L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Quadri in un’esposizione

di Antonino Trotta

Ospite di Lingotto Musica, Leif Ove Andsnes propone un recital che alterna pagine celebri ad altre più ricercate. Se con Grieg porge il distintivo biglietto da visita, è con Janáček e Chopin che esprime appieno la sua statura d’artista.

Torino, 7 febbraio 2025 – Dà l’impressione di passeggiare in una galleria d’arte, Leif Ove Andsnes, mentre pezzo dopo pezzo s’appresta a costruire il suo recital: osserva un quadro, lo esegue e passa al prossimo, cogliendo nei silenziosi passi che dall’uno conducono dinnanzi all’altro l’occasione per rinverginare l’immaginazione, sgomberare la mente da quanto appena udito e prepararla a immergersi nel mondo successivo. Quest’approccio riflessivo, questo procedere meditabondo, è d’altro canto presupposto imprescindibile a quel pianismo conscio, mai impulsivo o istintivo, di cui l’artista norvegese è autorevole portavoce.

La statura dell’interprete si palesa fin da subito e, nel caso della Sonata in mi minore op. 7 di Grieg, riconoscibilissimo biglietto da visita,sembra addirittura infondere nuova identità a una composizione dal marcato tratto accademico, figlia di un ventiduenne ancora genio in erba. Piena di colori e piena di sfumature, Andsnes la plasma con un suono denso e sorvegliato, conferendo profondità e ricercatezza espressiva a una scrittura che, ancorché solida, reca ancora i segni di un giovane compositore in cerca di una voce autentica.

Di voce autentica, oltre che sublime, è invece intriso il primo libro della raccolta Po zarostlém chodníčku di Janáček. Letteralmente traducibile come Sul sentiero incolto, questa antologia di pezzi pianistici, composta tra il 1901 e il 1911, è un viaggio intimo nella memoria e nel paesaggio interiore del compositore moravo. Janáček intreccia frammenti di melodie popolari, armonie spigolose e un linguaggio pianistico che sfugge alle convenzioni romantiche, dando vita a pagine in cui emozione e forma convivono in un equilibrio instabile eppure incredibilmente affascinante. Andsnes si avvicina al testo di Janáček con sensibilità profonda e ispirazione sincera: l’eleganza del fraseggio privo di fronzoli e di orpelli, la capacità di far trascolorare l’amalgama sonora con estrema naturalezza e il dominio assoluto delle dinamiche, eccezionale se si considera il ventaglio in gioco che spazia dal pianissimo al mezzo forte,si rivelano qui strumenti essenziali per restituire la fragilità e l’intensità emotiva di queste magnifiche miniature. Mai irrigiditi da un metronomo inflessibile, questi ricordi in musica respirano liberamente sotto le mani di Andsnes che scolpisce ogni arcata melodica con cura magistrale, avvolgendola in un manto sonoro dai toni cangianti ed evanescenti.

Anche i 24 preludi op. 28, compendio dello stile di Chopin, confermano i tratti distintivi di un pianismo capace di coniugare con sapiente equilibrio virtuosismo e poesia. Qui, più che in Janáček, Leif Ove Andsnes suggerisce un’idea più frammentaria del ciclo, sottolineata dalle pause tra un preludio e l’altro, che mettono in risalto le singolarità di ogni episodio. L’analisi lucida e il controllo dello strumento emergono con più forza nei quadri di maggior impeto – si pensi al sedicesimo, al diciottesimo, al ventiduesimo o all’ultimo – dove l’esecuzione raggiunge un’intensità espressiva pronunciata senza però mai perdere nitidezza o sacrificare la peculiarità del dettaglio. Là dove la scrittura fiorisce in un rigoglioso tecnicismo in punta di fioretto – nell’ottavo o ancora nel terzo pannello –, la brillantezza del tocco e la fluidità dell’articolazione permettono all’artista di scogliere l’intreccio senza rinunciare ai primi piani sull’involo melodico, ovunque cesellato con grande delicatezza narrativa. È nei momenti di maggior lirismo, però, che la poetica di Andsnes si afferma con irresistibile presenza: preludi come il quarto in mi minore, il diciassette in la bemolle maggiore o il ventuno in si bemolle maggiore, espansi come sono in un gioco di dinamiche di amplissimo spettro, acquisiscono sotto le sue dita una plasticità quasi vocale. Il fraseggio ampio e naturale, unito a un controllo del suono impeccabile, permette ad Andsnes di scolpire linee melodiche di straordinaria purezza, senza mai indulgere in eccessi di rubato o sentimentalismi fuori misura. Ne nasce una lettura intensa ma misurata, in cui la cantabilità chopiniana si dispiega con luminosa chiarezza, rivelando sfumature timbriche e lessicali di rara finezza.

Accolto da calorosissimi consensi, Leif Ove Andsnes congeda la gremita platea della Sala 500 con ben tre bis: la Marcia norvegese op. 54 n. 2 di Grieg, lo studio op.33 n.2 di Rachmaninov e La cathédrale engloutie di Debussy, perfetta sintesi del recital torinese.

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