L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Al chiaro di luna

di  Antonino Trotta

Rafał Blechacz, accolto da un caloroso successo, chiude la splendida rassegna “I Pianisti del Lingotto” di Lingotto Musica: qualche ombra nella lettura di Beethoven non offusca l’eloquenza poetica che emerge limpida in Schubert e Chopin, veri territori d’elezione di un pianismo maturo e autorevole.

Torino, 8 aprile 2025 – Non è vero che il buongiorno si vede sempre dal mattino, talvolta basta attendere il lento schiudersi del giorno per correggere il passo a una giornata che sembrava partita col piede sbagliato. Così, almeno, è stato per Rafał Blechacz, accolto con vivo entusiasmo nella splendida cornice della rassegna “I Pianisti del Lingotto”, inizialmente alle prese con un Beethoven che ci ha lasciato qualche perplessità.

La sonata in questione è la Moonlight, la quattordicesima in do diesis minore op. 27 n.2 del genio di Bonn, nota e stranota anche a chi vive nella convinzione che il pianoforte sia quella cosa di plastica a cinque ottave. Il pianista polacco offre, senza dubbio, una lettura assai dotta, con un controllo impeccabile delle dinamiche della mano sinistra che crea un controcanto tanto interessante da oscurare la melodia stessa nel celeberrimo Adagio sostenuto d’apertura, tutto sviluppato in un’atmosfera soffusa e crepuscolare. L’Allegretto centrale, poi, viaggia spedito, forse anche troppo, con un’eleganza e una grazia che trovano sì, nel tecnicismo in punta di dita e nella sapiente amministrazione delle voci un vertice di eccezionalità, ma tradiscono qui e là quel senso di leggiadra spensieratezza pensato per far da contraltare drammatico all’impetuoso episodio conclusivo. L’ultimo movimento, invece, è fin troppo controllato e carico di idee. Anche al netto di qualche imprecisione che non ha alcun peso nella percezione complessiva, l’ampio legato sugli arpeggi ostinati e la ricerca continua di un’aristocratica linea di canto sembrano corrompere la natura travolgente e ossessiva che innerva queste pagine, spingendole verso una compostezza più pensata che vissuta. Il risultato è un finale affascinante ma meno viscerale, in cui l’urgenza beethoveniana si dissolve in una visione più architettonica che passionale, forse troppo meditata per restituire davvero l’impeto furioso del Presto agitato e quell’inquietudine che ne costituisce l’anima più autentica.

L’eleganza ricercata dell’espressione, le sfumature poetiche di un fraseggio intessuto di rubati dosati con sapienza, il bagliore di un tocco limpido che risplende su un tessuto sonoro morbido e cangiante come raggi di luna che si dissolvono nel pulviscolo dell’oscurità, trovano in Schubert un terreno decisamente più congeniale e fertile. È nel delicato equilibrio tra semplicità apparente e profondità emotiva che il pianista polacco sembra respirare con maggiore naturalezza, lasciando che le frasi si distendano con un lirismo spontaneo, cantabile, fiero e mai compiaciuto. La densità beethoveniana cede il passo a una trasparenza sonora che Blechacz scolpisce con misura e grazia, facendo emergere con sensibilità quel senso di intima, magnetica malinconia che attraversa la scrittura schubertiana come una corrente sommersa. I quattro improvvisi op. 90 D. 899 sono pertanto capolavoro di maestria tecnica e arte interpretativa, cesellati con una classe che non smarrisce mai il contatto con la dimensione emotiva più vibrante delle pagine. Blechacz vi si muove con passo leggero ma saldo, in un flusso che è tanto controllato quanto vibrante di vita interiore. L'eleganza del gesto, la chiarezza formale e l’intelligenza dell’arco narrativo si traducono in un ascolto limpido, avvolgente, dove l’introspezione non scade mai nell’astrazione e la brillantezza tecnica è sempre piegata alla causa del testo. Un’esecuzione che, senza cercare effetti, lascia un’impronta profonda e indelebile in chi ha avuto la fortuna di ascoltare.

Non desta meno meraviglia Chopin, indubbio cavallo di battaglia per l’ex primo premio del concorso di Varsavia. Cariche di pathos, cariche di charme, le opere dell’autore polacco s’impongono tra le gradinate della Sala 500 per il nerbo che corrobora l’esecuzione, per l’intensità che attraversa anche i passaggi più melodiosi, mai affetti da leziosa retorica e sempre sorretti da una tensione espressiva che conferisce forza e drammaticità autentica a quella scrittura. Così la Barcarola op.60, straordinaria, fluttua con ampiezza quasi orchestrale, in un gioco continuo di riflessi e onde sonore; la Ballata n.3 op. 47, alimentata da uno slancio quasi visionario, esplode in un finale travolgente ma sempre misurato. La Mazurca op. 17 n. 4 è porta con delicatissima sensibilità, restituendo tutta la nostalgia segreta e quel ritmo interno che è insieme danza popolare e ricordo sbiadito. Il Valzer op. 64 n. 2 vibra di leggerezza e ironia, disegnando arabeschi agili e raffinati, mentre dello Scherzo n. 3 op. 39 Blechacz porge una visione solenne, maestosa, in cui la veemenza dell’impulso virtuosistico risponde a un disegno lucidissimo, in cui nulla è lasciato al caso: ogni climax, ogni sospensione, ogni sfumatura dinamica è inserita con cura in un percorso espressivo coerente, che tiene insieme forza e controllo, passione e chiarezza.

Festeggiato con calorosissimi applausi, Blechacz concede due bis senza però eccedere in generosità: lo Scherzo dalla sonata in la maggiore op.2 n. 2 di Beethoven e il preludio op. 28 n. 7 di Chopin.

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