Le ali della libertà
Mentre nel cartellone del Regio è in scena, in un'apoteosi melomane "all'antica", Andrea Chénier con Gregory Kunde e Luca Salsi, fa il suo debutto nella storica sala anche il coro del progetto Opera in carcere, già premiato dalla critica italiana negli Abbiati 2024.
Opera in carcere al Regio il 10 maggio
PARMA, 9 e 10 maggio 2025 - Nel giro di nemmeno ventiquattro ore, Parma mostra (almeno) due volti del suo essere città della musica. Venerdì 9 maggio, è la volta dell'anima melomane più viscerale e ruspante. È in cartellone Andrea Chénier, opera a tinte forti, fortissime, fatta per grandi voci e permeata di passioni estreme. Ed ecco servito a meraviglia il loggione parmigiano con un terzetto protagonista cui non difettano decibel e squillo, nel caso dei due uomini anche eloquenza e ardore. Saioa Hernandez, in effetti, non si può dire che manchi all'appuntamento di tutte le note di Maddalena di Coigny e che non superi l'orchestra con suono sempre caldo e timbrato, ma l'interprete risulta un tantino generica e un po' troppo matronale nel primo atto, là dove dovrebbe invece emergere il candore ingenuo dell'adolescente ignara della tragedia incombente. Chi invece ha fatto proprio in tutto e per tutto il proprio personaggio è Luca Salsi, osannato non solo con orgoglio cittadino come “enfant du pays”, ma anche e soprattutto per il carattere sanguigno con cui tratteggia un vero tribuno della plebe irruente, focoso, fiero, sensuale e tormentato. Vien da pensare che, se Paolo Albiani è stato nella sua anima nera il germe di Jago, la sua ambizione, il suo senso di rivalsa sociale e il suo odio di classe con Gérard hanno ricevuto, invece, una coscienza. Non stupisce il tripudio che impone al baritono parmigiano di ripetere “Nemico della patria” (questa sera, l'unico bis, mentre in altre recite anche “La mamma morta” e “Come un bel dì di maggio” sono stati replicati a furor di loggione). Non è da meno, l'eterno, miracoloso Gregory Kunde, in crescendo nel corso della serata fino all'affermazione dello squillo più imperioso in “Sì, fui soldato” e della più melanconica musicalità in “Come un bel dì di maggio”. Sempre ammirevole per chiarezza di fraseggio e finezza d'artista, Kunde si distingue sempre anche per l'empatia immediata che instaura con il pubblico senza mai bisogno di calcare la mano.
Se lo Chénier chiede moltissimo ai tre personaggi principali, con i loro ampi monologhi e i più ardenti slanci melodici, non minore e l'impegno dei comprimari, sempre sulla corda in cammei circoscritti come in catene di brevi interventi. Qui la locandina si presenta assai ben assortita e riesce a rendere credibile e commuovente la scena della Vecchia Madelon (grazie davvero a Manuela Custer: tanta sobria intensità è cosa rara) e a liberare dalla macchietta il racconto dell'Abate nel primo atto (grazie anche ad Anzor Pilia) al pari delle macchinazioni dell'Incredibile (preso finalmente sul serio come spia oscura da Enrico Casari). Anche il Sanculotto Mathieu si libera dallo stereotipo del rude sovversivo e grazie alla vocalità chiara e belcantista di Matteo Mancini sembra proporre un'anima giovane, idealista e ingenua della Rivoluzione contrapposta a quella già disillusa e in parte corrotta di Gérard. Bravi anche Arlene Miatto Albeldas, che offre un ritratto ben risoluto di Bersi, Andrea Pellegrini (Roucher), Lorenzo Barbieri (Pietro Fléville e Fouquier Tinville), Natalia Gavrilan (la contessa di Coigny), Eugenio Maria Degiacomi (il maestro di casa e Dumas). Il microcosmo dei comprimari è senz'altro valorizzato dalla volontà di Francesco Lanzillotta di esprimere la varietà della drammaturgia musicale di Giordano, tuttavia non si sfugge, specie in affinità con il vigore delle tre voci principali, a una certa qual enfasi che si porta via, per esempio, l'atmosfera rococò del primo atto, mentre “Ça ira” irrompe violenta come si conviene, incanalando l'esuberanza non troppo morbida dell'Orchestra Filarmonica Italiana. Il coro del Regio preparato da Martino Faggiani si fa apprezzare nelle pastorellerie come negli umori rivoluzionari.
La produzione firmata per la regia da Nicola Berloffa (ripresa da Florence Bass) con scene di Justin Arienti e costumi di Edoardo Russo è di quelle che nel complesso fan dormire ai teatri sonni tranquilli, tradizionali ma non troppo didascaliche (la scena è unica e pochi elementi servono a definire il passaggio dall'Ancien régime al Terrore), in cui tuttavia quando si esce dal binario della pedissequa adesione letterale si fatica a convincere: perché le Meravigliose dovrebbero pestare il Sanculotto? Perché tutti i condannati se ne stanno sulla pubblica piazza con la Legray che si allontana pacifica con i figlioli e la Laval-Montmorency che sale sulla ghigliottina sulle ultime note mentre sono stati chiamati i due amanti protagonisti? Perché il padre di Gérard prima viene strapazzato dal figlio su “T'odio, casa dorata” e poi, divenuto leader rivoluzionario (buon per lui!), viene osannato con il nome di Robespierre, Saint-Just, David etc? Peccati veniali, si dirà, perché questo Chénier è pieno di quel fuoco, di quel sangue e di quelle grandi voci che piacciono a Parma, e il Regio fa festa. E, dopotutto, non è questo sentimento viscerale, istintivo che ha fatto la fortuna di quest'opera in cui, forse, non è opportuno cercar di cavare chissà quali sottigliezze?
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Ali dorate
Dopo le radici sanguigne della melomania, sabato 10 maggio Parma mostra l'altro lato della sua vita musicale, quello che magari nei cartelloni sembra l'iniziativa “collaterale”, accessoria, ma che in realtà è la missione, il senso più fondamentale del fare arte, del fare teatro. Sono anche i cinquant'anni dalla nascita della Filarmonica Toscanini, che naturalmente propone concerti e iniziative nella sua bella sede, ma soprattutto affianca una delle sue idee più belle (il progetto Community Music) a una delle più belle proposte del Regio (il Manifesto Etico con il Verdi Off e Opera in carcere), quelle proposte che ci ricordano come chi fa musica non debba solo sfornare cartelloni per appassionati e addetti ai lavori, ma si integri nella società e faccia la sua parte per rendere questo mondo così malmesso un po' migliore.
Oggi nella sala del Regio fa il suo debutto il coro dei detenuti del carcere di Parma, quello stesso che ci aveva commosso con i suoi laboratori fra le mura del penitenziario, raccontandoci come l'opera sia anche scoperta di umanità e rispetto di sé e del prossimo, Ci avevano raccontato che quelle note e quelle parole con cui noi conviviamo ogni giorno spaccando in quattro il capello di questo o quell'interprete sono in realtà anche altro, che nel suo vocabolario d'affetti, nella sua capacità di comunicare, nella necessità di collaborare porti nuovi, insperati orizzonti di riscatto e rinascita a chi ha visto, subito e compiuto anche cose orribili magari solo perché gli era stata negata l'opportunità del bello e del buono.
Il Regio è blindato com'è d'obbligo in questi casi: camionette all'ingresso, all'interno pullulano agenti armati, tuttavia l'atmosfera è accogliente, commossa. È palpabile l'emozione di chi fino a qualche mese fa nemmeno sapeva che esistesse un teatro e ora si trova lì, sul palco dei più grandi, fra oro e stucchi, con i compagni di viaggio di sempre (il pianista Milo Martani e la maestra Gabriella Corsaro, anima infaticabile del progetto) e un ospite d'onore come Sandu Nagy, primo flauto della Toscanini, a dar loro manforte. Non dev'essere un conforto da poco, per qualcuno magari un'ulteriore responsabilità, ma di certo questi uomini che ne rappresentano anche altri (non tutti i partecipanti ai laboratori possono essere presenti e l'organico è per forza di cose fluido, fra chi viene scarcerato fra una prova e un concerto e chi, invece, si trova in restrizioni che gli hanno impedito di uscire) ce la mettono tutta e magari oltre che con le note non hanno nemmeno molta dimestichezza con la lingua italiana scritta (ma tutti, scrupolosi, tengono gli occhi sui loro fogli e sul gesto della direttrice).
Questi uomini con storie, origini, età, lingue diversissime e uniti da una vita precedente di errori ci appaiono solo e semplicemente come uomini che portano davanti a noi la loro emozione e il loro impegno, oggi sul palco e in futuro per una nuova vita. I loro portavoce leggono un messaggio e una poesia (in carcere c'è molto tempo per leggere e c'è chi lo fa sul serio...), poi è la musica, solo la musica a parlare, con un programma che ripercorre le opere in cartellone al Regio che avevano studiato nei loro laboratori, ma racconta anche una storia non senza qualche attimo d'ironia.
C'è L'elisir d'amore (autoironici il coro che annuncia Dulcamara e la Barcarola in duetto con Corsaro; commovente senza meno la Furtiva lagrima); c'è Un ballo in maschera (“Posa in pace”), Giovanna d'Arco (si rimane stupefatti di fronte alla vivacità ritmica e dinamica del coro dei diavoli), La bohème (“Che gelida manina” e “Vecchia zimarra”), infine, tutto il teatro canta “Va', pensiero”, ed è il più vero, il più bel canto possibile per dire che siamo insieme, che dalla sofferenza possono nascere la speranza e la virtù, che il canto può riaccendere l'anima. Tutte cose che magari scordiamo nelle nostre innumerevoli serate normali a teatro e riscopriamo oggi negli occhi umidi e concentrati di chi tutto questo lo vede ora per la prima volta. Un'occasione per loro, una lezione per noi.
Le parole istituzionali (Comune, Teatro Regio, autorità carcerarie) rimarcano l'importanza, la necessità del progetto, ma il cuore è lì, in una nota magari incerta, che però può dire molto di più di una tornita e perfetta: ci dice che se il teatro esiste è perché deve esistere una comunità, una comunità che accoglie, che aiuta, che cresce insieme, che insieme trova la strada per capire e correggere gli errori commessi.
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