Aspasia sul trono

di Antonino Trotta

Una stratosferica Jessica Pratt trionfa nel Mitridate, re di Ponto, eseguito in forma di concerto al Teatro alla Scala sotto la direzione di Christophe Rousset che guida con autorevolezza il complesso Les Talens Lyriques. Qualche ingombrante ombra nel resto della compagnia di canto.

Milano, 18 maggio 2025 – Tra le prime prove teatrali di Wolfgang Amadeus Mozart, Mitridate, re di Ponto occupa un posto di rilievo non solo per la precocità con cui fu composta, ma anche per l’incredibile maturità musicale che vi si manifesta. Frutto del primo viaggio italiano del giovane Mozart, l’opera fu commissionata dal Teatro Regio Ducale di Milano su libretto di Vittorio Amedeo Cigna-Santi, tratto dalla tragedia omonima di Racine. La prima, tenutasi il 26 dicembre 1770, ottenne un notevole successo, tanto da meritare diverse repliche: un risultato tutt'altro che scontato per un autore straniero e ancora sconosciuto alla scena operistica italiana.Dal punto di vista stilistico, Mitridate si inserisce pienamente nel solco dell’opera seria metastasiana, aderendo ai canoni del genere sia nella struttura – alternanza di recitativi secchi e arie da capo – che nei temi trattati, dominati da conflitti morali, tensioni familiari e passioni amorose. Tuttavia, Mozart non si limita a replicare modelli esistenti, ma li arricchisce con una freschezza e un’attenzione drammaturgica eccezionali. La scrittura vocale, spesso vistosamente virtuosistica, è sì pensata per valorizzare le doti tecniche dei cantanti, ma sfaccetta i personaggi sul piano psicologico con un’efficacia quasi sorprendente per una penna ancora quattordicenne. Già in questa fase Mozart mostra dunque segni evidenti di un linguaggio personale in via di formazione: la varietà espressiva delle arie, l’equilibrio tra tensione teatrale e struttura formale e l’uso sapiente dell’orchestra prefigurano già le conquiste della sua maturità. Mitridate si presenta così come un’opera liminale, sospesa tra l’osservanza della tradizione – in cui si riconosce l’influsso della scuola napoletana – e l’incipiente tensione innovativa che caratterizzerà l’intera parabola mozartiana, ed è proprio in questo equilibrio tra rispetto e superamento del modello che si può cogliere l’originalità profonda di questa giovanile, ma già consapevole, prova d’autore.

Al Teatro alla Scala di Milano, dove l’opera è eseguita in forma di concerto, la direzione è affidata a Christophe Rousset, specialista del repertorio e già concertatore di una edizione discografica di riferimento che vede, tra gli altri interpreti, Natalie Dessay nel ruolo di Aspasia e la suprema Cecilia Bartoli in quello di Sifare. Quando c’è da suonare, sulla natura dell’esecuzione v’è davvero poco da dire: eccellente per la contezza e varietà stilistica esibita alla guida di Les Talens Lyriques, la lettura di Rousset, scandita da un incedere galante e nobile, arricchita da sonorità smaltate e mai fracassone, restituisce con eleganza l’ideale estetico che ammanta questo titolo, dove fuoco e affetto si bilanciano in un continuo e misurato gioco di sfumature. In virtù di tale autorevolezza, poco si comprendono certe sforbiciate ai recitativi – accorciati in maniera frettolosa – e la suddivisione della recita in due parti, con la prima, di quasi due ore, conclusasi a un soffio dalla fine del secondo atto – il recitativo accompagnato e il sublime duetto finiscono all’inizio della seconda parte –: così conciata, e con interpreti non madrelingua che, salvo qualche eccezione, appaiono spaesati qui dove la prosodia italiana potrebbe notevolmente contribuire a dare nerbo all’azione, l’opera, che già di azione ne ha veramente poca, finisce col risultare forse un po' irrigidita nel suo fluire teatrale. Si aspetta l’aria, insomma, e quel che c’è in mezzo conta meno.

In fin dei conti non è un grosso problema, specie se le arie toccano a Jessica Pratt, stratosferica per l’infuocato tecnicismo e il sublime patetismo che distinguono tutta la sua indimenticabile prova. Alla sua Aspasia ella dona la stessa regalità belcantistica di una Semiramide, di una Zenobia e, perché no, di una Norma, scolpendo l’accento con pathos tragico anche là dove il canto svetta, piroetta e varia, sprezzante e fiero, ad altezze siderali. L’interprete carismatica, presente e incisiva anche nei recitativi, che impreziosisce la linea con dinamiche e legati d’alta scuola – «Pallid'ombre, che scorgete» ne è magnifico esempio –, non cede dunque mai il passo alla vocalista, anche quando quest’ultima è chiamata a dar fuoco alle polveri. E che fuoco: la sola aria d’ingresso, «Al destin che la minaccia», le vale immediatamente autentiche ovazioni.

Pur lontane dal suscitare quell’eccitazione che in questa occasione resta appannaggio della sola prima donna, si fanno comunque positivamente notare Olga Bezsmertna e Maria Kokareva, rispettivamente Sifare e Ismene. La prima ha timbro cremoso ed emissione, se non impeccabile, solida e ben timbrata. Musicale nelle variazioni e nelle cadenze, attenta alle sfumature e convincente nel fraseggio, Bezsmertna delinea un Sifare ben equilibrato tra slancio lirico – intensa la celebre «Lungi da te, mio bene», con corno concertante – e ardore epico. Di segno più raccolto, ma non meno curata, la Kokareva tratteggia un’Ismene delicata e composta, sostenuta da un timbro chiaro e ben proiettato – al netto di qualche acuto un po’ forzato che intorbidisce la linea in momenti come l’aria del terzo atto, «Tu sai per chi m’accese» – capace di distendersi in smorzature liquide e raffinate.

Non convince, nonostante il caloroso riscontro del pubblico, il volenteroso Levy Sekgapane nel ruolo del titolo. Lo strumento da tenore contraltino, chiaro e guizzante, sa destreggiarsi con disinvoltura nei passaggi più agili e puntati, ma mostra il fianco là dove la scrittura si inerpica lungo salti e arie d’estensione impervia, evidenziando una certa povertà di intenzioni e inflessioni espressive che, per un antenato di Idomeneo, rappresentano un limite non trascurabile. Certo, le belle mezzevoci aiutano a definire la natura del personaggio e le arcate di galante apertura – come l’aria di cavata «Se di lauri il crine adorno» – lasciano una piacevole impressione; tuttavia, la mancanza di slancio eroico e di un autentico sfogo drammatico finisce per appiattire la resa di un ruolo tra i più complessi e articolati dell’intera partitura. Paradossalmente, dal confronto col Marzio di Alasdair Kent, non ne esce vincitore anche perché quest’ultimo, con un timbro altrettanto pregevole, affronta con souplesse e perizia tecnica la temibile aria che Mozart riserva in chiusura d’opera al tribuno romano, «Se di regnar sei vago». In un periodo storico dove i controtenori di pregio non son rari, sorprende vedere Farnace affidato a Rose Neggar-Tremblay, mezzosoprano dai mezzi abbastanza ordinari che porta a casa il ruolo con professionalità, ma senza lasciare un segno indelebile. Corretto, infine, l’Arbate di Nina van Essen.

Successo caloroso per tutti gli interpreti, nonostante una strana defezione di pubblico dopo l’intervallo. Peggio per loro.

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