L’eterno fascino del Faust
All’Accademia Nazionale di Santa Cecilia tornano, dopo un quarto di secolo, le Szenen aus Goethes Faust di Robert Schumann, sotto la direzione di Daniel Harding. Fra i solisti spiccano i nomi di Christian Gerhaher, forse il massimo interprete vivente della parte di Faust, Christiane Karg, che ha eseguito un’ottima Margherita, e Falk Struckmann, cantante dalla blasonata carriera.
ROMA, 12 aprile 2025 – Dopo un quarto di secolo tornano nel cartellone dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia le Szenen aus Goethes Faust, monumentale opera incompiuta di Robert Schumann, un omaggio sentito del compositore a uno dei poeti che più l’hanno ispirato, Goethe; un’opera, le Faustszenen, dalla gestazione complessa e protrattasi per anni, senza che Schumann ne autorizzasse una rappresentazione pubblica in una qualche forma. Intento a cercare di rinnovare il linguaggio operistico tedesco, anzi di dare vita propriamente a una tradizione operistica teutonica, Schumann rivestì di musica frammenti dei due Faust goethiani, senza arrivare ad un risultato, forse, che lo convincesse appieno.
È Daniel Harding che riporta in Accademia le Faustszenen, opera che conosce assai bene giacché l’ha eseguita diverse volte e l’ha pure incisa (peraltro, con alcuni membri del cast presenti anche in questa occasione). Fin dall’ouverture, cronologicamente una delle ultime pagine che Schumann scrisse prima che la ragione lo abbandonasse, Harding si cimenta con una partitura di proteiforme complessità, non tanto per il virtuosismo dei passaggi, quanto piuttosto per la ricerca della giusta tinta per ogni quadro. Harding doma l’ouverture, dai passaggi cangianti, grazie ad una direzione ordinata e ad un volume orchestrale tutto sommato contenuto, che schiarisce nel finale, creando un effetto di verticalizzazione atto ad introdurre l’opera. L’orchestra suona ottimamente e così farà per tutta la serata. La prima parte ruota tutta attorno al personaggio di Margherita, qui interpretato da una smagliante Christiane Karg, dotata di una voce tutto sommato contenuta, ma argentina, molto espressiva, dal caldo vibrato, facilissima alla verticalizzazione, ottima nelle fasi di fraseggio, molto intensa nella ricerca del senso intimo del personaggio. Il suo momento clou è, chiaramente, la preghiera alla Mater Dolorosa (n. 2), dove si lascia apprezzare per un’interpretazione sublime; risulta, comunque, molto convincente anche nella successiva Scena del duomo (n. 3), dove dialoga con Falk Struckmann, qui nel ruolo dello Spirito Maligno. Grazie ad un’eccellente direzione di Harding, che poggia su un suono teso e pieno dell’orchestra e che incalza ritmicamente assieme alle riprese corali del Dies Irae, la scena risulta d’impatto. Nell’incipit della seconda parte, si nota l’abilità di Harding di spaginare l’impalcatura della partitura, solida, profondamente drammatica, pur non tralasciando momenti maggiormente aerei, come l’aria di Ariel, dove la musica si alleggerisce in una melodia comunque morigerata. A cantarla è Andrew Staples, veterano del ruolo (ha inciso la parte sia con Harnoncourt che con Harding), che sfoggia una voce squillante (soprattutto negli acuti della ripresa dopo il coro) e una morbida, piena linea di canto – doti che confermerà nell’aria del Pater Ecstaticus (Terza Parte). In questa scena emerge appieno anche il coro, fiore all’occhiello delle maestranze dell’Accademia: in «Wenn sich lau die Lüfte füllen» (n. 4) Schumann sceglie un dettato austero, quasi bachiano, nell’esprimere la volontà del coro di spiriti e folletti di consolare Faust per la perdita del figlio e di Margherita: la sensualità della materia è pudicamente contenuta – Wagner prenderà a piene mani da tutto ciò – e Harding giostra questa scena con notevole efficacia. Faust emerge veramente nell’aria che segue il suo ‘risveglio’: «Des Lebens Pulse schlagen frisch lebendig». Christian Gerhaher, forse il massimo interprete vivente della parte del protagonista, dona una performance praticamente perfetta: dotato di una voce centrata, duttile, vanta lievi riflessi argentei nel timbro, come pure una tecnica invidiabile, la quale gli consente di delibare tutte le emozioni del personaggio. La parte di Faust è calibrata, musicalmente, su un colore introverso, meditativo e scuro al contempo, che Gerhaher interpreta magnificamente, vista e considerata la sua bravura di liederista e la sua conoscenza profonda della scrittura vocale schumanniana. L’arioso in questione, una riflessione sulla vita, mostra le doti di Gerhaher come fraseggiatore, ma pure lo slancio e la verticalizzazione pura di cui è capace. Il momento, però, in cui Gerhaher stupisce maggiormente per qualità d’interpretazione è l’aria del Doctor Marianus (Terza Parte): un lavoro certosino sullo schiarimento della voce, come pure sul fiato, il canto a fior di labbra e gli effetti di messe di voce consentono all’interprete di raggiungere un puro effetto di rarefazione. Falk Struckmann, che avevamo già ascoltato come Spirito Maligno, riemerge nel finale della seconda sezione come Mefistofele. Struckmann, cantante di un certo peso, presenta una voce compatta, poco vibrata, dotata di armonici spessi, che non gode di uniformità (perde negli acuti) e ricorre sovente a una massiccia dose di muscolatura. La parte, però, consente anche ad una vocalità meno centrata di realizzare appieno il personaggio demoniaco: nel duetto con il Faust di Gerhaher, che stupisce sempre per nobiltà di accenti, variazione di volumi e abbandoni estatici, il Mefistofele di Struckmann non potrebbe ‘stridere’ maggiormente, a tutto vantaggio dell’esecuzione musicale: negli accenti finali, infatti, Struckmann palesa una resa più granulosa, sfoggiando comunque un centro spesso e squillante, che contrasta con la dimensione ieratica pensata da Schumann per queste ultime battute. La terza parte, la più ispirata dell’intera partitura, è quella che Harding legge meglio, con maggior attenzione e meditazione, quasi nota per nota. Il coro la fa da padrone, sfoggiando una linea di canto ottima, soprattutto negli accenti più raccolti e mistici: val bene citare il luminescente, paradisiaco coro degli angeli novizi, sorretto da una direzione di Harding sensibile proprio a questa luminosità. Parimenti, il coro di voci bianche dona una resa eterea, schiarendo compattamente la linea del canto; si pensi all’impalpabile esecuzione di «Freudig empfangen wir». È in questa sezione che si (ri)ascoltano tutti i comprimari: Alexander Roslavets, che si lascia apprezzare per la profondità del canto nella parte del Pater Profundus; Johanna Wallroth, che aveva regalato una spettrale resa della figura di Cura grazie ad un morbido, acuto vibrato, impalpabile; Rebeka Wallroth, Annelie Sophie Müller e Patricia Westley, ottime come Penitenti. Insomma, tutta la terza parte, così intensamente manichea nelle sue opposizioni chiaroscurali, è un capolavoro: il finale Chorus Mysticus stupisce per le trasparenze trovate dalla sensibilità del direttore, il quale fa risuonare l’ultima riflessione goethiana (e schumanniana) sulla transitorietà dell’esistenza terrena e sull’assoluto dell’eternità. Gli applausi invadono la sala, fragorosi.
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