Un battesimo händeliano
L’Opera di Roma porta in scena, per la prima volta nella sua lunga storia, l’Alcina di Georg Friedrich Händel. La direzione è affidata a Rinaldo Alessandrini, mentre la regia è a firma di Pierre Audi. Nel ruolo del titolo Mariangela Sicilia, in quello di Ruggiero Carlo Vistoli, le due punte di diamante del cast.
ROMA, 18 marzo 2025 – La direzione artistica del Teatro dell’Opera di Roma sta lavorando, ormai da anni, su una nuova concezione di repertorio, che pian piano acclimati i gusti del pubblico romano a titoli meno frequenti, come alcuni del repertorio novecentesco (mi vengono in mente, per esempio, i diversi di Janáček) o di quello barocco. Su questa strada, il Giulio Cesare del 2023 (leggi la recensione), pur non potendosi definire certo una produzione riuscita, ha riaperto la strada alla presenza, magari non più sporadica, di titoli händeliani nei cartelloni del Costanzi. Peraltro, direttore di quel Giulio Cesare è stato proprio Rinaldo Alessandrini, che ora si pone nuovamente alla testa dei complessi dell’Opera. Alessandrini fa un ottimo lavoro anche con l’Alcina, grazie ad un’orchestra che, come più volte ho sottolineato di recente, è in un momento di ottima forma: il suono è argentino, contenuto, affinché le voci emergano nella loro pienezza, e le compagini strumentali sono dosate opportunamente con i loro volumi, così da favorire l’impasto di colori voluto da Händel; l’agogica, poi, è misurata, non eccede in effetti facili, ma si impernia su un solido incedere, senza che questo, però, impedisca talune carezze o una certa qual ricerca del cesello in momenti topici della partitura (uno su tutti è la grande scena di Alcina che chiude il II atto). Certo, Alessandrini non è un direttore appariscente e la sua sensibilità, ancorché possa risultare monocorde sulla lunga distanza, mostra piuttosto una certa austerità nel trattamento di un repertorio che è ancora assai aperto in fatto di chiavi interpretative, in virtù del fatto che viviamo nel pieno dei frutti della baroque renessaince, la quale non si è ancora trasformata, pienamente, in manierismo standardizzato.
Nel cast vocale brillano, su tutti, l’Alcina di Mariangela Sicilia e il Ruggiero di Carlo Vistoli. Grazie ad una non comune potenza vocale, che veramente fa intravedere i fasti degli ‘evirati cantori’ del secolo dei Lumi, Vistoli stupisce ancora sul palco del Costanzi ed il suo Ruggiero è applauditissimo. Un sopraffino controllo vocale, che si esplica soprattutto nella scoppiettante agilità con cui affronta le più ardite colorature di un ruolo altamente emotivo (si pensi alla cavatina «Di te mi rido», ma soprattutto alla famosa «Sta nell’ircana pietosa tana», un tripudio di virtuosismo), gli consente una performance straordinaria. Vistoli, però, non è solo dotato di una bella voce, ma sa anche usarla bene, come dimostra l’intero II atto, durante il quale si affastellano la maggior parte delle sue arie. Proprio gli ariosi in apertura del II atto mostrano un Vistoli capace di colori soffusi, malinconici, pur mantenendo intatta e limpida la fibra sonora del mezzo vocale; si consideri, pure, l’aria «Mi lusinga il dolce affetto», interamente giocata su legato, su flebili atmosfere, carezzando le quali Vistoli palesa la sua abilità puramente lirica, inanellando perlacei filati; abilità lirica confermata nell’interpretazione di «Mio bel tesoro» (splendidi i trilli ascendenti) e, soprattutto, «Verdi prati», pura melodia. L’Alcina di Mariangela Sicilia è un personaggio scenicamente e vocalmente riuscito, solido grazie ad una tecnica di canto che permette all’interprete di irrobustire il suono, quando necessario, e di lasciar cantare, con luminescenze argentine, un timbro esteticamente gradevole. Queste caratteristiche emergono chiaramente nelle due arie del I atto: «Di’ mio cor, quanto t’amai» ha un carattere limpidamente lirico, con qualche fioritura che la cantante appoggia con voluttà; «Sì, son quella, non più bella» ha in un colore malinconico la sua cifra precipua, dove pure l’interprete si destreggia con esiti notevoli. Ma è nel II atto (proprio come per il personaggio di Ruggiero) che la Sicilia ha di fronte le maggiori difficoltà: innanzitutto «Ah, mio cor!», che alterna accorate, lunghe frasi, in cui l’interprete deve librarsi nei vari registri a sondare, con volubili fioriture, la tristezza del personaggio, opposte ad un nucleo di fuoco, dove la fibra sonora va irrobustita. Il vero momento clou del II atto è il finale, la grande scena di Alcina, punto apicale della performance della Sicilia. La cantante, ondivaga fra tristezza e rabbia nell’arioso, esplode nella virtuosistica «Ombre pallide», la cui difficoltà risiede soprattutto nella sequela di fioriture della tessitura centrale e bassa, che la Sicilia scandisce con precisione ed acuti penetranti. La Bradamante di Caterina Piva riesce certamente bene, soprattutto grazie al timbro caldo della cantante, la quale è fluida nella coloratura e piacevole nel fraseggio: in ambedue le sue arie, infatti, la coloratura è un elemento centrale del personaggio, ma più ancora che nella prima, «È gelosia» (I atto), è nella seconda, «Vorrei vendicarmi» (II), che assistiamo ad una vera e propria mitraglia di fioriture, che la Piva affronta con onore. Anthony Gregory, dal timbro brunito e un po’ freddo, interpreta un Oronte che ha il suo momento migliore nel I atto («Semplicetto! A donna credi?»), mentre nel secondo appare decisamente meno centrato. Il personaggio di Morgana, che ha un notevole spazio nell’economia drammatica dell’Alcina, è interpretato da Mary Bevan, che presenta fin dall’inizio problemi di emissione, con acuti che tendono a stridere lievemente, ma soprattutto la cantante esagera un tantino nella resa vocale del personaggio: la Bevan incarna bene una corrente molto in voga nella nouvelle vague barocchista, cioè quella di esagerare sempre, di portarsi, vocalmente e scenicamente, sempre all’estremo. Se questo è l’andamento generale del I e del II atto (dispiace, in particolare, per un’esecuzione non certo felice di «Tornami a vagheggiar», aria talmente ispirata da avere l’onore di chiudere il I atto), devo dire che nell’aria di apertura del III, «Credete al mio dolore», una tipica aria dalla lamentevole melodia legata, la Bevan ammorbidisce gli eccessi dei primi due atti per abbandonarsi ad un canto flebile, legato, che non spiace. Silvia Frigato, specialista del repertorio barocco, canta un convincente Oberto, anche grazie alla limpidezza del timbro, che riesce a mimare quella di una voce bianca – dunque, di un ragazzo; particolarmente riuscita è l’esecuzione dell’aria «Barbara! Io ben lo so». Infine, il Melisso di Francesco Salvadori è sicuramente riuscito, anche in virtù di un timbro caldo, pastoso, che gli consente di eseguire con fraseggio morbido, appoggiato, l’aria «Pensa a chi geme d’amor piagata».
La première dell’Alcina a Roma si giova di una regia di tutto rispetto: la ripresa dello storico allestimento che Pierre Audi preparò per un teatro settecentesco vicino Stoccolma, Drottningholm, e che ha ormai venticinque anni (risale al 2000). Si tratta di uno spettacolo invecchiato benissimo, giacché fondamentalmente basato sul principio che Audi stesso definisce Personen-Regie: concentrarsi sulla recitazione del personaggio, sui movimenti del cantante e di un gruppo di comparse. Alcina, infatti, non presenta scene corali (se non brevissimi interventi), ma si basa sostanzialmente su un’aurea sequela di arie dei vari personaggi. In tal senso, gli interpreti di questa produzione romana hanno dato tutti prova di ottimo lavoro sulla recitazione: non solo la Sicilia e Vistoli, ma anche il resto dei cantanti è attentissimo al dato scenico. Questo soprattutto perché, se si guarda il I atto l’impianto scenico pensato da Audi (e realizzato da Patrick Kinmonth) è essenzialmente una classica scena da teatro settecentesco, con le quinte ben evidenti a rappresentare il folto di un bosco. Un paesaggio gradevole, ma neutro, che rimane fisso per tutto l’atto. Sta a comparse e cantanti movimentare la scena, comparendo e scomparendo nelle quinte, sulla base di un delicato gioco di equilibri visivi: per esempio, nel I atto Audi pensa al gioco della mosca cieca, molto praticato fra la nobiltà d’epoca moderna, proprio a significare l’inganno amoroso col quale Alcina strega Ruggiero. Questa puntuale attenzione alla prossemica dei personaggi non evita, però, un po’ di monotonia, che, pure, si sarebbe potuta risolvere in un qualche cambio scenico all’apparire della ‘deliciosa reggia di Alcina’ (come recita il libretto). Monotonia che, per l’appunto, viene evitata nell’atto II e nel III proprio in virtù di varie alternanze d'ambientazione, la più vistosa dei quali è quella che svela la rottura dell’incantesimo operato su Ruggiero, quando la scenografia bucolica si rovescia, mostrando la nuda impalcatura lignea, testimonianza della cruda realtà, della rottura delle illusioni. Il momento registico che forse coinvolge di più è il finale II, dove Alcina evoca le ‘ombre pallide’, rappresentate da attori coperti da candidi manti, le quali si muovono ai suoi comandi, con effetti di ariosità che testimoniano la bravura di Audi nella gestione delle masse – e che fanno rimpiangere la sua scelta di far udire il pur brevi interventi corali solo retroscenicamente, privandoci, magari, di qualche bella trovata. Questo spettacolo, va detto, si regge visivamente anche sull’incredibile fascino dei costumi (ancora a firma di Kinmonth): basti notare, solamente, i tre cambi d’abito di Alcina, uno più bello dell’altro. Alla fine, cantanti, direttore e maestranze sono caldamente applaudite, segnando il successo di questa prima apparizione di Alcina nei cartelloni del Costanzi.
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