Silvia Beltrami, nei panni di Laura, convince e possiede solida padronanza dei suoi mezzi, in luce in “Stella del marinar” e nel duetto “È un'anatema”.
Ottimi i comprimari: Angelo Nardinocchi (Zuàne e Un Barnabotto), Francesco Musinu (un Cantore e un Pilota), Fabio Serani (Isèpo e Una voce).
Prova assolutamente strepitosa del coro del Teatro Lirico, preparato con la solita cura da Giovanni Andreoli.
Le coreografie erano di Valerio Longo, con la partecipazione del Balletto di Roma e le soliste Alessia Arsi, Camilla Candiolo, Annalisia Falciglia.
Poco allettante la regia di Filippo Tonon, autore anche delle scene e dei costumi (questi ultimi, firmati assieme a Carla Galleri). Lo spettacolo, una coproduzione (oggi proprietà del Teatro Lirico di Cagliari) del Teatro Nazionale Sloveno di Maribor, Arena di Verona e OperaLombardia, dove era già andata in scena tre anni fa [leggi le recensioni di Cremona e Verona].
Filippo Tonon, regista e autore di scene e costumi (questi ultimi, a firma anche di Carla Galleri), ha, come dichiarato nel programma di sala, creato una ambientazione coeva a quella di Ponchielli e della prima scaligera, quindi nella seconda metà dell'Ottocento. Difficile per me comprendere tuttavia come si possa parlare di Doge e dintorni, visto che la carica terminò il 12 maggio 1797, quando la Repubblica Serenissima cadde, quindi cento anni prima.
Il cortile del Palazzo Ducale, l'isola deserta della laguna dov'è ancorato il brigantino Hècate, la stanza della Ca' d'Oro (due sedie, una carta da parati; scena mobile, le sedie restano), il palazzo diroccato nell'isola della Giudecca: “quella che disegno io - scrive Tonon - attraverso le scene e la lettura registica, è una città decadente, corrotta. (…) Ho fatto in modo che la mia Venezia si trasformi davanti agli occhi del pubblico. Non semplicemente il contenitore dell'azione, ma parte integrante e motore dei fatti”. E quindi ? Qualche vago decoro monumentale, due portali in marmo visti di taglio che scorrono da destra a sinistra, e viceversa, attraversati con instancabile vigoria dai protagonisti dell'opera; un fondale di marmo grigio con qualche crepa. Un bric-a-brac dove abita Gioconda, il profilo di un brigantino, poco presente la laguna, indefinito il Carnevale. Senza voler la piazza San Marco di Beni Montresor al Met, ho cercato Venezia, la Venezia di cui parla Tonon, ma non sono riuscito a trovarla. Per il resto, buon controllo delle masse corali, solita gestualità d'antan dei cantanti. Costumi ecletticamente ottocenteschi, ottime le luci di Fiammetta Baldiserri, soprattutto nel secondo (la notte del porto, col brigantino in fiamme) e nel quarto atto.
La Gioconda, adesso, lasciamola dormire. Anche per i prossimi sessantanove anni, se possibile.
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Napoli, La Gioconda, 17/04/2024
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