La ricerca della felicità

di Fabiana Crepaldi

Prima assoluta ad Aix en Provence per la quarta opera di George Benjamin e Martin Crimp.

Aix-en-Provence, 23 luglio 2023. Lo scorso luglio ho avuto la fortuna di partecipare alla 75ª edizione del Festival d'Aix-en-Provence. In questo articolo, che arriva un po' in ritardo, parlerò di quello che, secondo me, è stato il momento clou di questa edizione: la prima mondiale di Picture a Day like This, della già consolidata coppia George Benjamin e Martin Crimp.

Quando penso al Festival d'Aix, mi vengono in mente tre idee: Mozart (un compositore quasi sempre presente), prime mondiali e produzioni moderne, che possono essere classificate come Regietheater - una forma di teatro d'autore che non si limita a illustrare il libretto. Tutto questo era presente in quella che è stata la mia prima - e, spero, molte altre - visite a questo festival.

Mozart, è vero, non deve essere stato molto soddisfatto questa volta. Così Fan Tutte - titolo di particolare importanza per il festival, presente alla sua prima edizione 75 anni fa e di cui Patrice Chéreau ha dato un'eccellente produzione nel 2005 - è stato affidato a Dmitri Tcherniakov (allestimento) e Thomas Hengelbrock (direzione musicale); era una delle produzioni più attese di questa edizione. Ma la delusione è stata diffusa: sul palcoscenico, pur con la qualità di una produzione di Tcherniakov, era impossibile chiudere un occhio sulle varie incongruenze; musicalmente, i cantanti hanno avuto problemi tecnici inaccettabili per un evento di queste dimensioni, cantando spesso in modo stonato.

Picture a Day Like This non è il primo lavoro di Benjamin e Crimp creato ad Aix, terra fertile non solo per la produzione divino e lavanda, ma anche di nuove opere. Qui, nel 2012, è stato presentato il primo grande successo del duo, Written on Skin. Un'altra prima più recente, che ha avuto un impatto importante e meritato nel 2021, è Innocence, l'ultima opera del compositore Kaija Saariaho, scomparso nel giugno di quest'anno.

Oltre a Written on Skin e Picture, Benjamin e Crimp hanno in catalogo altre due opere: Into the Little Hill, presentata in prima assoluta a Parigi nell'anfiteatro dell'Opéra Bastille nel 2006, e Lessons in Love and Violence, presentata in prima assoluta nel 2018 alla Royal Opera House di Londra. La prima cosa che colpisce è che, delle quattro opere di questo duo inglese, tre sono state eseguite in prima assoluta in Francia - il Paese in cui si è svolta gran parte della formazione di Benjamin, che fu allievo di Messiaen - e solo una in Inghilterra.

Se Written on Skin e Lessons in Love and Violence sono violente tragedie psicologiche, con il diritto al tradimento e alla gelosia, opprimenti sia dal punto di vista musicale sia della trama, ben diversa è l'atmosfera di Picture a Day Like This, che riprende il lavoro della macchina da presa e il tono fiabesco di Into the Little Hill. Ciò che accomuna tutte le opere, tuttavia, è che trattano temi estremamente contemporanei basati su storie antiche, di solito medievali. L'essenza senza tempo dell'anima umana è quindi sempre presente.

Come nelle fiabe, in Picture i personaggi non hanno un nome proprio, ma sono chiamati con una caratteristica (il che suggerisce che si tratta di archetipi piuttosto che di una persona specifica), il protagonista si trova in una situazione di vulnerabilità (non è un orfano, come spesso accade nelle fiabe, ma il contrario: ha perso un figlio) e la storia non è realistica, c'è un elemento di magia, o meglio di fantasia. Inoltre, è una vicenda di formazione attraverso incontri successivi, nella tradizione di Alice nel Paese delle Meraviglie e Alice attraverso lo specchio di Lewis Carroll.

Come in Alice, anche in Picture gli incontri avvengono nella mente della protagonista, una donna che, a differenza di Alice, non ha un nome. Come in Alice, è un personaggio femminile a subire questo processo formativo non il giovane eroe di un tipico Bildungsroman del XIX secolo. Tuttavia, a differenza di Alice, in Picture la protagonista non è una ragazzina ma una giovane donna: una madre che ha perso il figlio piccolo ("Non prima che il mio bambino avesse iniziato a dire / frasi complete / che morì").

Nel programma, Martin Crimp scrive che il suo punto di partenza è stata la favola popolare La camicia dell'uomo felice, che racconta di un re affetto da una malattia mortale (in alcune versioni, come le Favole italiane di Italo Calvino, è il figlio del re a essere malato e depresso) e che, per guarire, deve scambiare la sua camicia con un uomo veramente felice. in ogni uomo che incontrava, il re scopriva una frustrazione. Scoraggiato, andò a caccia per cercare di distrarsi e sentì un contadino che cantava felicemente. Il re gli si avvicinò e gli chiese se voleva seguirlo nella capitale, al che il contadino rispose: " (...) per niente, grazie. Non cambierei posto, nemmeno con il Papa (...) sono felice così e questo mi basta". Il re era entusiasta: aveva trovato un uomo felice! Ma presto si rese conto che l'uomo felice non aveva la camicia.

La storia era piuttosto moralistica, così Crimp iniziò a fare ricerche sull'argomento. Ben presto si imbatté nel Romanzo di Alessandro, che risale al 300 a.C. circa e racconta la vita di Alessandro Magno. Quando Alessandro stava per morire, scrisse alla madre chiedendole di invitare al suo funerale, indipendentemente dalla classe sociale, tutte le persone che non avevano mai conosciuto la sfortuna. Il risultato: nessuno venne al funerale, dimostrando alla madre infelice che il dolore e la morte sono universali.

Per Crimp, questo passo del Roman d'Alexandre è una severa lezione di stoicismo, intrisa di spirito militare. La sua ricerca continuò. Infine, trovò un testo con un tema simile a questo passo del Roman, ma, secondo lui, molto più misterioso e molto più umano: il racconto buddista del seme di senape, che narra la storia della giovane Kisha Gotami, il cui figlio è morto. Disperata, Kisha Gotami esce con il bambino in grembo in cerca di una cura e le viene detto di andare a trovare il Buddha. Il Buddha le disse che lei e suo figlio potevano essere guariti da un solo granello di senape bianca, ma che il granello doveva provenire da una casa dove la morte non era mai entrata. La donna andò di casa in casa, ma tutti le offrirono il grano dicendo che qualcuno era già morto lì. Come la madre di Alexander, ma in modo più umano, Kisha Gotami ha imparato che il dolore e la morte sono universali. Alla fine della storia, si dedica alla religione e, nel tempio, si rende conto che la durata della fiamma di ogni lampada varia, proprio come la vita degli esseri umani.

Nell'immagine, queste tre parabole, che provengono da epoche, società e culture così diverse, vengono trasformate e adattate alla nostra cultura e ai nostri tempi. La fonte di dolore più grande è sempre presente, rappresentata dalla madre e dal figlio morto - stabat mater dolorosa.

Come osserva Benjamin in un'intervista pubblicata nel programma di sala, non c'è nulla di realistico in questo viaggio psicologico. L'allestimento minimalista e di buon gusto di Daniel Jeanneteau e Marie-Christine Soma - che hanno partecipato alla creazione di opere di Benjamin e Crimp e che, oltre alla regia, sono responsabili della scenografia, della drammaturgia e dell'illuminazione - colloca il palcoscenico nello spirito di La Femme: intorno al palco, una parete metallica racchiude e riflette il palcoscenico in modo leggermente sfocato. La scenografia è arricchita dai bellissimi e significativi costumi di Marie La Rocca.

Con un'orchestra di circa venti musicisti - in cui i legni e gli ottoni predominano sugli archi - e solo cinque solisti in scena, l'opera ha le dimensioni e la sonorità di un pezzo da camera. Era quindi naturale che il luogo scelto per la prima, con la Mahler Chamber Orchestra diretta dallo stesso compositore, fosse il piccolo e accogliente Théâtre du Jeu de Paume, un teatro inaugurato nel 1787 e completamente ristrutturato nel 2000, con una capienza di meno di 500 persone. Il suo nome deriva dal fatto che è stato costruito sul sito di un ex jeu de paume reale (il predecessore del tennis). Il teatro era gremito fino all'inverosimile e, in una giornata molto calda, l'aria condizionata è stata rapidamente messa fuori uso, ma questo non ha intimorito il pubblico, che ha assistito all'ultima rappresentazione di quest'opera accattivante.

"Quando penso al teatro musicale, penso innanzitutto alla voce umana: quella cosa meravigliosa, eterna, maestosa. La considero davvero l'elemento centrale", ha dichiarato Benjamin in un'intervista pubblicata nel programma. "Le parole sono molto importanti, naturalmente, ma devono essere cantate, cantate davvero". Per lui, quando un cantante parla durante un'opera, come nella Carmen o nel Flauto magico, c'è una rottura, qualcosa sembra rompersi.

Per quanto riguarda il canto, Benjamin dice che due cose lo colpiscono delle opere contemporanee. In primo luogo, la scrittura vocale a zig zag, con grandi salti, che è molto di moda. In secondo luogo, in molte opere i cantanti hanno un vibrato eccessivo, al punto che è difficile definire la nota su cui stanno cantando. Spiega che quando l'accompagnamento era semplice, come ad esempio ai tempi di Verdi, era facile conoscere la nota. "Ma nella musica moderna i linguaggi armonici non sono più gli stessi e sospetto che i cantanti non sappiano più a quale altezza dovrebbero cantare: questo vibrato riflette una certa insicurezza e mancanza di fiducia in se stessi." Occorre quindi aiutare il cantante, ma senza che l'orchestra raddoppi la voce e senza utilizzare un linguaggio ritmico o musicale ottocentesco. Come spiega il musicologo Pierre Rigaudière nel programma di sala, citando lo stesso Benjamin, il compositore utilizza una scrittura orchestrale polifonica "che funge da cassa di risonanza selettiva in modo che le linee vocali siano chiaramente inserite nel tessuto orchestrale e nell'ambiente armonico, sia per il cantante sia per il pubblico'".

Il risultato è una musica chiaramente moderna, contemporanea e innovativa, che ci assorbe senza che le sue dissonanze ci mettano a disagio o ci facciano perdere l'orientamento in mezzo alla complessità ritmica e melodica. L'orchestra polifonica è trasparente e non sovrasta mai i cantanti. Il canto comprende elementi di recitativo secco e momenti di arioso fluente, con alcuni melismi in momenti specifici - per lo più indicativi di estasi o follia.

Come Mozart e tanti altri grandi compositori della storia, Benjamin compone pensando ai cinque interpreti che avrebbero creato la sua opera, alle loro caratteristiche vocali. È un'esperienza che i cantanti e noi, il pubblico, possiamo fare solo con opere contemporanee: le sentiamo le opere come e per chi sono state composte.

In un'intervista pubblicata sul numero di giugno di Opéra Magazine, Benjamin racconta di aver visto Marianne Crebassa, la creatrice della protagonista di Picture, in recital alla Wigmore Hall di Londra e di averla trovata fenomenale, con note basse sorprendenti. In Picture, ogni volta che incontra la Donna in cerca dell'uomo felice, la tessitura si evolve verso il registro grave: all'inizio, una voce più leggera e delicata la introduce alla persona presumibilmente felice, come se le chiedesse il permesso, ma la serietà della situazione, il dramma della persona che, in realtà, è infelice, porta la cantante verso la tessitura più bassa.

Crebassa è davvero fenomenale. È stata la seconda volta che ho avuto la possibilità di vederla in concerto: la prima volta è stata nel 2018, nel ruolo di un'indimenticabile Mélisande nel Pelléas et Mélisande di Debussy alla Staatsoper di Berlino, proprio l'opera che Benjamin dice essere la sua preferita e che ha chiaramente influenzato la sua scrittura, in particolare le linee vocali. Crebassa ha una voce omogenea, con un'eccellente proiezione e un buon peso nel registro medio-basso. Soprattutto, la sua voce ha sfumature, un colore ricco, sa avere una certa gravità, mantenere la tensione del personaggio, senza perdere la brillantezza del suo bel timbro.

L'opera, che dura circa un'ora, è composta da sette brevi scene. Nella prima e nella quinta scena la Donna, che non è solo la protagonista ma anche la narratrice, è sola; la quinta scena, in cui canta la sua aria, occupa una posizione centrale e può essere considerata un punto di inflessione.

La musica inizia con discrezione: una sola nota fa da riferimento e dura per un po'. La donna inizia il suo canto, a cappella, raccontandoci del suo bambino con la dolcezza di una ninna nanna, che presto assume un'espressione bassa, tragica, e continua come una cantilena, un lamento. Non ci dice il motivo della morte: parla solo della rabbia che ha provato, ma che comunque ha fatto la sua parte: l'ha lavato, "l'ha drappeggiato con la solita seta per bruciarlo" e gli ha chiuso gli occhi. Dice anche che alcune donne sono venute a prenderlo - "prenderlo per bruciarlo", suggerendo un rituale di cremazione in una religione orientale, in particolare in India, come il buddismo, l'induismo, il sikhismo... Fu allora che lei disse "no! - ed è allora che l'orchestra inizia a suonare, discretamente - e lei chiede: "la terra fredda - gli steli di fiori morti tornano in vita - perché no - perché non mio figlio?" Poi - ci racconta sotto una musica più ritmata e colorata e con una certa ironia, un certo tono di avventura - una delle donne sorride e le parla:

"Trova una persona felice in questo mondo
e togli un bottone dalla manica del suo vestito.
Fallo prima di morire
e tuo figlio vivrà".

Nel farlo, le consegna una pagina di un vecchio libro contenente un elenco di persone che potevano essere felici.

In questo breve soliloquio troviamo già lo stile del recitativo benjaminiano - cantato, senza l'interminabile e monotona ripetizione della stessa nota che si trova in tante opere antimusicali moderne - così come la varietà di colori del canto di Crebassa: ella pronuncia con cura ogni parola, ogni frase del testo - frasi che sono generalmente brevi, persino tronche. L'interessante peso dato a ogni consonante, l'accentuazione delle consonanti nel canto, mentre rendono il testo più facile da capire, danno al recitativo forza e vitalità.

Fin dalla prima scena, si è colpiti dall'effetto visivo dei cantanti e degli attori che si fondono con i loro riflessi sulle pareti metalliche - un effetto che sarà accentuato nelle scene successive.

La donna va alla ricerca del bottone sulla manica dell'abito della persona felice. Prima dei primi tre incontri, tiene in mano il foglio e lo legge, e le tre volte che lo legge, sentiamo più o meno lo stesso recitativo, nello stile di un proclama, accompagnato da ottoni sommessi, che danno unità e coerenza al discorso musicale. Un altro elemento comune a tutti gli incontri, soprattutto quando si avviano al fallimento, è il suono discreto delle campane.

Nella seconda scena, la Donna fa il suo primo incontro: una coppia di amanti, apparentemente molto felici, ma solo in superficie. In realtà, non si amano e finiscono per litigare: mentre l'amante sogna una relazione che sia, se non stabile, almeno esclusiva, l'amante è un fan del poliamore. A questo punto, con gli amanti sotto i riflettori, i riflessi sulle pareti metalliche sembrano assumere un'importanza ancora maggiore, popolando la scena.

L'atmosfera musicale è inizialmente lirica e fluida; la combinazione delle voci degli amanti, il soprano norvegese Beate Mordal e il controtenore persiano-canadese Cameron Shahbazi, come nella musica barocca, crea un'atmosfera sensuale di giovinezza virile. Nella polifonia e nelle note lunghe, il loro bel canto a volte si completa, a volte si intreccia, mentre l'orchestra crea un'atmosfera quasi mistica - fino al momento della discussione, naturalmente. Nell'intervista rilasciata a Opera Magazine, Benjamin ha dichiarato che le Fantasie per viola da gamba di Purcell hanno cambiato la sua vita di compositore. Il modo in cui le voci degli amanti interagiscono all'inizio della scena, in contrasto con il canto della donna, riecheggia chiaramente il lavoro di Purcell. Quando gli amanti iniziano a discutere, la linea melodica dell'amante rimane sensuale, con note lunghe - non si arrabbia troppo – ma poi cambia drasticamente, le loro linee cessano di combaciare e iniziano a contrastare.

Delusa dal primo incontro, la Donna passa al secondo della sua lista: un artigiano che arriva racchiuso in un cubo di acrilico e afferma di essere estremamente felice. Ma è felice perché nella fabbrica in cui lavorava è stato sostituito dalle macchine, che lo hanno rovinato e fatto impazzire. L'atmosfera musicale è più misteriosa, più cupa, e il canto del baritono, a volte melismatico, spazia su quattro ottave: dal basso all'alto. L'eccellente americano John Brancy attraversa tutta la sua tessitura e raggiunge il con totale omogeneità, senza alcuna interruzione di registro. Quando inizia ad agitarsi, il suo canto diventa più duro ed enfatico, e perde quasi completamente il legato. Anche nell'orchestra la musica diventa più forte e dissonante, creando un'atmosfera di suspense che, dopo che l'artigiano ricorda i suoi numerosi tentativi di suicidio, si conclude in modo funereo ("No one will let me die"). Perché ha fatto bottoni, ci sono migliaia di bottoni di tutti i tipi nella sua manica - ma è un povero sfortunato, una vittima del progresso e della società.

La terza della lista, una compositrice famosa e attiva, che apparentemente ha tutto ciò che le serve per essere felice, ma che è troppo insicura ed egocentrica: in fondo, è infelice, teme di diventare una nota a piè di pagina nella storia e si sente sola. Mordal e Shahbazi tornano sul palco, la stessa coppia di soprano (la compositrice) e controtenore (il suo assistente) del primo incontro. Continuano a camminare, senza lasciare i loro posti, ma sempre con una fretta simulata, una fretta che letteralmente non li porta molto lontano. Ancora una volta, i loro brani si completano a vicenda. Dal punto di vista orchestrale, il suono ricorda una sinfonia contemporanea, con gli archi, soprattutto i violini, che si distinguono in una sorta di ostinato. Non posso fare a meno di sottolineare il tocco di Bossa Nova che compare quando la compositrice cita Rio de Janeiro nell'elenco delle città che ha visitato! Nel momento in cui dice che, nonostante la fama, non è felice, è come se gli archi stonassero. La melodia sembra diventare priva di scopo, priva di forza.

Stanca, scoraggiata, la Donna si lamenta in un'aria di grande effetto, uno dei pezzi centrali dell'opera - e un'altra dimostrazione dell'enorme qualità artistica di Crebassa. Sola, oppressa nella sua mente, canta due volte, come un mantra, ciò che era già apparso nella scena d'apertura: "steli di fiori morti riprendono vita - perché no - perché non mio figlio?". La melodia, con variazioni, è praticamente la stessa della prima scena, ma l'orchestrazione e il canto sono molto diversi: la serenità dell'inizio ha lasciato il posto all'agitazione e alla disperazione. L'orchestra suona forte, ma Crebassa ha voce sufficiente per non essere coperta. Dopo una lunga pausa, la stessa frase ("Vapori morti di fiori...")ritorna con il testo e la melodia stravolti e in un ambiente musicale molto più calmo, come se fosse intorpidita, esausta, dopo la crisi - un tipico cambiamento d'umore del lamento. Conclude l'aria dicendo che non vuole più una lista, ma miracoli.

È qui, in questa atmosfera più tranquilla, che appare un collezionista d'arte. Brancy, il baritono, un tempo artigiano, ritorna con uno stile di canto molto diverso, con linee più lunghe e morbide. Trascorre più tempo nella regione grave, ma si spinge una volta fino al falsetto. Accompagnato dagli stessi ottoni in sordina, recita la propria descrizione della lista e aggiunge: "Ho stanze piene di miracoli". Guida la donna attraverso opere di artisti di epoche, scuole e stili diversi. Lo stesso vale per la musica: melodie più liriche, persino romantiche, attraversano questo tessuto orchestrale tipicamente contemporaneo. Ma perché il collezionista sia felice, la donna deve amarlo: "Come potrei amarti?" Imbarazzato, il collezionista solitario rivela l'ultimo nome della lista: Zabelle.

Il collezionista apre la porta, permettendo alla donna di entrare nel giardino di Zabelle. È come se la donna entrasse in uno dei quadri della collezionista - e ci ricorda Alice, che ha attraversato lo specchio del soggiorno e si è trovata in un giardino. La donna legge di nuovo il suo catalogo, ma questa volta la lettura è musicalmente diversa dalle precedenti, e alla fine Zabelle continua la sua frase - una caratteristica che si ripeterà più avanti.

Zabelle è l'unico personaggio dell'opera con un nome: un nome armeno pieno di significati positivi, uno dei quali è "devota a Dio". Secondo una leggenda, il giardino dell'Eden si trovava in Armenia; secondo la storia, sotto il dominio ottomano, esattamente un secolo fa, il popolo armeno fu vittima di un genocidio. Oltre alla Donna, Zabelle è l'unico personaggio da non confondere con un altro, che ha un'interprete esclusiva: l'eccellente soprano austriaco Anna Prohaska.

La notte sta già calando, il tempo sta per scadere. Nell'orchestra, la ripetizione enfatica delle note Mi bemolle e Re (che avevano già suonato alla fine di ogni incontro frustrato) crea un'atmosfera di suspense. Nel giardino paradisiaco, oltre a Zabelle, la Donna dice di vedere un lungo viale di alberi, un uomo addormentato su una panchina, un bambino che getta la sua barchetta di carta in uno dei quattro ruscelli che irrigano il giardino, una bambina che gioca su un'altalena... tutto al suono della musica. Si sentivano gli uccelli provenire dall'orchestra. Finalmente aveva trovato qualcuno di veramente felice! Ma Zabelle, che sembrava l'immagine della Donna stessa, le disse: "Immagina una giornata come questa. La luce del sole lascia il posto a lunghe strisce d'ombra al calar della sera. Il mio giardino si sta oscurando - e ora, alla luce delle stelle, gli uomini stanno forzando i cancelli di metallo: stanno invadendo il parco" - nell'orchestra si sentono i suoni di una banda di ottoni - "Stanno prendendo la casa e tutto (...). Lascio cadere il mio bambino. Non sembra stare bene - freddo, freddo - non ricordo come ho urlato. Niente bambino. Niente barchetta di carta. Niente altalena, niente marito...". Zabelle dimostra che un momento, un paesaggio, un'immagine non sono sufficienti a determinare la felicità di una persona. Conclude: . Zabelle si toglie un bottone dalla manica e lo tiene in alto, ma tra loro c'è una barriera invisibile.

Per rappresentare il giardino paradisiaco di Zabelle, la scena più bella dell'opera, Daniel Jeanneteau e Marie-Christine Soma hanno adornato il palco con proiezioni di quadri chimici dell'artista franco-marocchino Hicham Berrada. Luminosi, belli e colorati, ma chimici, artificiali e illusori. Nel programma di sala, Jeanneteau commenta che l'obiettivo era quello di creare "un paradiso al tempo stesso sontuoso e insopportabile": "L'opera di Hicham Berrada è estremamente bella dal punto di vista visivo, ma ha la forte caratteristica di saper rappresentare lo sbocciare delle piante senza che siano fiori (...). Le opere di Hicham Berrada, i suoi acquari, sono in realtà ambienti assolutamente inadatti alla vita: sono infatti sostanze chimiche estremamente pericolose, ma che producono questa apparenza di vita e di splendore".

Ho già detto che Zabelle, in più di un'occasione, continua la frase che la donna stava cantando. Un'altra costante nel duetto tra la Donna e Zabelle è che, mentre una canta una lunga linea che racconta qualcosa, l'altra fa brevi contrappunti nel registro basso. Sebbene Crebassa e Prohaska abbiano timbri molto diversi, le loro voci si fondono perfettamente, rafforzando l'idea che ci sia un legame tra loro: forse sono la stessa persona, forse Zabelle è un'immagine della Donna.

Alla fine enigmatica, quando, secondo il racconto della donna, ritorna la scena iniziale, le donne che la guardano dicono che la pagina è stata strappata dall'immenso libro dei morti e che nessuno può cambiarla. La donna sorride e mostra loro il bottone lucido che ha in mano.

Il finale, per quanto enigmatico, chiarisce che il pulsante luminoso, più che un barlume di speranza o una luce per comprendere la vita, come le lampade di Kisha Gotami, si oppone al fatalismo del "libro dei morti". I frutti della vita e della felicità non sono concetti così semplici, non si possono determinare in un solo giorno, non possono stare in un foglio di carta, non si possono elencare - "odio le liste", dice Zabelle.

Ma soprattutto non bisogna perdere di vista il fatto che, trattandosi di una fiaba, di un viaggio mentale, la situazione della perdita di un figlio deve essere presa in senso figurato piuttosto che letterale. In breve, Picture non sembra essere un'opera di lutto. L'opera contiene le frustrazioni della vita di una donna che, come tutte le donne - o tutti gli uomini - compresa Zabelle, si crea un paradiso di illusioni, ma che, nella vita reale, si confronta con un mondo diverso e imprevedibile, attraversando le perdite e le separazioni più dure, i successi e le delusioni, sia nella sfera personale, sia nella vita sentimentale, sia in quella intellettuale o professionale. "Sono felice (...) perché non esisto", dice Zabelle, nel bel mezzo del suo paradiso "sontuoso e invivibile".

In questo senso, oltre alle fonti citate da Crimp e alle due opere di Lewis Carroll che raccontano le avventure di Alice, è impossibile non pensare al Candide di Voltaire. Si tratta di un'altra saga di incontri (e di tradimenti) concepita nel formato della fiaba, basata sull'illusione - fatalistica e alienante - di vivere nel migliore dei mondi possibili, ma i personaggi rivelano presto le loro disgrazie. Voltaire scrisse Candide all'indomani del terremoto che distrusse Lisbona e della Guerra dei Sette Anni: due tragedie, una naturale e l'altra provocata dall'uomo. In Candide, alla fine del dodicesimo capitolo, durante il viaggio in barca dall'Europa all'America del Sud, la vecchia (che, nonostante la sua nobile origine, non ha un nome, come accade nelle fiabe e nei personaggi di Crimp), dopo aver raccontato le disgrazie subite, propone a Cunegunde: "Fatti un regalo, fatti raccontare da ogni passeggero la sua storia, e se ce n'è uno che non abbia spesso maledetto la sua vita, che non abbia spesso detto a se stesso di essere il più sfortunato degli uomini, buttami in mare a testa bassa". Dopo aver ascoltato gli altri passeggeri, Candide e Cunegunde concludono che la vecchia aveva ragione. Più tardi, nel ventiquattresimo capitolo, Candide pensa di aver visto una coppia veramente felice: un monaco e una ragazza. Martin, il servo di Candide, non è convinto: "Scommetto di no. Chiedigli di cenare", dice Candide, "e vedrai se mi sbaglio". La ragazza è Paquette, una prostituta infelice che ha sofferto molto e deve sempre fingere di essere felice davanti ai suoi clienti. Il monaco, frate Giroflée, si rivela estremamente infelice nell'ordine a cui appartiene. Anche Candide si ritrova con un giardino, ma non quello di Zabelle, che non esiste, bensì quello di Voltaire, il giardino della vita pratica, che deve coltivare costantemente: "Dobbiamo coltivare il nostro giardino".

Se il lettore mi permette un altro paragone, questa volta nel mondo dell'opera, citerei Les Contes d'Hoffmann di Offenbach. Quando, di fronte a Zabelle, la Donna riassume i risultati dei loro incontri, dice: "Il collezionista era solo; la compositrice ossessionata da se stessa; gli amanti non erano innamorati; e l'artigiano - un povero uomo distrutto". Nei Contes, Hoffmann riassume i suoi tre fallimenti in amore: "Olympia! Spezzata... Antonia! Morta! Giulietta ah!".

Nell'opera di Offenbach, ogni amore ideale che Hoffmann sembra trovare si rivela impossibile, così come la felicità è irraggiungibile per tutti i personaggi di Picture. In entrambe le opere, il protagonista, che racconta la storia, subisce un processo di apprendimento attraverso ogni incontro; in entrambe le opere, ogni incontro porta stranezza e rappresenta un viaggio alla ricerca della conoscenza di sé. Un'altra somiglianza tra le due opere è che ogni scena ha la sua ambientazione musicale, senza che le rispettive opere cessino di avere un'unità.

C'è però una somiglianza più interessante tra le opere di Offenbach e quelle di Benjamin: l'identificazione di un cantante (o di un gruppo di cantanti) con più di un personaggio - e questo va ben oltre una semplice economia di cast. Nei Contes, la misteriosa figura di una sorta di Mefistofele è sempre presente e interpretata dallo stesso baritono: Lindorf (nel prologo e nell'epilogo), Coppelius (nel I atto, quello di Olimpia), Dr Miracle (nel II atto, quello di Antonia) e Dapertutto (nel III atto, quello di Giulietta). A volte (e questo va benissimo) lo stesso soprano interpreta Stella, Olimpia, Antonia e Giulietta, dimostrando che sono tutte sfaccettature della stessa persona. In Picture, una coppia formata da un soprano e un controtenore interpreta sia gli amanti che il compositore e il suo assistente; lo stesso baritono interpreta l'artigiano e il collezionista. Questo ci permette di riconoscere il cantante o la coppia quando ritornano in situazioni diverse, dandoci la sensazione che si tratti di rappresentazioni, forse archetipi, piuttosto che di persone specifiche e ben definite - il che è ancora più forte se ricordiamo che l'intero viaggio si svolge nello spirito della Donna.

Se i protagonisti delle due opere hanno in comune il fatto di essere narratori e di subire un processo di conoscenza di sé durante il viaggio, c'è una differenza importante: nei Contes, il protagonista racconta le sue vicende amorose: è quindi emotivamente coinvolto in ogni incontro e partecipa a ogni fallimento; inQPicture, la Donna mantiene una certa distanza, così che il suo confronto con lo sconosciuto diventa ancora più evidente.

In conclusione, non posso che sottolineare quanto sia stato un privilegio poter assistere a questa prima mondiale, sotto la direzione musicale dello stesso compositore, con un cast impeccabile da lui scelto e, dall'orchestra alla regia, con l'équipe che abitualmente accompagna il suo lavoro e le sue creazioni.

L'opera, senza dubbio una delle più importanti creazioni dell'inizio di questo secolo, è disponibile in video su Arte e Medici. Vale la pena di guardarla!


La recherche du bonheur perdu

par Fabiana Crepaldi

Aix-en-Provence, le 23 juillet 2023. En juillet dernier, j'ai eu la chance d'assister à la 75e édition du Festival d'Aix-en-Provence. Dans ce court essai, qui arrive un peu tard, je vais parler de ce qui, à mon avis, a été le point le plus fort de cette édition : la première mondiale de Picture a Day Like This, du duo déjà bien consolidé George Benjamin et Martin Crimp.

Quand je pense au Festival d'Aix, trois idées me viennent à l'esprit : Mozart (un compositeur presque toujours présent), les premières mondiales et les productions modernes, que l'on peut le classer dans le Regietheater – une forme de théâtre d'auteur qui ne se contente pas d'illustrer le livret. Tout cela était présent lors de ce qui était ma première – et, je l'espère, de nombreuses – visite à ce festival.

Mozart, il est vrai, n'a pas dû être très satisfait cette fois-ci. Così Fan Tutte – un titre qui revêt une importance particulière au festival, présent lors de sa première édition il y a 75 ans et dont Patrice Chéreau avait donné une excellente production en 2005 – était confié à Dmitri Tcherniakov (mise en scène) et Thomas Hengelbrock (direction musicale) ; c'était l'une des productions les plus attendues de l'édition de cette année. Mais la déception fut générale : scéniquement, bien qu'avec la qualité d'une production de Tcherniakov, il était impossible de fermer les yeux sur les diverses incohérences ; musicalement, des chanteurs avec des problèmes techniques inacceptables dans un événement de cette taille, chantant souvent faux.

Picture a Day Like This n'est pas la première œuvre de Benjamin et Crimp à être créée à Aix, cette terre fertile non seulement pour la production de vin et de lavande, mais aussi pour les nouveaux opéras. C'est là, en 2012, qu'a été créé le premier grand succès du duo : Written on Skin. Une autre création, plus récente, qui a connu un retentissement important et mérité en 2021, est celle de l'impactante Innocence, dernière œuvre de la compositrice Kaija Saariaho, qui nous a quittés en juin de cette année.

Outre Written on Skin et Picture, Benjamin et Crimp ont deux autres œuvres à leur catalogue: Into the Little Hill, créé à Paris, à l'amphithéâtre de l'Opéra Bastille, en 2006, et Lessons in Love and Violence, créé en 2018 au Royal Opera House de Londres. La première chose qui frappe est que, sur les quatre opéras de ce duo anglais, trois ont été créés en France – pays où s'est déroulée une grande partie de la formation de Benjamin, qui fut un élève de Messiaen – et un seul en Angleterre.

Si Written on Skin et Lessons in Love and Violence sont des tragédies psychologiques violentes, avec droit à la trahison et à la jalousie, oppressantes tant d'un point de vue musical qu'au niveau de l'intrigue, l'atmosphère de Picture a Day Like This est tout à fait différente : elle reprend le travail de caméra et le ton de conte de fées de Into the Little Hill. Tous les opéras ont cependant en commun de traiter de thèmes extrêmement contemporains à partir d'histoires anciennes, généralement médiévales. L'essence intemporelle de l'âme humaine est donc présente dans cet ensemble.

À l'instar des contes de fées, dans Picture, les personnages n'ont pas de nom propre, mais sont nommés d'après une caractéristique (ce qui suggère qu'il s'agit d'archétypes plutôt que d'une personne spécifique), le personnage principal se trouve dans une situation de vulnérabilité (il n'est pas orphelin, comme c'est souvent le cas dans les contes de fées, mais le contraire : il a perdu un enfant) et le récit n'est pas réaliste, il y a un élément de magie, ou plutôt de fantaisie. En outre, il s'agit d'un récit d'apprentissage, à travers des rencontres successives, dans la lignée d'Alice au pays des merveilles et d'Alice de l'autre côté du miroir de Lewis Carroll.

Comme dans Alice, dans Picture, les rencontres ont lieu dans l'esprit de la protagoniste, une femme qui, contrairement à Alice, n'a pas de nom. Tout comme dans Alice, c'est un personnage féminin qui subit ce processus d'apprentissage, et non le jeune héros d'un Bildungsroman typique du 19e siècle. Toutefois, à la différence d'Alice, dans Picture, le protagoniste n'est pas une jeune fille, mais une jeune femme : une mère qui a perdu son jeune fils (« A peine mon enfant avait-il commencé à faire / des phrases complètes / qu’il est mort »).

Dans le programme, Martin Crimp a écrit que son point de départ était la fable populaire La chemise de l'homme heureux, qui raconte l'histoire d'un roi souffrant d'une maladie mortelle (dans certaines versions, comme celle des Fables italiennes d'Italo Calvino, c'est le fils du roi qui est malade et dépressif) et qui, pour se guérir, doit échanger sa chemise avec un homme vraiment heureux. À chaque homme qu'il rencontrait, le roi découvrait une frustration. Découragé, il partit à la chasse pour essayer de se distraire et entendit un paysan qui chantait joyeusement. Le roi s'approcha de lui et lui demanda s'il voulait le suivre à la capitale, ce à quoi il répondit : « (...) pas du tout, merci. Je ne changerais pas de place, même avec le Pape (...) je suis heureux comme ça et ça suffit ». Le roi est ravi : il a trouvé un homme heureux ! Mais il s'aperçoit vite que l'homme heureux n'a pas de chemise.

L'histoire étant plutôt moralisatrice, Crimp a commencé à faire des recherches sur le sujet. Il est rapidement tombé sur le Roman d'Alexandre, qui date d'environ 300 ans avant J.-C. et raconte la vie d'Alexandre le Grand. Au moment de mourir, Alexandre écrivit à sa mère pour lui demander d'inviter à ses funérailles, sans distinction de classe sociale, toutes les personnes qui n'avaient jamais connu le malheur. Résultat : personne n'est venu aux funérailles, montrant ainsi à la mère malheureuse que la douleur et la mort sont universelles.

Pour Crimp, ce passage du Roman d'Alexandre est une sévère leçon de stoïcisme, imprégnée d'esprit militaire. Ses recherches se poursuivent. Enfin, il trouve un texte dont le thème est proche de ce passage du Roman, mais, selon lui, beaucoup plus mystérieux et beaucoup plus humain : le conte bouddhiste de la graine de moutarde, qui raconte l'histoire de la jeune Kisha Gotami, dont le fils est mort. Désespérée, Kisha Gotami sortit avec l'enfant sur ses genoux à la recherche d'un remède et on lui dit d'aller voir le Bouddha. Le Bouddha lui dit que son fils et elle-même pouvaient être guéris par un simple grain de moutarde blanche, mais que ce grain devait provenir d'une maison où la mort n'était jamais entrée. Elle est allée de maison en maison, mais tout le monde lui a offert le grain en disant que quelqu'un y était déjà mort. Comme la mère d'Alexandre, mais d'une manière plus humaine, Kisha Gotami a appris que la douleur et la mort étaient universelles. À la fin de l'histoire, elle se consacre à la religion et, dans le temple, se rend compte que la durée de la flamme de chaque lampe varie, tout comme la vie des êtres humains.

Dans Picture, ces trois paraboles, issues d'époques, de sociétés et de cultures si différentes, sont transformées et s'adaptent à notre culture et à notre époque. La plus grande source de douleur est toujours là, représentée par la mère et son fils mort – stabat mater dolorosa.

Ce voyage psychologique, comme le remarque Benjamin dans un entretien publié dans le programme du théâtre, n'a rien de réaliste. La mise en scène minimaliste et de bon goût de Daniel Jeanneteau et Marie-Christine Soma – qui ont participé à la création d'œuvres de Benjamin et Crimp et qui, outre la mise en scène, sont responsables de la scénographie, de la dramaturgie et de la lumière – situe la scène dans l'esprit de la Femme : autour du plateau, une paroi métallique enferme et reflète la scène de manière légèrement floue. Le décor est renforcé par les costumes à la fois beaux et significatifs de Marie La Rocca.

Avec un orchestre comprenant une vingtaine de musiciens – où les bois et les cuivres prédominent par rapport aux cordes – et seulement cinq solistes sur scène, l'opéra a des dimensions et une sonorité proches de celles d'une pièce de chambre. C'est donc tout à fait naturel que le lieu choisi pour la création, avec le Mahler Chamber Orchestra dirigé par le compositeur lui-même, ait été le petit et accueillant Théâtre du Jeu de Paume, un théâtre inauguré en 1787 et entièrement rénové en 2000, d'une capacité de moins de 500 personnes. Son nom vient du fait qu'il a été construit sur le site d'un ancien jeu de paume royal (prédécesseur du tennis). Le théâtre était plein à craquer et, par une journée très chaude, la climatisation a été rapidement dépassée, mais cela n'a pas intimidé le public, qui a assisté au dernier récit de cet opéra captivant.

« Quand on parle de théâtre musical, cela évoque avant toute chose dans mon esprit la voix humaine : cette chose merveilleuse, éternelle et si majestueuse. Je la considère véritablement comme l’élément central », a déclaré Benjamin dans un entretien publié dans le programme. « Les mots sont très importants, évidement, mais ils doivent être chantés, vraiment chantés ». Pour lui, lorsqu'un chanteur parle pendant un opéra, tel que dans Carmen ou La Flûte enchantée, il y a une rupture, quelque chose semble se briser.

En ce qui concerne le chant, Benjamin dit que deux choses le frappent dans les œuvres contemporaines. D'une part, l'écriture vocale en zigzag, avec de grands sauts, très en vogue. D'autre part, dans de nombreuses œuvres, les chanteurs ont trop de vibrato, au point qu'il est difficile de définir la note sur laquelle ils chantent. Il explique que lorsque l'accompagnement était simple, comme à l'époque de Verdi par exemple, il était facile de connaître la note. « Mais dans la musique moderne, les langages harmoniques ne sont plus les mêmes et je soupçonne que les chanteurs de ne plus savent pas vraiment à quelle hauteur ils doivent chanter : ce vibrato reflète une certaine insécurité et un manque de confiance en soi. » Il faut donc aider le chanteur, mais sans que le chant soit doublé par l'orchestre, sans utiliser un langage rythmique ou musical du XIXe siècle. Comme l'explique le musicologue Pierre Rigaudière, toujours dans le programme, citant Benjamin lui-même, le compositeur recourt à une écriture orchestrale polyphonique « qui agit comme une caisse de résonance sélective afin que "les lignes vocales soient clairement incrustées dans le tissu orchestral et l'environnement harmonique, à la fois pour le chanteur que pour le public" ».

Le résultat est une musique clairement moderne, contemporaine et innovante, qui nous absorbe sans que ses dissonances ne nous mettent mal à l'aise ou nous fassent perdre le fil au milieu de la complexité rythmique et mélodique. L'orchestre polyphonique est transparent et ne couvre jamais les chanteurs. Le chant comporte des éléments de récitatif secco et des moments d'arioso fluide, avec quelques mélismes à des moments précis – indiquant surtout l'extase ou la folie.

Comme Mozart et tant d'autres grands compositeurs de l'histoire, Benjamin a composé en pensant aux cinq interprètes qui allaient créer son opéra, à leurs caractéristiques vocales. C'est une expérience que les chanteurs et nous, le public, ne pouvons vivre qu'avec des œuvres contemporaines : nous entendons les œuvres telles qu'elles ont été composées et pour qui elles ont été composées.

Dans un entretien publié dans le numéro de juin d'Opéra Magazine, Benjamin raconte qu'il a vu Marianne Crebassa, la créatrice de la protagoniste de Picture, lors d'un récital au Wigmore Hall de Londres et qu'il l'a trouvée phénoménale, avec des graves étonnants. Dans Picture, à chaque rencontre de la Femme à la recherche de l'homme heureux, la tessiture évolue vers le grave : au début, une voix plus légère, plus délicate, la présente à la personne supposée heureuse, comme si elle lui demandait la permission, mais la gravité de la situation, le drame de celui qui, en réalité, est malheureux, conduit la chanteuse vers la tessiture grave.

Crebassa est vraiment phénoménale. C'était la deuxième fois que j'avais la chance de la voir en concert : la première fois, c'était en 2018, dans le rôle d'une Mélisande inoubliable dans Pelléas et Mélisande de Debussy au Staatsoper de Berlin, précisément l'opéra dont Benjamin dit qu'il est son préféré et qui a clairement influencé son écriture, en particulier les lignes de chant. Crebassa possède une voix homogène, avec une excellente projection et un bon poids dans le médium-grave. Plus important encore, sa voix a des nuances, une couleur riche, elle sait avoir une certaine gravité, maintenir la tension du personnage, sans perdre l'éclat de son beau timbre.

L'opéra, qui dure environ une heure, se compose de sept scènes courtes. Dans la première et la cinquième scène, la Femme, qui est non seulement le protagoniste mais aussi le narrateur, est seule ; la cinquième scène, dans laquelle elle chante son aria, occupe une position centrale et peut être considérée comme un point d'inflexion.

La musique commence discrètement : une seule note donne le ton et reste un moment. La femme commence son chant, a cappella, en nous parlant de son enfant avec la douceur d'une berceuse, qui prend bientôt un ton grave et tragique (than he had died), et se poursuit comme une cantilène, un lamento. Elle ne nous dit pas la raison de la mort : elle parle seulement de la colère qu'elle a ressentie, mais qu'elle a quand même joué son rôle : elle l'a lavé, « l'ai drapé dans la soie habituelle pour le brûler » et lui a fermé les yeux. Elle raconte aussi que des femmes sont venues le prendre – « le prendre pour le brûler », suggérant un rituel de crémation d'une religion orientale, notamment de l'Inde, comme le bouddhisme, l'hindouisme, le sikhisme... C'est alors qu'elle a dit « non ! ». – et c'est à ce moment-là que l'orchestre a commencé à sonner, discrètement - et qu'elle a demandé : « la terre froide - les tiges mortes des fleurs reprennent vie - pourquoi pas - pourquoi pas mon fils ? » Alors – nous dit-il sous une musique plus rythmée, plus colorée et avec une certaine ironie, un certain ton d'aventure - une des femmes sourit et lui parle :

« Trouve une personne heureuse en ce monde
et prends un bouton de la manche de son vêtement.
Fais-le avant la noit
et ton enfant vivra.
 »

Ce faisant, elle lui tend une page, arrachée à un vieux livre, qui contient une liste de personnes qui pourraient être heureuses.

Dans ce court soliloque, on retrouve déjà le style du récitatif employé par Benjamin – chanté, sans la répétition interminable et monotone de la même note que l'on retrouve dans tant d'œuvres modernes antimusicales – ainsi que la variété des couleurs du chant de Crebassa : elle prononce avec soin chaque mot, chacune des phrases du texte – des phrases généralement courtes, voire tronquées. Le poids intéressant donné à chaque consonne, l'accentuation des consonnes dans le chant, tout en facilitant la compréhension du texte, donnent au récitatif force et vitalité.

Dès la première scène, on est frappé par l'effet visuel des chanteurs et des acteurs qui se fondent dans leurs reflets sur les murs métalliques – un effet qui sera accentué dans les scènes suivantes.

La Femme part à la recherche du bouton sur la manche du vêtement de la personne heureuse. Avant les trois premières rencontres, elle brandit la feuille et la lit, et les trois fois où elle la lit, on entend plus ou moins le même récitatif, dans le style d'une proclamation, accompagné de cuivres en sourdine, ce qui donne une unité et une cohérence au discours musical. Un autre élément commun à toutes les rencontres, surtout lorsqu'elles se dirigent vers l'échec, est le son discret des cloches.

Dans la deuxième scène, la Femme fait sa première rencontre : un couple d'amants, apparemment très heureux, mais en apparence seulement. En réalité, ils ne s'aiment pas et finissent par se disputer : alors que l’amante rêve d'une relation, sinon stable, du moins exclusive, l'amant est un adepte du polyamour. A ce moment, avec les amants sous les projecteurs, les reflets sur les murs métalliques semblent prendre encore plus d'importance, peuplant la scène.

L'atmosphère musicale est d'abord lyrique, fluide ; la combinaison des voix des amants, la soprano norvégienne Beate Mordal et le contre-ténor canado-persan Cameron Shahbazi, comme dans la musique baroque, crée une atmosphère sensuelle de jeunesse virile. En polyphonie et avec des notes longues, leurs beaux chants tantôt se complètent, tantôt s'entremêlent, tandis que l'orchestre crée une atmosphère quasi mystique - jusqu'au moment de la discussion, bien sûr. Dans l'entretien qu'il a accordé à Opéra Magazine, Benjamin a déclaré que les Fantaisies pour violes de gambe de Purcell avaient changé sa vie de compositeur. La façon dont les voix des amants interagissent au début de la scène, qui contraste avec le chant de la Femme, fait clairement écho à l'œuvre de Purcell. Lorsque les amants commencent à se disputer, la ligne mélodique de l'amant reste sensuelle, avec des notes longues – il ne s'énerve pas trop – mais le chant de l'amante change considérablement, leurs lignes cessent de s'accorder et commencent à contraster.

Déçue par sa première rencontre, la Femme passe à la deuxième de sa liste : un artisan qui arrive enfermé dans un cube d'acrylique et se dit extrêmement heureux. Mais il est heureux grâce à des médicaments psychiatriques car il a été remplacé par des machines dans la fabrique où il travaillait, ce qui l'a ruiné et l'a rendu fou. L'atmosphère musicale est plus mystérieuse, plus sombre, et le chant du baryton, parfois mélismatique, s'étend sur quatre octaves : du grave à l'aigu. L'excellent baryton américain John Brancy parcourt toute sa tessiture et atteint le falsetto avec une totale homogénéité, sans aucune rupture de registre. Lorsqu'il commence à s'exciter, son chant devient plus dur et plus emphatique, et il perd presque complètement le legato. Dans l'orchestre, la musique devient également plus forte et plus dissonante, créant une atmosphère de suspense qui, après que l'artisan a évoqué ses nombreuses tentatives de suicide, se termine sur une manière funèbre (No one will let me die). Comme il fabriquait des boutons, il y a des milliers de boutons de toutes sortes dans sa manche - mais c'est un pauvre malheureux, une victime du progrès et de la société.

La troisième sur la liste, une compositrice célèbre et active, qui a apparemment tout ce qu'il faut pour être heureuse, mais qui est trop peu sûre d'elle et trop égocentrique – au fond, elle est malheureuse, craint de devenir une note de bas de page dans l'histoire et se sent seule. Mordal et Shahbazi reviennent sur scène, le même couple de soprano (la compositrice) et de contre-ténor (son assistant) que lors de leur première rencontre. Ils ne cessent de marcher – sans quitter leur place, mais toujours en simulant la hâte, et une hâte qui, littéralement, ne les mène pas loin. Une fois de plus, leurs chansons se complètent. Du côté de l'orchestre, le son évoque une symphonie contemporaine, avec les cordes, surtout les violons, qui se détachent en une sorte d'ostinato. Je ne peux m'empêcher de souligner la touche de Bossa Nova qui apparaît lorsque la compositrice mentionne Rio de Janeiro dans la liste des villes qu'elle a visitées ! Au moment où elle dit que, malgré sa célébrité, elle n'est pas heureuse, c'est comme si les cordes se désaccordaient. La mélodie semble devenir sans but, sans éclat.

Fatiguée, découragée, la Femme se lamente dans un air frappant, l'une des pièces centrales de l'œuvre - et une autre démonstration de l'énorme qualité artistique de Crebassa. Seule, oppressée dans son propre esprit, elle chante deux fois, comme un mantra, ce qui était déjà apparu dans la scène d'ouverture : « dead stems of flowers come to life again – why not – why not my son? » La mélodie, avec des variations, est pratiquement celle de la première scène, mais l'orchestration et le chant sont très différents : la sérénité du début a cédé la place à l'agitation et au désespoir. L'orchestre sonne fort, mais Crebassa a suffisamment de voix pour ne pas être couvert. Après une longue pause, la même phrase (dead steams of flowers...) revient avec le texte et la mélodie déformés et dans un environnement musical beaucoup plus calme, comme si elle était engourdie, épuisée, après la crise - un changement d'humeur typique du lamento. Elle termine l'aria en disant qu'elle ne veut plus de liste, mais des miracles.

C'est là, dans cette atmosphère plus calme, qu'apparaît un collectionneur d'art. Brancy, le baryton, autrefois artisan, revient avec un style de chant très différent, avec des lignes plus longues et plus douces. Il passe plus de temps dans la région des basses, mais va jusqu'au falsetto une fois. Accompagné des mêmes cuivres en sourdine, il récite sa propre description sur la liste et ajoute : « J'ai des salles pleines de miracles ». Il guide la Femme à travers des œuvres d'artistes d'époques, d'écoles et de styles différents. Il en va de même pour la musique : des mélodies plus lyriques, voire romantiques, traversent ce tissu orchestral typiquement contemporain. Mais pour que le collectionneur soit heureux, il faut que la Femme l'aime – « Comment pourrais-je vous aimer ? » Embarrassé, le collectionneur solitaire lui révèle le dernier nom de la liste : Zabelle.

Le collectionneur ouvre la porte, permettant à la femme d'entrer dans le jardin de Zabelle. C'est comme si elle entrait dans l'un des tableaux de la collectionneuse - et cela nous rappelle Alice, qui a traversé le miroir du salon et s'est retrouvée dans un jardin. La femme lit à nouveau son catalogue, mais cette fois la lecture est musicalement différente des précédentes, et à la fin, Zabelle continue sa phrase - une caractéristique qui sera répétée plus tard.

Zabelle est le seul personnage de l'opéra à avoir un nom : un nom arménien plein de significations positives, dont l'une est « dévouée à Dieu ». Selon la légende, le jardin d'Eden se trouvait en Arménie ; selon l'histoire, sous la domination ottomane, il y a exactement un siècle, le peuple arménien a été victime d'un génocide. En dehors de la Femme, Zabelle est le seul personnage à ne pas être confondu avec un autre, qui a une interprète exclusive : la très bonne soprano autrichienne Anna Prohaska.

La nuit tombe déjà, le temps s'achève. Dans l'orchestre, la répétition emphatique des notes mi bémol et ré (qui avaient déjà retenti à la fin de chaque rencontre frustrée) crée une atmosphère de suspense. Dans le jardin paradisiaque, outre Zabelle, la Femme dit voir une longue allée d'arbres, un homme endormi sur un banc, un petit garçon lançant son bateau en papier dans l'un des quatre ruisseaux qui irriguent le jardin, une fillette jouant sur une balançoire... le tout au son de la musique. On entendait des bruits d'oiseaux provenant de l'orchestre. Enfin, elle avait trouvé quelqu'un de vraiment heureux ! Mais Zabelle, qui semble être à l'image de la Femme elle-même, lui dit : « Imagine une journée comme celle-ci. La lumière du soleil cède la place à de longues traînées d'ombre comme vient le soir. Mon jardin s’obscurcit – et à présent à la lueur des étoiles des hommes forcent les grilles métalliques : ils envahissent le parc » – dans l'orchestre, on entend des sons de fanfare – « Ils prennent la maison et tout (...). Je fais tomber mon bébé. Il n'a pas l'air d’aller bien – froid, froid – je n’ai plus aucun souvenir de comment j'ai crié. Pas d'enfant. Pas de bateau en papier. Pas de balançoire ni de mari... ». Zabelle montre qu'un moment, un paysage, une image, ne suffisent pas à déterminer le bonheur d'une personne. Elle conclut : « Je ne suis heureuse (...) seulement parce que je n'existe pas ». Zabelle détache un bouton de sa manche et le brandit, mais il y a une barrière invisible qui les sépare.

Pour représenter le jardin paradisiaque de Zabelle, la plus belle scène de l'opéra, Daniel Jeanneteau et Marie-Christine Soma ont orné la scène de projections de peintures chimiques de l'artiste franco-marocain Hicham Berrada. Vives, belles, colorées, mais chimiques, artificielles, illusoires. Dans le programme de salle, Jeanneteau commente qu'il s'agissait de créer « un paradis à la fois somptueux et invivable » : « Le travail d'Hicham Berrada est extrêmement beau plastiquement mais avec ceci de fort qu’il peut représenter une floraison du végétal sans que ce ne soient des fleurs (...). Les œuvres d'Hicham Berrada, ses aquariums, sont en effet des milieux absolument impropres à la vie : ce sont en réalité des substances chimiques extrêmement dangereuses, mais qui produisent cette apparence de vie et de splendeur ».

J'ai mentionné plus haut que Zabelle, à plus d'une occasion, continue la phrase que la Femme était en train de chanter. Une autre constante du duo entre la Femme et Zabelle est que, tandis que l'une chante une longue ligne racontant quelque chose, l'autre fait de brefs contrepoints dans le registre plus grave. Bien que Crebassa et Prohaska aient des timbres très différents, leurs voix se fondent parfaitement, ce qui renforce l'idée qu'il existe un lien entre elles - peut-être s'agit-il de la même personne, peut-être Zabelle est-elle une image de la Femme.

À la fin énigmatique, lorsque, selon le récit de la Femme, la scène initiale revient, les femmes qui la regardent disent que la page a été arrachée du vaste livre des morts, et que personne ne peut y modifier. La femme sourit et leur montre le bouton qui brille dans sa main.

La fin, bien qu'énigmatique, montre clairement que le bouton lumineux, plus qu'une lueur d'espoir ou une lumière pour comprendre la vie, comme les lampes de Kisha Gotami, s'oppose au fatalisme du « livre des morts ». Les fruits de la vie et du bonheur ne sont pas des concepts si simples, ils ne peuvent pas être déterminés en une seule journée, ils ne peuvent pas tenir sur une feuille de papier, ils ne peuvent pas être énumérés – « Je déteste les listes », dit Zabelle.

Mais surtout, il ne faut pas perdre de vue que, parce qu'il s'agit d'un conte de fées, d'un voyage mental, la situation de la perte d'un enfant doit être prise au sens figuré et non au sens propre. En somme, Picture ne semble pas être une œuvre de deuil. L'œuvre contient les frustrations de la vie d'une femme qui, comme toutes les femmes - ou tous les hommes - y compris Zabelle, se crée un paradis d'illusions, mais qui, dans la vie réelle, est confrontée à un monde différent et imprévisible, passe par les pertes et les séparations les plus dures, les succès et les déceptions, tant dans le domaine personnel, dans la vie amoureuse, que dans le domaine intellectuel ou professionnel. « Je suis heureuse (...) parce que je n'existe pas », dit Zabelle, au milieu de son paradis « somptueux et invivable ».

En ce sens, outre les sources citées par Crimp et les deux œuvres de Lewis Carroll relatant les aventures d'Alice, il est impossible de ne pas penser au Candide de Voltaire. Il s'agit d'une autre saga de rencontres (et de mésalliances) conçue dans le format des contes de fées, qui part de l'illusion – fataliste et aliénante – que nous vivons dans le meilleur des mondes possibles, mais les personnages ne tardent pas à révéler leurs malheurs. Voltaire a écrit Candide fortement frappé par le tremblement de terre qui a détruit Lisbonne et la guerre de Sept Ans : deux tragédies, l'une naturelle et l'autre causée par l'homme. Dans Candide, à la fin du chapitre 12, lors du voyage en bateau de l'Europe vers l'Amérique du Sud, la vieille (qui, malgré sa noble origine, n'a pas de nom, comme c'est le cas dans les contes de fées et chez les personnages de Crimp), après avoir raconté les malheurs qu'elle a vécus, propose à Cunegunde : « donnez-vous un plaisir, engagez chaque passager à vous conter son histoire, et s’il s’en trouve un seul qui n’ait souvent maudit sa vie, qui ne se soit souvent dit à lui-même qu’il était le plus malheureux des hommes, jetez-moi dans la mer la tête la première ». Après avoir écouté les autres passagers, Candide et Cunegunde concluent que la vieille avait raison. Plus tard, au chapitre 24, Candide pense avoir vu un couple vraiment heureux : un moine et une jeune fille. Martin, le serviteur de Candide, n'est pas convaincu : « Je gage que non. Il n’y a qu’à les prier à dîner, dit Candide, et vous verrez si je me trompe ». La fille était Paquette, une prostituée malheureuse qui a beaucoup souffert et qui doit toujours faire semblant d'être heureuse devant ses clients. Le moine, le frère Giroflée, se révèle extrêmement malheureux dans l'ordre auquel il appartient. Candide se retrouve lui aussi avec un jardin, mais pas celui de Zabelle, qui n'existe pas, mais celui de Voltaire, celui de la vie pratique, qu'il faut sans cesse cultiver : « Il faut cultiver notre jardin ».

Si le lecteur me permet une autre comparaison, cette fois-ci dans le monde de l'opéra, je citerai Les Contes d'Hoffmann d'Offenbach. Lorsque, devant Zabelle, la Femme résume les résultats de leurs rencontres, elle dit : « Le collectionneur était seul ; la compositrice obsédée par sa personne ; les amants n’étaient pas amoureux ; et l'artisan - un pauvre homme brisé ». Dans les Contes, Hoffmann résume ses trois échecs amoureux : « Olympia ! Brisée... Antonia ! Mort !... Giulietta ah ! ». Dans l'opéra d'Offenbach, chaque amour idéal qu'Hoffmann semble trouver s'avère impossible, tout comme le bonheur est inaccessible pour tous les personnages de Picture. Dans les deux opéras, le protagoniste, qui raconte l'histoire, suit un processus d'apprentissage à travers chaque rencontre ; dans les deux opéras, chaque rencontre apporte de l'étrangeté et représente un voyage à la recherche de la connaissance de soi. Une autre similitude entre les deux œuvres est que chaque scène a son propre cadre musical - sans que les œuvres respectives ne cessent d'avoir une unité.

Il existe cependant une similitude plus intéressante entre les opéras d'Offenbach et de Benjamin : l'identification d'un chanteur (ou d'un groupe de chanteurs) à plus d'un personnage – et ce de façon bien au-delà d'une simple économie de distribution. Dans les Contes, la figure mystérieuse d'une sorte de Méphistophélès est toujours présente et interprétée par le même baryton : Lindorf (dans le prologue et l'épilogue), Coppelius (au premier acte, celui d'Olympia), le Dr Miracle (au deuxième acte, celui d'Antonia) et Dapertutto (au troisième acte, celui de Giulietta). Parfois (et c'est très bien ainsi), c'est la même soprano qui joue Stella, Olympia, Antonia et Giulietta, ce qui montre bien qu'il s'agit de facettes d'une même personne. Dans Picture, un couple composé d'une soprano et d'un contre-ténor joue à la fois le couple d'amoureux et le compositeur et son assistant ; le même baryton joue l'artisan et le collectionneur. Cela nous permet de reconnaître le chanteur ou le couple lorsqu'ils reviennent dans des situations différentes, nous donnant le sentiment qu'il s'agit de représentations, peut-être d'archétypes, plutôt que de personnes spécifiques et bien définies - ce qui est encore plus fort lorsque nous nous rappelons que tout le voyage se déroule dans l'esprit de la Femme.

Si les protagonistes des deux opéras ont en commun d'être des narrateurs et de suivre un processus de connaissance de soi au cours de leur voyage, il existe une différence importante : dans les Contes, le protagoniste raconte ses amours : il est donc engagé émotionnellement dans chaque rencontre et participe à chaque échec ; dans Picture, la Femme maintient une certaine distance, de sorte que sa confrontation avec l'étranger devient encore plus évidente.

Pour conclure, je ne peux que souligner le privilège que j'ai eu de pouvoir assister à cette première mondiale, sous la direction musicale du compositeur lui-même, avec une distribution impeccable choisie par lui et, de l'orchestre à la régie, avec l'équipe qui accompagne habituellement son travail et ses créations.

L'opéra, sans doute l'une des plus importantes créations de ce début de siècle, est disponible en vidéo sur Arte et Medici. Cela vaut la peine de la regarder !


 

Um dia de estreia em Aix-en-Provence

de Fabiana Crepaldi

Quarta ópera da dupla George Benjamin e Martin Crimp, a obra estreou, com grande sucesso, na 75ª edição do Festival d’Aix-en-Provence.

Aix en Provence, 23/07/2023 - Neste pequeno ensaio, abordo a que, a meu ver, foi a grande marca e o ponto alto desta edição: a estreia mundial de Picture a Day Like This, da já consagrada dupla George Benjamin e Martin Crimp.

Quando penso no Festival d’Aix, três ideias me vêm à mente: Mozart (um compositor quase sempre presente), estreias mundiais e produções modernas, que na maioria das vezes podem ser classificadas como Regietheater – uma forma autoral de fazer teatro que não se resume à mera ilustração do libreto. Tudo isso esteve presente nesta que foi a minha primeira – espero que de muitas – ida ao evento.

Mozart, é bem verdade, dessa vez não deve ter ficado muito satisfeito. Così Fan Tutte – título que tem uma importância especial no festival, que esteve presente em sua primeira edição há 75 anos e que lá ganhou uma ótima produção de Patrice Chéreau em 2005 – foi confiada a Dmitri Tcherniakov (direção cênica) e a Thomas Hengelbrock (direção musical); era uma das produções mais aguardadas da edição deste ano. Foi uma decepção geral, no entanto: cenicamente, embora com o selo Tcherniakov de qualidade, era impossível fechar os olhos às diversas incoerências; musicalmente, cantores com problemas de técnica inaceitáveis em um evento desse porte, com direito, inclusive, à afinação imprecisa.

Picture a Day Like This não foi a primeira obra de Benjamin e Crimp a estrear em Aix, esse terreno fértil não só para a produção de vinhos e lavanda, mas também para novas óperas. Foi lá, em 2012, que estreou o primeiro grande sucesso da dupla: Written on Skin. Outra estreia, mais recente, que ganhou grande e merecido destaque foi, em 2021, a da impactante Innocence, última obra da compositora Kaija Saariaho, que nos deixou em junho deste ano.

Além de Written on Skin e Picture, Benjamin e Crimp contam com duas outras obras em seu catálogo: Into the Little Hill, que estreou em Paris, no anfiteatro da Opéra Bastille, em 2006, e Lessons in Love and Violence, criada em 2018 na Royal Opera House, em Londres. A primeira coisa a saltar aos olhos é que, das quatro óperas dessa dupla inglesa, três estrearam na França – país onde se deu boa parte da formação de Benjamin, que foi inclusive aluno de Messiaen – e apenas uma na Inglaterra.

Se Written on Skin e Lessons in Love and Violence são tragédias psicológicas violentas, com direito a traições e ciúmes, opressivas tanto do ponto de vista musical quanto em relação ao enredo, o ambiente de Picture a Day Like This é bem diferente: retoma o tom camerístico e de conto de fadas de Into the Little Hill. O que todas as óperas têm em comum, porém, é que tratam de temáticas extremamente contemporâneas a partir de histórias antigas, geralmente medievais. Está, pois, presente nesse conjunto a essência atemporal da alma humana.

A exemplo dos contos de fadas, em Picture os personagens não têm nomes próprios, mas são nomeados a partir de alguma característica (sugerindo tratar-se de arquétipos, e não de uma pessoa específica), o personagem principal está em uma situação de vulnerabilidade (não é órfão, como é comum nos contos de fadas, mas o oposto: perdeu um filho) e a narrativa não é realista, há o elemento mágico, ou melhor, a fantasia. Além disso, há um relato de aprendizagem, através de uma sucessão de encontros, nos moldes de Alice no País das Maravilhas e Alice através do Espelho, de Lewis Carroll.

Como nas Alices, em Picture os encontros ocorrem na mente da protagonista, uma Mulher que, diferente de Alice, não tem nome. Também como em Alice, quem é submetida a essa aprendizagem é um personagem feminino, e não o jovem herói de um típico romance de formação (Bildungsroman) do século XIX. Ao contrário de Alice, no entanto, em Picture a protagonista não é uma menina, mas uma mulher jovem: uma mãe que perdeu o seu filho pequeno (Mal meu filho havia começado a falar frases completas, ele morreu”).

No programa de sala, Martin Crimp escreveu que seu ponto de partida foi a fábula popular A Camisa do Homem Feliz, que narra a história de um rei que padecia de uma doença mortal (em algumas versões, como a presente em Fábulas Italianas, de Italo Calvino, era o filho do rei que estava doente e deprimido) e que, para se curar, precisava trocar de camisa com um homem realmente feliz. Em cada homem com quem se encontrava, o rei descobria uma frustração. Desanimado, foi caçar para tentar se distrair e ouviu um camponês cantando, feliz da vida. O rei foi ter com ele e perguntou-lhe se ele queria segui-lo para a capital, ao que ele respondeu (segundo a tradução em português do livro de Calvino): (…) não mesmo, obrigado. Não trocaria de lugar nem com o Papa. (…) Estou contente assim e basta”. O rei não cabia em si de alegria: felizmente, havia encontrado um homem feliz! Logo percebeu, contudo, que o homem feliz não tinha camisa.

Como a história é um tanto moralista, Crimp começou a fazer uma pesquisa sobre o tema. Logo se deparou com o Romance de Alexandre, que data de aproximadamente 300 a.C. e conta a vida de Alexandre, o Grande. Quando estava para morrer, Alexandre escreveu à sua mãe recomendando que convidasse para o seu funeral, independente da classe social, todas as pessoas que nunca tivessem conhecido a infelicidade. Resultado: o funeral ficou vazio, mostrando à mãe infeliz que a dor e a morte são universais.

Para Crimp, essa passagem do Romance de Alexandre é uma severa lição de estoicismo, impregnada de um espírito militar. Sua busca continuou. Finalmente, ele achou um texto com uma temática próxima a esse trecho do Romance, mas, segundo ele, muito mais misterioso e muito mais humano: o conto budista do grão de mostarda, que conta a história da jovem Kisha Gotami, cujo filho havia morrido. Desesperada, a Kisha Gotami saiu com a criança no colo em busca de um remédio, recomendaram-lhe que fosse ver o Buda. O Buda lhe disse que o filho e ela podiam ser curados por um simples grão de mostarda branca, mas que esse grão tinha que vir de uma casa onde nunca tivesse entrado a morte. Ela saiu de casa em casa, mas todos sempre lhe ofereciam o grão com a ressalva de que alguém já havia ali morrido. Como a mãe de Alexandre, mas de modo mais humano, Kisha Gotami aprendeu que a dor e a morte eram universais. No fim da história, ela se consagra à religião e, no templo, se dá conta de que a duração da chama de cada lamparina varia, como acontece com a vida dos seres humanos.

Em Picture, essas três parábolas, de tempos, sociedades e culturas tão distintos, se transformam e vêm ao encontro da nossa cultura e do nosso tempo. A maior fonte de dor continua lá representada através da mãe com o filho morto – stabat mater dolorosa.

Essa jornada psicológica, como observou Benjamin em entrevista publicada no programa de sala, nada tem de realista. A encenação minimalista e de bom gosto de Daniel Jeanneteau e Marie-Christine Soma – que têm participado das criações das obras de Benjamin e Crimp e que, além da direção cênica, assinam a cenografia, a dramaturgia e a luz – ambientou a trama na mente da Mulher: em volta do palco, uma parede de metal confina e espelha a cena de modo um pouco embaçado. O cenário ganhou mais força com os ótimos e significativos figurinos de Marie La Rocca.

Théâtre du Jeu de Paume em Aix-en-Provence

Com orquestra composta por cerca de vinte instrumentistas – na qual predominam madeiras e metais, e não as cordas – e com apenas cinco solistas em cena, a ópera tem dimensões e sonoridade camerísticas. Não à toa, o espaço escolhido para a estreia, que contou com a Mahler Chamber Orchestra dirigida pelo próprio compositor, foi o pequeno e aconchegante Théâtre du Jeu de Paume, um teatro no estilo italiano, inaugurado em 1787 e totalmente renovado em 2000, cuja capacidade não chega a 500 pessoas. O nome se deve ao fato de que foi construído no lugar em que havia um Jeu de Paume (um jogo antecessor do tênis) real. A foto acima mostra o teatro mais ou menos a partir do local de onde assisti a Picture. Com ingressos esgotados, teatro lotado e em dia de forte calor, o ar-condicionado foi rapidamente vencido, mas isso não intimidou o público, que assistiu, compenetrado, à última récita dessa envolvente ópera.

Quando falamos em ‘teatro musical’, isso evoca em meu espírito, antes de qualquer coisa, a voz humana: essa coisa maravilhosa, eterna e tão majestosa. Eu a considero verdadeiramente como o elemento central”, declarou Benjamin em entrevista publicada no programa de sala. As palavras são muito importantes, evidentemente, mas elas devem ser cantadas, verdadeiramente cantadas”. Para ele, quando um cantor fala durante uma ópera, como ocorre em Carmen ou em A Flauta Mágica, há um rompimento, algo parece se quebrar.

Sobre o canto, Benjamin afirmou que duas coisas o incomodam em obras contemporâneas. Uma delas é a escritura vocal “em ziguezague”, com grandes saltos, tão em voga. Outra é que, em muitas obras, os cantores têm muito vibrato, a ponto de ser difícil de definir em que nota eles estão cantando. Ele explica que quando o acompanhamento era simples, como ocorria na época de Verdi, por exemplo, era fácil saber a nota. Mas na música moderna, as linguagens harmônicas não são mais as mesmas e eu suspeito que os cantores não sabem mais precisamente em que altura devem cantar: esse vibrato traduz uma certa insegurança e uma falta de confiança”. É, pois, necessário ajudar o cantor, mas sem que o canto seja dobrado pela orquestra, sem usar uma linguagem rítmica ou musical do século XIX. Como explica o musicólogo Pierre Rigaudière, também no programa, citando o próprio Benjamin, o compositor recorre a uma escritura orquestral polifônica que atua como uma caixa de ressonância seletiva a fim de que ‘as linhas vocais estejam claramente incrustadas no tecido orquestral e no ambiente harmônico, tanto para o cantor quanto para o público’”.

O resultado disso é uma música claramente moderna, contemporânea, inovadora, que nos envolve sem que as suas dissonâncias causem uma sensação de incômodo, sem que fiquemos sem rumo em meio à complexidade rítmica e melódica. A orquestra, polifônica, é transparente e jamais encobre os cantores. O canto tem elementos do recitativo secco e momentos de um arioso fluido, com direito até a alguns melismas em momentos específicos – indicando, sobretudo, êxtase ou insanidade.

Como Mozart e tantos outros grandes compositores da história, Benjamin compôs pensando nos cinco intérpretes que haveriam de criar a sua ópera, em suas características vocais. Essa é uma experiência que tanto os cantores quanto nós, o público, só podemos vivenciar com obras contemporâneas: ouvimos as obras como e para quem foram compostas.

Em entrevista publicada na edição de junho da Opéra Magazine, Benjamin contou que viu Marianne Crebassa, criadora da protagonista de Picture, em um recital na Wigmore Hall, em Londres, e a achou fenomenal, com graves impressionantes. Em Picture, em cada encontro da Mulher em busca da pessoa feliz, a tessitura vai caminhando para o grave: no início, uma voz mais leve e delicada a apresenta à suposta pessoa feliz, como que pedindo licença, mas a gravidade da situação, o drama daquele que, na realidade, é um infeliz, leva a cantora à tessitura grave.

Crebassa é realmente fenomenal, foi a segunda vez que tive a sorte de vê-la ao vivo: a primeira foi em 2018, como uma inesquecível Mélisande no Pelléas et Mélisande, de Debussy, da Staatsoper de Berlim, justamente a ópera que Benjamin diz ser a sua favorita e que nitidamente influenciou a sua escrita, sobretudo das linhas de canto. Crebassa tem uma voz homogênea, de ótima projeção, com bom peso na região média-grave. Mais importante que isso: sua voz tem nuances, possui um rico colorido, ela sabe ter certa gravidade, manter a tensão do personagem, sem perder o brilho de seu belo timbre.

A ópera, que dura cerca de uma hora, é constituída por sete cenas curtas. Na primeira e na quinta cenas, a Mulher, que além de protagonista é narradora, está sozinha; justamente a quinta cena, na qual ela canta a sua ária, ocupa uma posição central e pode ser considerada um ponto de inflexão.

Marianne Crebassa na primeira cena de Picturea Day Like This

A música começa discretamente: uma única nota dá o tom e fica soando um tempo. A Mulher inicia o seu canto, a cappella, contando sobre a sua criança com a doçura de uma canção de ninar que, rapidamente, ganha um toque grave e trágico (than he had died), e procede como uma lamentosa cantilena. Ela não nos diz o motivo da morte: só fala da raiva que sentiu, mas que, mesmo assim, cumpriu o seu papel: lavou-o, e o enrolou com a seda habitual para queimar” e fechou os seus olhos. Conta, ainda, que mulheres vieram buscá-lo – buscá-lo para ser queimado”, sugerindo um ritual de cremação de alguma religião oriental, sobretudo da Índia, como Budismo, Hinduísmo, Sikhismo… Foi aí que ela disse não!” – e foi nesse momento que a orquestra começou a soar, discretamente – e questionou: a terra fria – caules mortos de flores voltam à vida – por que não – por que não meu filho?” Então – nos conta sob uma música com mais ritmo, mais cores e certa ironia, certo tom de aventura — uma das mulheres sorriu e falou-lhe:

Ache uma pessoa feliz neste mundo
e arranque um botão da manga de sua roupa.
Faça isso antes de anoitecer
e seu filho viverá”

Ao dizer isso, ela lhe deu uma página, arrancada de um velho livro, que continha uma lista de candidatos a pessoas felizes.

Nesse curto solilóquio, já é possível perceber o estilo do recitativo empregado por Benjamin – cantado, sem aquela infindável e monótona repetição da mesma nota que há em tantas obras modernas antimusicais – bem como a variedade de coloridos do canto de Crebassa: ela pronuncia cuidadosamente cada palavra, cada uma das frases do texto – frases estas, em geral, curtas, truncadas até. O interessante peso dado a cada consoante, a forma acentuada como as consoantes soam no canto, além de facilitar a compreensão do texto, conferem força e vitalidade ao recitativo.

Desde essa primeira cena já chama a atenção o efeito visual de cantores e atores se misturando aos seus vultos nas paredes metálicas – efeito que será acentuado nas cenas seguintes.

A Mulher parte em busca do botão da manga da camisa da pessoa feliz. Antes dos três primeiros encontros, ela segura a folha e a lê, e nas três vezes em que faz a leitura, ouvimos mais ou menos o mesmo recitativo, no estilo de uma proclamação, acompanhado por metais em surdina, conferindo unidade e coerência ao discurso musical. Outra característica comum a todos os encontros, sobretudo quando estão caminhando para o fracasso, é um discreto soar de sinos.

Marianne Crebassa, Beate Mordal e Cameron Shahbazi na segunda cena de Picturea Day Like This

Na segunda cena, a Mulher tem o seu primeiro encontro: um casal de amantes, aparentemente muito felizes, mas só aparentemente. Na verdade, eles não se amam e acabam brigando: enquanto a amante sonha com um relacionamento, se não estável, no mínimo exclusivo, o amante é adepto do poliamor. Nesse momento, com os amantes sob os focos de luz, os reflexos nas paredes metálicas parecem ganhar até mais relevância, povoando a cena.

Inicialmente, o ambiente musical é lírico, fluido; a combinação das vozes dos amantes, a soprano norueguesa Beate Mordal e o contratenor persa-canadense Cameron Shahbazi, como na música barroca, cria um ambiente sensual, de uma juventude viril. Em polifonia e com notas longas, seus belos cantos ora se complementam, ora se entrelaçam, enquanto a orquestra cria um clima quase místico – isso, claro, até o momento da discussão. Na entrevista à Opéra Magazine, Benjamin mencionou que as Fantasias para violas da gamba de Purcell mudaram a sua vida de compositor. A forma como as vozes dos amantes interagem no início da cena, que contrasta com o canto da Mulher, traz nítidos ecos dessa obra genial de Purcell. Quando os amantes se põem a discutir, a linha melódica do amante continua sensual, com notas longas – ele não se abala muito –, mas o canto da amante se altera consideravelmente, suas linhas deixam de se combinar e passam a contrastar.

Marianne Crebassa e John Brancy na terceira cena de Picturea Day Like This

Decepcionada com seu primeiro encontro, a Mulher parte para o segundo da lista: um artesão que chega aprisionado em um cubo acrílico e que se diz extremamente feliz. Ele, porém, é feliz à base de medicamento psiquiátrico, pois foi substituído por máquinas na fábrica onde trabalhava, o que o arruinou e o levou à loucura. O ambiente musical é mais misterioso, mais sombrio, e o canto do barítono, melismático em alguns momentos, abrange quatro oitavas: da região grave até o registro agudo. O excelente barítono americano John Brancy passeia por toda a sua tessitura e chega ao falsetto com total homogeneidade, sem qualquer quebra em seu registro. Quando começa a entrar em um estado de excitação, seu canto, mais duro e enfático, perde quase que totalmente o legato. Na orquestra, a música também se torna mais forte e dissonante, criando um ambiente de suspense que, após o artesão mencionar suas inúmeras tentativas de suicídio, termina de modo fúnebre (No one will let me die). Como antes ele fazia botões, em sua manga havia milhares de botões de todos os tipos – mas ele é um pobre infeliz, uma vítima do progresso e da sociedade.

Beate Mordal, Cameron Shahbazi e Marianne Crebassa na quarta cena de Picturea Day Like This

A terceira da lista, uma compositora extremamente bem-sucedida, famosa, ativa, que aparentemente tem tudo para ser feliz, mas é insegura e autocentrada demais para isso – em seu íntimo, é descontente, teme virar uma nota de rodapé da história e é solitária. Mordal e Shahbazi retornam ao palco, é o mesmo par de soprano (a compositora) e contratenor (seu assistente) do primeiro encontro. Eles não param de andar – sem sair do lugar, mas sempre simulando pressa, e uma pressa que, literalmente, não os leva longe. Mais uma vez, seus cantos se complementam. Na orquestra, um som que sugere uma sinfonia contemporânea, com as cordas, sobretudo os violinos, se destacando em uma espécie de ostinato. Não resisto a destacar o toque de Bossa Nova que surge quando a compositora cita o Rio de Janeiro na lista das cidades em que já esteve! No momento em que ela diz que, mesmo com toda a fama, não é feliz, é como se as cordas desafinassem. A melodia parece se tornar sem rumo, sem brilho. 

Marianne Crebassa durante a sua ária, na quinta cena de Picturea Day Like This

Cansada, desanimada, a Mulher se lamenta em uma impactante ária, um dos momentos centrais da obra – e mais uma demonstração da enorme qualidade artística de Crebassa. Sozinha, oprimida dentro da sua própria mente, ela canta duas vezes, como se fosse um mantra, o que já havia aparecido na cena inicial: “dead stems of flowers come to life again – why not – why not my son?” A melodia, com variações, é praticamente a mesma da primeira cena, mas a orquestração e o canto diferem bastante: a serenidade do início deu lugar à agitação, ao desespero. A orquestra soa forte, mas Crebassa tem voz de sobra para não ser encoberta. Após uma longa pausa, a mesma frase (“dead steams of flowers…”) retorna com o texto e a melodia distorcidos e em um ambiente musical bem mais calmo, como se ela estivesse entorpecida, exausta, após a crise – uma oscilação de humor típica do lamento. Ela termina a ária dizendo não querer mais a lista, mas sim milagres.

John Brancy e Marianne Crebassa na sexta cena de Picturea Day Like This

É aí, nesse ambiente mais tranquilo, que aparece um colecionador de arte. Brancy, o barítono, outrora artesão, retorna com um estilo de canto bem diferente, com linhas mais longas e suaves. Ele permanece mais tempo na região grave, mas vai ao falsetto uma vez. Acompanhado pelos mesmos metais em surdina, ele mesmo recita a sua descrição na lista e completa: Eu tenho salas repletas de milagres”. Ele a conduz por obras de artistas de diversas épocas, escolas e estilos. E assim é a música: melodias mais líricas, digamos até mais românticas, transitam em meio a esse tecido orquestral tipicamente contemporâneo. Para que o colecionador seja feliz, contudo, é preciso que a Mulher o ame – Como eu poderia amá-lo? Não!” Constrangido, o solitário colecionador lhe indica o último nome da lista: Zabelle.

Anna Prohaska e Marianne Crebassa na sétima cena de Picture a Day Like This

O colecionador abre a porta, permitindo que a Mulher penetre no jardim de Zabelle. É como se ela estivesse entrando em um dos quadros do colecionador – e aqui nos lembramos de Alice, que atravessou o espelho da sala de casa e foi parar em um jardim. A Mulher volta a ler o seu catálogo, mas, dessa vez, a leitura é musicalmente diferente das anteriores, e, no final, Zabelle continua a sua frase – recurso este que será repetido mais adiante.

Zabelle é a única personagem da ópera que possui um nome: um nome armênio carregado de significados positivos – um dos significados é “comprometida com Deus”. Segundo a lenda, o Jardim do Éden ficava na Armênia; segundo a História, sob o domínio dos otomanos, há exatamente um século, o povo armênio foi vítima de um genocídio. Fora a Mulher, Zabelle é o único personagem que não se confunde com nenhum outro, que ganha uma intérprete exclusiva: a ótima soprano austríaca Anna Prohaska.

A tarde já estava caindo, o tempo estava chegando ao fim. Na orquestra, a repetição enfática das notas Mi bemol e Ré (que já haviam soado ao fim de cada encontro frustrado) cria um clima de suspense. No jardim paradisíaco, além de Zabelle, a Mulher diz ver um longo caminho de árvores, um homem adormecido em um banco, um menino pequeno lançando o seu barquinho de papel nos córregos que irrigam o jardim, uma menina brincando em um balanço… tudo ao som de uma música. Ouvem-se sons de pássaros vindos da orquestra. Finalmente, ela tinha encontrado alguém realmente feliz! Zabelle, no entanto, que parece ser uma imagem da própria Mulher, lhe diz: “Imagine um dia como este. A luz do sol dá lugar a longos rastros de sombra ao anoitecer. Meu jardim se torna escuro – e à luz das estrelas, homens forçam os portões de metal: eles ocupam o parque” – na orquestra, ouvem-se sons de fanfarra – Eles tomam a casa e tudo (…). Deixo cair meu bebê. Ele não parece bem – frio, frio – não me lembro do quanto gritei. Sem criança, sem barquinho de papel, sem balanço ou marido…”. Zabelle mostra que um momento, uma paisagem, um “quadro”, não é o suficiente para determinar a felicidade de uma pessoa. E conclui: “Eu sou feliz apenas (…) porque eu não existo”. Zabelle estende o botão para a Mulher, mas há uma barreira que as separa.

Para representar o jardim paradisíaco de Zabelle, a mais bela cena da ópera, Daniel Jeanneteau e Marie-Christine Soma envolveram o palco com projeções dos quadros químicas do artista plástico franco-marroquino Hicham Berrada. Vivas, belas, coloridas, mas químicas, artificiais, uma ilusão. No programa de sala, Jeanneteau comenta que a ideia era criar um paraíso ao mesmo tempo suntuoso e inviável: O trabalho de Hicham Berrada é extremamente belo plasticamente e com a vantagem de poder representar uma floração de vegetais sem utilizar flores (…). As obras de Hicham Berrada, seus ‘aquários’, são, em efeito, meios absolutamente impróprios à vida: são, na realidade, substâncias químicas extremamente perigosas, mas que produzem essa aparência de vida e de esplendor”.

Acima, já comentei que Zabelle, por mais de uma vez, continua a frase que a Mulher estava cantando. Outra característica constante do dueto entre a Mulher e Zabelle é que enquanto uma canta uma linha mais longa narrando algo, a outra faz curtos contrapontos na região mais grave. Embora Crebassa e Prohaska tenham timbres bem distintos, suas vozes se combinam perfeitamente, reforçando a ideia de que há uma ligação entre elas – são a mesma pessoa, Zabelle é uma imagem da Mulher, ou algo do gênero.

No enigmático final, quando, segundo a narrativa da Mulher, a cena inicial retorna, as mulheres que a observam falam que a página havia sido arrancada do vasto livro dos mortos, e ninguém poderia alterar isso. A Mulher sorri e mostra-lhes o botão brilhando na palma de sua mão.

O final, embora enigmático, deixa claro que o botão brilhante, mais que um brilho de esperança ou uma luz para a compreensão da vida, como as lamparinas de Kisha Gotami, se contrapõe ao fatalismo do “livro dos mortos”. Os frutos da vida e a felicidade não são conceitos tão simples, tão bem determinados, não podem ser determinados em um único dia, não cabem em uma folha, não podem ser listados – Eu detesto listas”, diz Zabelle.

Acima de tudo, porém, não podemos perder de vista que, por ser um conto de fadas, uma jornada mental, a situação da perda do filho deve ser tomada em um sentido figurado, e não literal. Em outras palavras, Picture não me parece ter o luto por tema. Na obra, estão presentes as frustrações da vida de uma mulher que, como todas as mulheres — ou todas as pessoas –, inclusive Zabelle, cria um paraíso de ilusões, mas, na vida real, enfrenta um mundo diferente e imprevisível, passa pelas mais duras perdas e separações, sucessos e desilusões, tanto no campo pessoal, na vida amorosa, quanto no intelectual ou profissional. “Eu sou feliz apenas (…) porque eu não existo”, diz Zabelle, em meio a seu paraíso “suntuoso e inviável”.

Nesse sentido, além das fontes citadas por Crimp e das duas obras de Lewis Carroll contando as aventuras de Alice, é impossível não nos lembrarmos de Candide, de Voltaire. É outra saga de encontros (e desencontros) concebida no formato dos contos de fadas, que parte da ilusão — fatalista e alienante — de que vivemos no melhor dos mundos possíveis, mas os personagens não demoram para revelar as suas infelicidades. Voltaire escreveu Candide fortemente impactado pelo terremoto que destruiu Lisboa e pela Guerra dos Sete Anos: duas tragédias, uma natural e a outra provocada pelo homem. Em Candide, no final do capítulo 12, em viagem de navio da Europa para a América do Sul, a velha (que, apesar de sua origem nobre, não tem nome, como ocorre nos contos de fadas e com os personagens de Crimp), após ter narrado as desgraças por que passou, propõe a Cunegunde (na tradução de Mário Laranjeira): levai cada passageiro a contar-vos a sua história; e se houver um só que não tenha amaldiçoado a vida com frequência, que não tenha dito muitas vezes a si mesmo que era o mais infeliz dos homens, atirai-me ao mar de cabeça”. Após ouvir os outros passageiros, Candide e Cunegunde concluem que a velha tinha razão. Mais adiante, no capítulo 24, Candide julga ter visto um casal realmente feliz: um monge e uma moça. Martino, o criado de Candide, não se ilude: Aposto que não [são felizes]”É só convidá-los para jantar”, disse Candide, e vereis se estou enganado”. A moça era Paquette, uma prostituta infeliz que havia passado por variados males e que sempre tinha que simular felicidade diante dos seus clientes. O monge, o irmão Giroflée, revela-se extremamente infeliz com a ordem a que pertence. Candide também acaba com um jardim, mas não o de Zabelle, que não existe, e sim o de Voltaire, o da vida prática, que precisa ser incessantemente cultivado: “Il faut cultiver notre jardin“.

Se o leitor me permitir mais uma comparação, dessa vez do mundo da ópera, cito Les Contes d’Hoffmann, de Offenbach. Quando, diante de Zabelle, a Mulher resume os resultados dos seus encontros, ela fala: O colecionador era solitário; a compositora, obcecada por si mesma; os amantes não se amavam; e o artesão – um pobre homem arruinado”. Nos Contos, Hoffmann resumiu seus três malsucedidos encontros amorosos: Olympia! Despedaçada!… Antonia! Morta!… Giulietta ah!”. Na ópera de Offenbach, cada amor ideal que Hoffmann parece encontrar acaba por se revelar impossível, da mesma forma que a felicidade é inalcançável para cada personagem de Picture. Em ambas as óperas, o protagonista, que é quem está narrando a história, sofre um processo de aprendizado ao longo de cada encontro; em ambas as óperas, cada encontro traz um estranhamento e representa um caminho em busca do autoconhecimento. Outra similaridade entre as duas obras é que cada quadro tem o seu próprio ambiente musical próprio – isso sem que as respectivas obras deixem de ter uma unidade.

Há, contudo, uma semelhança mais interessante entre as óperas de Offenbach e de Benjamin: a identificação de um cantor (ou grupo de cantores) com mais de um personagem – e de um modo que vai muito além de mera economia de elenco. Nos Contos, a misteriosa figura de uma espécie de Mefistófeles está sempre presente e é feita pelo mesmo barítono: Lindorf (no prólogo e no epílogo), Coppelius (no primeiro ato, o de Olympia), Dr. Miracle (no segundo ato, o de Antonia) e Dapertutto (no terceiro ato, o de Giulietta). Algumas vezes (e é ótimo quando isso acontece), é a mesma soprano que faz Stella, Olympia, Antonia e Giulietta, deixando claro que são facetas da mesma pessoa. Em Picture, um casal formado por uma soprano e um contratenor faz tanto o casal de amantes quanto a compositora e seu assistente; o mesmo barítono faz tanto o artesão quanto o colecionador. Isso nos permite um reconhecimento do cantor ou casal quando ele retorna em situação diversa, trazendo uma sensação de que são representações, talvez arquétipos, não pessoas específicas e bem definidas – o que ganha mais força quando nos lembramos que toda a jornada se passa na mente da Mulher.

Se os protagonistas das duas óperas têm em comum que são ambos narradores e que sofrem um processo de autoconhecimento em sua jornada, há uma importante diferença: nos Contos o protagonista narra os seus amores e, portanto, se envolve emocionalmente a cada encontro e tem uma participação em cada insucesso; em Picture, a Mulher mantém certo distanciamento, de modo que o seu confronto com o estranho se torna até mais evidente.

Para encerrar, só me resta insistir no privilégio que foi ter podido testemunhar essa estreia mundial, com direção musical do próprio compositor, com um elenco impecável por ele escolhido, e, da orquestra à direção cênica, com a equipe que costuma acompanhar o seu trabalho e as suas criações.

A ópera, sem dúvida uma das mais importantes estreias desse início de século, está disponível em vídeo na Arte e na Medici. Vale a pena conferir!