I furori del giovane Strauss
Due pagine molto diverse dello stesso autore occupano per intero il programma che vede il direttore tedesco Marc Albrecht affiancato, nella prima parte, dalla giovane pianista francese Marie- Ange Nguci al suo ritorno a Torino
TORINO, 20 febbraio 2025 - Avevamo conosciuto Marie- Ange Nguci all'auditorium Toscanini due anni fa esatti nel drammatico concerto K 491 di Mozart e l’avevamo ritrovata a febbraio 2024 nell’altrettanto tormentato Concerto per la mano sinistra di Ravel. La scopriamo ora in un repertorio assai differente, uno dei brani più condensati e impegnativi mai scritti per il pianoforte e l'orchestra quale la Burleske in re minore (1886) di Richard Strauss. Eppure, a scapito della distanza di concezione e di stile, tratti simili legano le interpretazioni. Se consideriamo i luoghi comuni sul virtuosismo, la Nguci è un anti-virtuoso per eccellenza, e il fatto è ancor più evidente nella scrittura quasi sempre trascendentale della pagina straussiana. Questa pianista appartiene infatti alla schiera di solisti in grado di far sembrare tutto semplice, fin dalle rapide folate cromatiche discendenti che rispondono al tema principale che esplode subito nell'orchestra innescato dai timpani. I suoi punti di forza non risiedono tanto nella nettezza dell'esposizione e le prime note del pianoforte non sono, paragonati agli attacchi al fulmicotone di altri dominatori della tastiera, per nulla memorabili. Le qualità di chi esegue vengono alla luce poco alla volta, nelle nuances intermedie del tema cantabile che si snoda attraverso inquiete terzine di doppie note, con la tensione implicita stemperata da un tocco nitido e preciso, di chiara musicalità e confortante calore espressivo. Eugenio Montale scrisse di Italo Svevo 'Il suo stile è non avere uno stile', e analogamente Marie-Ange Nguci emerge tra i flutti turbinosi e spumeggianti del pianismo tardoromantico al modo di una lieve barchetta in miracoloso equilibrio, in apparenza trascinata dagli elementi ma che nessun onda, per quanto violenta, riuscirà a travolgere. Ne emerge una visione della Burleske ossimorica, seriosa e impeccabile, dove è tuttavia del tutto assente la sottile ironia tipica del compositore bavarese: quando, verso la fine, Strauss pare divertirsi con un passaggio in cui l'affetto per il Brahms del secondo concerto è legato all'esaltazione iperbolica del gesto pianistico brahmsiano, la solista franco-albanese affronta le battute come se di Brahms realmente si trattasse. Finisce per essere applauditissima dal pubblico in sala, concedendo, prezioso encore, uno scintillante Une barque sur l‘océan dell‘amato Maurice Ravel, pezzo congeniale alla sua personalità delicata e cartesiana assai più che i furori del giovane Strauss che, privato nella serata torinese del suo lato edonistico e ludico, fa, al confronto, la figura del nonno del francese piuttosto che di un arguto fratello maggiore separato in fondo solo da una decina di anni all'anagrafe.
Applausi altrettanto calorosi sono riservati dalla platea alla bacchetta di Marc Albrecht, dapprima abile nell’imprimere all’orchestra il giusto contrappeso alle evoluzioni discrete della Nguci, e poi, ancora nel segno di Richard Strauss, protagonista in prima persona di una vigorosa concertazione nella Symphonia domestica op. 53 (1903), penultimo tra i grandi poemi sinfonici nati dalla penna dell’autore tedesco. Il tratto distintivo di Albrecht è una direzione efficace, senza fronzoli, di gradevole spessore sonoro e pienezza timbrica, capace di valorizzare le raffinatezze di una partitura evitando di smarrirsi in preziosismi o nella minuziosa elaborazione del dettaglio. In Strauss a contare è la visione globale. L’esecuzione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale si mantiene da capo a fondo su un ottimo livello, con punte di eccellenza negli ottoni, soprattutto l’ottetto dei corni nel primo movimento, che siano in primo piano o forniscano sostegno armonico nell’economia della pagina, con l’avvicendamento dei ritratti musicali di marito (ossia Richard Strauss in persona), moglie e figlio. Sarebbe tuttavia ingiusto tacere degli altri comparti strumentali, e pura delizia sono gli interventi graffianti dei fiati nel registro acuto a dipingere il piglio volitivo di Pauline de Ahna, consorte del compositore, oppure la nettezza baldanzosa degli archi nell’articolare il tema fugato che apre il finale. Sprazzi di autentica bellezza che rimangono impressi nella memoria e che fanno perdonare la predilezione di Albrecht per una tavolozza a tratti un po’ uniforme, ma sorretta da una instancabile e sincera volontà di eloquio.
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