L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Chénier e Chénier

di Roberta Pedrotti

La nuova produzione del Teatro Comunale di Bologna, la prima operistica della direttrice musicale Oksana Lyniv, convince nel riproporre un'opera popolare quanto problematica come Andrea Chénier, anche grazie all'alternanza fra i due ottimi protagonisti Gregory Kunde e Luciano Ganci.

BOLOGNA, 18 e 19 ottobre 2022 - Non è facile accostarsi ad Andrea Chénier. O, meglio, in superficie è facilissimo: la strada registica è quasi obbligata, tali e fondanti sono i legami con il contesto della Rivoluzione francese da risultare praticamente insostituibili; parimenti la vicenda si fonda sui topoi fra i più consolidati del melodramma (amore e morte, l'eroe idealista che affronta un potere avverso, il ricatto amoroso e il sacrificio virtuoso, colpa e pentimento) e la partitura conta un buon numero di melodie di grande effetto sapientemente alternate alle citazioni di Ça ira, Carmagnole, Marseillaise. Cantabilità appassionata in puro stile verista italiano, orchestrazione vigorosa e ambiziosa. Gli ingredienti ci sono tutti per quel che si definisce il perfetto prodotto nazional popolare, né vuole essere una diminutio, ché in fondo Andrea Chénier può essere un piacere proibito anche del melomane intellettuale, che magari ricorda i nonni che la canticchiavano o ne citavano qualche verso.

Il guaio è che, così, è pure facile scadere nel facile effetto trasformando il opolare in volgare e trasandato. Il guaio è che sotto le maschere consolidate della fanciulla bramata, perseguitata dalla sorte e votata al sacrificio amoroso, del poetico eroe senza macchia ma pure destinato a una brutta (per quanto sublimata) fine, del baritono reso cattivo dal desiderio e buono da un'innata nobiltà d'animo si cela un sottotesto difficile da digerire, in cui il dipingere in egual pessima luce l'aristocrazia sclerotizzata e la rivoluzione popolare, sembra proporre come unica soluzione un patriottismo militare, una sorta di rivoluzione reazionaria piuttosto sospetta già nell'Italia umbertina del 1896. Un ritratto ideologico quantomeno inquietante: figuriamoci con il senno di chi vive un secolo dopo l'ottobre 1922.

Con il senno di oggi, anche la scena della vecchia Madelon ci sembra mostruosa, con questa nonna che non paga d'aver visto morire in guerra figlio e nipote, si prodiga per far massacrare il nipotino appena adolescente. Tanto più che, con il senno d'allora, la cosa era invece eroica e commovente, uno dei molteplici contrasti insiti in un'opera che, sì, si può godere “di pancia” ma si mette anche in discussione. Non può essere altrimenti.

Con questo spirito ambivalente ci rechiamo a Bologna e siamo, con entrambe le compagnie di canto, soddisfatti. La tradizione nazional popolare, senza stagnare compiaciuta, è rispettata, sia con un cast che conquista copiosi applausi, sia con un allestimento che sostituisce alle scene dipinte le proiezioni e lo fa – evviva! – molto bene, senza incappare in effettacci ridondanti, ma dosando animazioni ben integrate con l'azione. Pier Francesco Maestrini (scene e video di Nicolas Boni, costumi di Stefania Scaraggi, luci di Daniele Naldi) fa un bel lavoro di regia didascalica (sia detto in senso positivo) e suggerisce come il primo atto sia un ricordo cristallizzato o l'esplosione di un fuoco che già covava sotto le ceneri, con gli abiti anneriti dal fumo dei nobili che preannunciano l'incendio finale del fondale ispirato al Pellegrinaggio per Citera di Watteau. La mamma contessa non muore sulla porta per salvare la figlia, ma quasi folle ostinata fra le fiamme nella gavotta, e si presume che Maddalena abbia idealizzato in modo eroico il trauma; ad ogni modo l'immagine è assai ben trovata. Magari non convince del tutto quando, riconosciuto che “la implorata Musa per sua bocca ridisse la parola” amore, la giovane Coigny additi il poeta fra coloro che l'hanno pronunciata “senza musa” (forse vuol sottolineare l'affronto?), tuttavia non si può dire che lo spettacolo non funzioni assai bene e assecondi senza cedimenti la drammaturgia di Illica per Giordano.

La concertazione di Oksana Lyniv, al suo debutto sul podio di un'opera completa nel teatro di cui è direttrice musicale, è bifronte. Da un lato si apprezza l'ottimo lavoro con l'orchestra, la realizzazione di un clima torvo, sempre ben delineato anche citazioni galanti o leggiadre, ma sempre intriso di violenza, senza speranza, consapevole, vien da pensare, del problema ideologico di fondo e per questo ancor più cupo e amaro. Ciò, però, porta anche ad asciugare e incalzare un po' troppo frasi in cui bisognerebbe lasciar più spazio al respiro della prosodia italiana: in tal senso, forse, il taglio interpretativo è influenzato anche dalla minore dimestichezza con la nostra lingua, specie là dove la si parla correntemente.

Per fortuna, quello dell'idiomaticità non è un problema nella compagnia, così come non lo è l'adesione alle esigenze della partitura soprattutto nella scottante parte eponima. Il 18 ottobre Gregory Kunde si presenta in gran forma, squilla in alto senza pregiudicare il legato, fraseggia da artista, distingue la poesia aristocratica e utopista del primo atto da quella fiera di “Sì, fui soldato” e quella intima e disperata di “Come un bel dì di maggio”, né si ferma agli assoli e alle frasi salienti o spreca una sola sillaba. Non è da meno Luciano Ganci, che offre un poeta più lucente, giovanile, se vogliamo lirico nella concezione, ma pure svettante e sicurissimo nelle frequenti salite sul pentagramma, chiarissimo ed eloquente nella dizione per non trascurare nessuna sfaccettatura del giovanotto “che fa versi” e ne fa “arma feroce contro gli ipocriti”, rivendica il suo ruolo attivo e muore invocando la poesia come “ultima Dea”.

Erika Grimaldi, Maddalena con Kunde, è una bella riscoperta dopo qualche anno dall'ultimo ascolto dal vivo: la voce ha acquisito sempre più rotondità e smalto, assecondando sia l'esordio fanciullesco e inconsapevole sia la progressiva, dolorosa evoluzione. Con lei, Roberto Frontali fa un Carlo Gérard né imponente né travolgente, ma ben cantato sulla parola, mentre la sera successiva Stefano Meo appare un po' troppo grossier senza peraltro esibire qualità vocali privilegiate. Un'ottima gestione dei propri mezzi è, invece, quella mostrata da Maria Pia Piscitelli, ascoltata pure con Ganci, con un timbro maturo e una piacevole ampiezza del canto.

Il resto del cast rimane immutato nelle varie recite e allinea Cristina Melis come ottima Bersi, Federica Giansanti Contessa giustamente stralunata, Manuela Custer Madelon dal fraseggio intelligente, che non si rifugia in affondi nel petto ma sfrutta le proprie caratteristiche per tratteggiare gli accorati sussurri della morente. Vittorio Vitelli è un Roucher di lusso, Nicolò Ceriani un implacabile Fouquier Tinville, Stefano Marchisio un egocentrico e spocchioso Fléville, Alessio Verna un rude Sanculotto Mathieu, Bruno Lazzaretti un Incredibile, Orlando Polidoro l'Abate, Luca Gallo maestro di casa e impeccabile carceriere Schmidt, Luciano Leoni Dumas. Con loro gli allievi della Scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone e della Scuola di Danza Arabesque, il coro assai ben preparato da Gea Garatti Ansini (ben riuscito lo spettegolare che precede il processo).


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