Mahler e Dvořák
Applaudito e apprezzato il concerto pasquale dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, diretto da Daniel Harding. Si esegue Blumine e la Sinfonia n. 1 in re maggiore “Titano” di Gustav Mahler, assieme al Concerto per violino e orchestra in la minore op. 53 di Antonín Dvořák. Solista è Joshua Bell, che si merita un’ovazione.
ROMA, 17 aprile 2025 – Il direttore musicale dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Daniel Harding, inanella due concerti consecutivi; dopo le Faustszenen schumanniane (leggi la recensione)della scorsa settimana, con il concerto ‘pasquale’ si va cronologicamente più avanti, in un romanticismo più maturo (Dvořák) e nelle ultime fasi estetiche di questo movimento (Mahler).
Il primo tempo si apre con Blumine, originariamente pensato come II movimento della Prima di Gustav Mahler, poi successivamente espunto, dimenticato e riemerso a metà del secolo scorso: fu Benjamin Britten ad eseguirlo ad Aldeburgh (1966) per la prima volta. Come al solito, Harding cura moltissimo il dato puramente sonoro: l’orchestra è calibrata millimetricamente, il suono è straordinario. Certo, la sua direzione è solida, geometrica, molto regolare, ma tralascia qualche vividezza, non coglie appieno qualche spunto – si pensi, invece, alla profumata freschezza dell’esecuzione, per esempio, di Seiji Ozawa. Si prosegue con il Concerto per violino di Dvořák, una perla, purtroppo, raramente eseguita. Solista è Joshua Bell, quest’anno in residenza artisticapresso l’Accademia. L’impianto agogico su cui Harding spagina la partitura assomiglia molto a quello di Blumine: grande attenzione alla struttura, una visione attentamente geometrica dell’agogica, un’espressività austera ma solida. Su questa sicura impalcatura si libra l’intenso lirismo di Bell. Nel I movimento, l’Allegro ma non troppo, ciò che colpisce è l’intonazione perfetta di Bell, la morbidezza della linea del violino, chiara, spessa, perfettamente udibile; encomiabile la capacità dell’americano di variare tale linea, con nobile espressività, gusto sopraffino. Lo si vede, in particolare, nella delicata malinconia con cui intona la melodia del I movimento, pur fra le variazioni e i virtuosismi che mettono a dura prova l’interprete. L’Adagio ma non troppo (II) è mirabile proprio per questo equilibrio che Bell riesce a trovare nel suono del suo Stradivari: una dolcezza chiaroscurale invade la sala al canto del violino, increspato dall’accompagnamento orchestrale. L’Allegro giocoso (III), che chiude il concerto, rivela il lato più virtuosistico dell’interprete: Bell sceglie un suono meno carico, più arioso, volteggiando nella spumeggiante melodia popolare, anch’essa inconfondibilmente slava. Il virtuosismo dell’interprete è qui messo alla prova, oltre che da passaggi in doppie corde e da escursioni di registro, pure da momenti più raccolti (la danza dumka). Alla fine, il pubblico applaude fragorosamente: Joshua Bell si congeda con un bis chopiniano: l’arrangiamento (di Milstein), per violino ed arpa, del Notturno op. 20.
Il secondo tempo è dedicato all’esecuzione della Prima di Mahler, anticipata da Blumine in apertura. La bacchetta di Harding, pur nel rigore agogico, nell’attenzione millimetrica all’impalcatura architettonica, nel “Titano” si abbandona all’estetica irresistibile della sinfonia. Il Langsam si apre con degli effetti di eco magnifici, sul pedale orchestrale increspato da legni e corni; poi, ecco, lo sbocciare della natura, la bacchetta di Harding si fa morbida, vellutata, il canto degli archi viene cullato dagli svolazzi aerei dei legni. A quest’orgia di cromatismi profumati segue il II movimento, Kräftig bewegt. Harding calca sull’universo sonoro creato qui da Mahler: «siamo subito proiettati nel mondo rustico di un ballo contadino, con un Länder scandito pesantemente […dove] per volontà di contrasti, la danza più umile è però messa a confronto con il Valzer» (così E. Napolitano, dal programma di sala). Harding fa un lavoro eccellente nello straniante terzo movimento, il più celebre dell’intera sinfonia (Feierlich und gemessen). L’effetto grottesco è dato dall’equilibrio miracolosamente ottenuto dall’armonia di contrari: motivi popolari, klezmer, scandiscono una marcia fiabesca ed inquietante al contempo, che ha necessità di una tensione musicale sempre palpabile, ma senza impedire che la morbidezza di alcuni passaggi ne risenta: «non vi è sinfonia di Mahler in cui in un modo o nell’altro non occhieggi la morte e qui quell’amara presenza viene evocata […] nelle modalità grottesche del funerale di un cacciatore […] è una marcia funebre da favola, da racconto fiabesco e bizzarro, una parodia intrisa di sarcasmo» (Napolitano). L’ultimo movimento, infine, esplode fragoroso e impegna Harding e l’orchestra in un complesso, titanico sviluppo, che culmina in un trionfale apogeo sonoro, scatenando l’entusiasmo del pubblico.
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