L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Con tamburi e pifferi

di Antonino Trotta

Nel recital ospitato dall’Unione Musicale, Alexander Gadjiev guida il pubblico del Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino in un affascinante viaggio tra le suggestioni della Natura e le sue molteplici trasfigurazioni musicali.

Torino, 2 aprile 2025 – Un concerto che omaggia la Natura in tutte le sue forme, un impaginato di sala che mescola con sapienza letteratura europea, russa e financo americana, regalando per la prima volta al pubblico del Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino l’ascolto di un interessantissimo pezzo dello statunitense John Corigliano. A tessere questo percorso dal respiro ampio e visionario è Alexander Gadjiev, quest’anno artista in residenza per l’Unione Musicale, che nel recital di mercoledì 2 aprile ha saputo coniugare introspezione e rigore, immergendo l’ascoltatore in un viaggio musicale profondo e multisfaccettato che l’artista stesso racconta, ancor prima che dal palco, nelle belle note di sala poste a corredo del programma.

Atmosferica, evanescente, incredibilmente rarefatta è l’immagine della Natura che emerge dall’antologia tratta dal secondo libro dei Preludes di Debussy (Brouillards, Bruyères, La terrasse des audiences du clair de lune, Ondine, Hommage à Samuel Pickwick Esq. PPMP, Feux d'artifice), una sequenza di quadri sonori che Gadjiev restituisce con straordinaria sensibilità timbrica e cura del dettaglio dinamico. Ogni brano si presenta come un piccolo universo, sospeso tra impressione visiva e trasfigurazione poetica: dalle nebbie sfumate di Brouillards alla luminosità malinconica di Bruyères, fino all’esplosiva energia conclusiva dei Feux d'artifice, Gadjiev scolpisce il suono con tocco controllato ed elegante senso della proporzione, valorizzando la scrittura intima e liquida di Debussy che pare sempre negare la natura meccanica della tastiera.

La Fantasia su un ostinato di John Corigliano nasce dalla geniale idea di esasperare il tema dell’Allegretto della magnifica Settima di Beethoven attraverso un ostinato che si ripete incessantemente, ma con variazioni sempre più complesse e drammatiche. Qui Corigliano non si limita a riprodurre, ovviamente, il tema originale, ma lo deforma e lo trasforma, arricchendolo progressivamente di invenzioni ritmiche ed armoniche che si sviluppano in modo imprevedibile e instradano la composizione verso un climax tensivo e sonoro di grande pathos. Alle prese con un testo così libero e rapsodico, Gadjiev sa farsi fine esploratore di quelle dimensioni che l’inafferrabile peregrinazione della cellula tematica dischiude di volta in volta, affrontando la partitura con un’abilità che unisce contezza tecnica e istrionismo quasi teatrale.

Con All’aria aperta (Sz. 81), Bartók firma una delle sue raccolte più affascinanti e suggestive per pianoforte solo. Articolato in cinque movimenti, questo ciclo restituisce un’immagine sonora primitiva e arcaica della Natura, filtrata attraverso un linguaggio modernissimo, in cui si intrecciano folklore, sperimentazione timbrica e tensione espressiva. Qui è il gioco percussivo con lo strumento a suscitare stupore: il pianista italo-sloveno sa ricreare quest’effetto iridescente e primordiale senza mai percuotere con durezza l’avorio, piuttosto preservando ovunque una morbidezza e una rotondità nel suono che non inaspriscono la partitura, ma la esaltano proiettandola in contesto più elegante e ricercato.

Le opere di Skrjabin – Preludi op. 16 n. 1,2,4, Studio op.8 n.12 e Sonata n.12 –, in apertura della seconda parte, sono terreno d’elezione per l’artista che s’è fatto notare e s’è guadagnato il podio nell’ultimo concorso di Varsavia. Se la Messa Nera invoca quel virtuosismo che da lì a poco esploderà con Rachmaninov, i preludi e soprattutto lo studio rivelano l’essenza di un interprete già maturo e consapevole. La bontà del legato che emerge dall’esecuzione delle delicate miniature, eco e rilettura della tradizione chopiniana, o ancora la classe e la raffinatezza del fraseggio, suonano poi più inebrianti quando immersi nelle alte temperature emotive dello studio, letto con slancio sorvegliato e aristocratica vigoria.

Caratteristiche, quest’ultime, che s’impongono vincenti anche nella straordinaria sonata no. 2 in si bemolle minore di Rachmaninov, un fiume in piena di note che rompe gli argini e invade ogni centimetro quadrato della sala del Conservatorio. In questo capolavoro dove a brillare, più che la melodia, è l’armonia, il colore, il timbro, Gadjiev sa costruirsi una tavolozza di rara ricchezza, lavorando sul suono con intensità scultorea e visione architettonica. La sua lettura evita ogni sentimentalismo gratuito, privilegiando invece una costruzione tesa e coerente dell’arco narrativo, che rende giustizia alla scrittura febbrile e densissima del compositore russo. Tra ombre minacciose e improvvisi bagliori di luce, la sonata si trasfigura in un monologo interiore travolgente, dove l’impeto virtuosistico, mai disatteso, è sempre al servizio di un’idea musicale di squisito valore.

Ritrovate le forze dopo simile cimento, e festeggiato con calore da una platea entusiasta, il pianista offre ben tre bis: la mazurka op.68 n.2 di Chopin, la Bagatella op. 126 n. 1 di Beethoven e di nuovo lo studio op.8 n.12 di Skrjabin.

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