A Nasso senza primadonna
di Francesco Lora
Nelle attese recite viennesi di Ariadne auf Naxos, Thielemann risulta direttore a proprio agio più nelle finezze musicali che nelle risorse espressive. La Koch domina una compagnia non tutta di pari livello nel già collaudato spettacolo di Bechtolf.
VIENNA, 15 ottobre 2014 –Ariadne auf Naxos di Richard Strauss: un allestimento di repertorio, seminuovo o tutto nuovo? Lo spettacolo con regìa di Sven-Eric Bechtolf, scene di Rolf Glittenberg e costumi di Marianne Glittenberg, andato in scena nell’estate 2012 al Festival di Salisburgo, è stato acquisito dallo Staatsoper di Vienna nell’inverno successivo. Ma là si dava la rara prima versione di Stoccarda 1912, dove un adattamento del Bourgeois gentilhomme di Molière, con le sue musiche di scena, precede l’atto con la storia di Arianna; qui si è invece data la corrente seconda versione di Vienna 1916, dove un prologo prende il posto di Molière, e dove interi brani del seguente atto sono riformulate. Uno stesso allestimento scenico, dunque, per un titolo che accomuna due opere in fin dei conti assai diverse. Va da sé che, da Salisburgo a Vienna, Bechtolf ha radicalmente riconcepito il proprio spettacolo, con esiti assai felici in entrambi i casi.
L’ambientazione passa dal Settecento immaginato da Hugo von Hofmannsthal a un Novecento inoltrato e in vena postmoderna. Gesto immediato, spigliato e giovanile per tutti; ironia e autoironia a non finire, con controscene sempre risolte nel rispetto della parola e della musica; finto trovarobato che rivela invece studiatamente, nelle scene e nei costumi, il carattere dei personaggi e la morale dei luoghi d’azione. Così, basta la grande vetrata sul fondo per dare l’idea della dimora beata e del teatro privato di un mecenate; gli scogli tra i quali si lamenta Arianna, rivolta al pubblico in scena e spalle a quello in sala, sono casse di pianoforti schiantati, quasi a evocare le goffaggini scenografiche che tanto odierno teatro non nel teatro va ostentando senza arrossire; e l’abito rosso a pois bianchi di Zerbinetta è, per una volta, la divisa di un personaggio straripante di vitalità, ma donna vera, non miniatura leziosa né svilita macchietta.
Nelle venerabili mani di Christian Thielemann, la regìa musicale è invece soprattutto esattezza ritmica e finezza di fraseggio, facendo mancare in buona parte l’ispirazione narrativa e l’invenzione espressiva che già si pregustavano. Si direbbe che al massimo direttore tedesco dei nostri giorni, e segnatamente a un asso dell’interpretazione straussiana, il ridotto organico orchestrale dell’Ariadne risulti tavolozza ristretta: ne sarebbero forse prova l’organico da lui disinvoltamente allargato in precedenti esecuzioni (in particolare a Baden-Baden, con Renée Fleming e la Staatskapelle di Dresda), e soprattutto il rincaro di entusiasmo direttoriale che esplode all’ingresso di Bacco e da lì va crescendo sino alla fine dell’opera, cioè proprio laddove gli strumenti danno fuoco alle polveri e ruggiscono wagnerianamente a dispetto del loro piccolo numero.Ma là si dava la rara prima versione di Stoccarda 1912, dove un adattamento del Bourgeois gentilhomme di Molière, con le sue musiche di scena, precede l’atto con la storia di Arianna; qui si è invece data la corrente seconda versione di Vienna 1916, dove un prologo prende il posto di Molière, e dove interi brani del seguente atto sono riformulate. Uno stesso allestimento scenico, dunque, per un titolo che accomuna due opere in fin dei conti assai diverse. Va da sé che, da Salisburgo a Vienna, Bechtolf ha radicalmente riconcepito il proprio spettacolo, con esiti assai felici in entrambi i casi.
La compagnia di canto è capitanata da una Sophie Koch eccezionale nei panni del Compositore. Famosa per il suo Octavian nel Rosenkavalier, al punto di monopolizzare la parte in giro per il mondo, è tuttavia nell’Ariadne che ella tocca il proprio vertice interpretativo. Qui il suo fraseggio non rischia affettazione o caricatura, ma freme tutt’insieme di adolescenza, tenerezza e ambizione, sfumando a ogni frase; la solida organizzazione vocale calza come un guanto alla scrittura straussiana, mentre il timbro si mantiene omogeneo e rosseggiante da un capo all’altro della tessitura. Un esempio preclaro di grande interprete e di grande interpretazione. Bilancio positivo anche per la Zerbinetta di Daniela Fally, tanto brillante e virtuosistica quando umana e lirica: se non si salta sulla poltrona ad ascoltarla, ciò avviene soprattutto perché nello stesso teatro la memoria di Edita Gruberova e Diana Damrau è ancora troppo fresca.
Piace anche il Tenore-Bacchus cui Johan Botha presta il fisico ingombrante, modi comicamente maneschi e soprattutto una vocalità tanto eroicamente imponente quanto forte di timbro amoroso e capace di sottigliezze espressive. La Primadonna-Ariadne di Soile Isokoski non sta invece al passo del contesto: voce chiara senza essere luminosa, porgere di garbo monotonamente vispoteresoide, ella canta tutto con aurea mediocrità e con un’elezione retorica da popolana; ci può stare, ma a patto (svantaggioso patto) che la primadonna interpretata sia intesa come la capofila di una compagnia di basso rango, e che nell’atto di teatro nel teatro si accetti di vedere sempre il personaggio nel personaggio, cioè la mitica Ariadne attraverso l’opaco filtro di una Primadonna qualsiasi anziché un personaggio leggendario passibile di meritata autonomia e compiutezza psicologica.
Gli interpreti delle parti di fianco sono tutti puntigliosamente scelti tra caratteristi di prima sfera, e ne risulta un eccellente lavoro di squadra alla prova del dettaglio sia teatrale sia musicale: alla mente rimangono in particolare, come dev’essere, il quartetto delle maschere – con lo Harlekin di Adam Plachetka alla testa dello Scaramuccio di Carlos Osuna, del Truffaldin di Jogmin Park e del Brighella di Benjamin Bruns – e il trio tanto attorialmente scherzoso quanto vocalmente incantevole composto dalla Dryade di Rachel Frenkel, dall’Echo di Olga Bezsmertna e dalla Najade di Valentina Nafornita. Pubblico delle grandi occasioni e generose ovazioni all’indirizzo di Thielemann, per uno spettacolo che ormai sigla lussuosamente la stagione del centocinquantesimo straussiano.
foto Wiener Staatsoper / Michael Pöhn